Dossier

La storia medioevale

Dal primo novecento al fascismo

Pietro Fedele, autore di opere sul ducato di Roma, su Bonifacio VIII, sui giubilei del 1300 e del 1350, sul Senato romano nel medioevo, mantenne, di Cipolla, il rispetto per la scuola filologica tedesca (che il Gabotto e la sua “Società” non mancarono di denunciare, con pesanti polemiche, come pedissequa esterofilia), ma a differenza del predecessore si comportò da docente dell’Università del tutto indifferente alle altre istituzioni culturali torinesi, né indirizzò alcun suo studio sulle fonti locali. Non mutò i suoi indirizzi di studio, concernenti soprattutto la Chiesa, l’Italia centrale e il tardo medioevo. Escursioni verso periodi anteriori (con ricerche sul ducato longobardo di Gaeta e sulla cultura italiana nell’abbazia di Montecassino) lo fecero esprimere con vigore, e a favore della “romanità” del medioevo italiano, sul dibattito ottocentesco, e caro anche a Cipolla, circa la prevalenza di Romani o Germani nei processi formativi della tradizione italiana.

L’ attività torinese di Fedele - terminata nel 1914, quando ottenne il trasferimento a Roma - non risentì del suo impegno politico successivo al 1924, come parlamentare e poi ministro dell’Istruzione pubblica del governo fascista: ma evidentemente il suo credo profondamente conservatore non era bastato a fargli instaurare un contatto con gli ambienti sabaudisti torinesi, anche per le sue convinzioni cattoliche in netto contrasto con il massone Gabotto e i suoi collaboratori.

In gran parte d’Europa la medievistica di quegli anni - sotto l’urgenza degli scontri fra identità nazionali - stava praticando una storia politica molto tradizionale, lontana dalla storia delle istituzioni e dalla storia della civiltà (fiorenti soprattutto in Germania alla fine del secolo XIX), mentre in Italia si assisteva alla transizione dall’indirizzo filologico-erudito a quello economico-giuridico. In parallelo era in corso, in Italia, un “rinnovamento guelfo” della storiografia. E proprio un religioso piemontese, Placido Lugano, fondò nel 1906 la “Rivista storica benedettina”, e ne affiancò la cura alla robusta attività di studioso del monachesimo della regione di Tortona che trattò - e questo va a speciale merito dell’autore - con attenzione originale per gli aspetti sociali ed economici: creò così le basi per la ricerca quasi pionieristica su La vita economica delle abbazie piemontesi che nel 1939 avrebbe poi pubblicato un sacerdote, Francesco Gosso.

A questa situazione bipartita (storia ufficiale evenemenziale, innovazioni nascoste in ricerche locali e confessionali) reagì con l’eclettismo il nuovo medievista chiamato nel 1915 a coprire la cattedra torinese di “Storia moderna”: Pietro Egidi, viterbese, amico di Fedele e come lui formatosi alla scuola romana di orientamento storico-filologico. Non si trattava soltanto di temi di ricerca (da Necrologi e libri affini della provincia romana a Ricerche sulla popolazione dell' Italia meridionale nei sec. XIII e XIV, pubblicato proprio poco dopo la chiamata torinese), ma di convinzione che, nel passaggio di generazione in generazione, fosse naturale un mutamento delle domande rivolte al passato, suggerite da diverse urgenze culturali del presente. Mentre praticava una storia “politica” non aliena dalle accentuazioni e dagli strumenti dell’orientamento economico-giuridico, mentre taceva pervicacemente sulla guerra mondiale che aveva vissuto in prima persona, Egidi fece (a differenza del predecessore Fedele) una scelta tutt’altro che ispirata all’isolamento nel contesto storiografico torinese.

Impartiva lezioni su grandi temi di storia politica (regno longobardo, impero carolingio, crociate), ma mirò a costruire una sua scuola e, anche per perseguire questo obiettivo, si aprì ai temi regionali, mettendo in sintonia le proprie ricerche con le tesi di laurea, in particolare su vicende e strutture del Piemonte durante le lotte tra Carlo V e la Francia. Coordinò un gruppo di giovani che, per ampliare le conoscenze sulla storia sabauda nei secoli XV e XVI, lavorassero su documenti dell'Archivio di Stato di Torino, di archivi di famiglie nobili piemontesi e valdostane, persino dell'archivio di Simancas in Spagna, dove – con il finanziamento dell’industriale torinese Gualino - si procedeva allo spoglio di documenti inediti dei Savoia fra Cinque e Seicento.

Con l’attività di Egidi la frattura fra le due culture storiografiche torinesi andò ricomponendosi. Nel 1923 assunse la direzione della «Rivista storica italiana» (che aprì considerevolmente alla storiografia internazionale); nel 1928 fu cooptato come socio della Deputazione di storia patria, mentre si impegnava in ulteriori ricerche sui Savoia, a ciò stimolato da un progetto editoriale della Paravia. Internazionalismo di rapporti (è noto un giudizio molto positivo su Egidi formulato da Fernand Braudel) e concretezza anche locale delle indagini: due caratteristiche che facevano sedimentare a Torino il gusto per la ricerca documentaria non disgiunto dalla consapevolezza del dibattito storiografico.

Tre gli strumenti adottati: la guida di un gruppo costituito intorno alla cattedra universitaria, la direzione e il rilancio della più importante rivista storica, i contatti - non disdegnati - con chi, in Deputazione e altrove, praticava essenzialmente storia locale. Non si deve pensare che fosse un’attività facile, se mantenuta a livelli qualitativi rigorosi. A partire dalla fine degli anni Venti si era creata, in virtù di un comune e generico conservatorismo, una connessione tra fascismo, istituzioni accademiche e storiografia sabaudista: nel 1935 la Società storica subalpina fu, per disposizione governativa, assorbita nella Deputazione subalpina di storia patria, che per otto anni fu presieduta dallo storico del diritto Silvio Pivano, docente di Storia del diritto italiano e rettore dell’Ateneo. Anche attraverso uno studioso di valore come Pivano si intensificò la volontà di controllo sulla coerenza fra ricerca, insegnamento e indirizzi governativi. Un controllo che, proprio a Torino, si inceppò di fronte a opposizioni culturali manifeste o a libertà di pensiero mantenute sotto traccia: ma non era certo la storia medievale il settore più sensibile alla purezza antireazionaria.

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