Dossier

Leggi, guarda, tocca. La scienza nei giornali, in tv e...

La sfida di tradurre dall'italiano all'italiano

Qualche anno fa (1993), Alan Cromer, un distinto fisico americano da poco scomparso, pubblicò con la Oxford U.P. un libro dal titolo suggestivo, Uncommon sense1, nel quale forniva molti buoni motivi per ritenere che il pensiero scientifico sia accidentale e precario: sarebbe nato in Grecia, un po' per circostanze fortuite legate alla particolare vicenda della civiltà greca; sarebbe sopravvissuto grazie alla curiosità degli arabi e alla compilazione di testi scritti; sarebbe risorto grazie al recupero di questi testi nel Rinascimento e alla curiosità di personaggi come Kepler, Galilei e pochi altri, una minoranza assoluta. Ma avrebbe potuto scomparire se non avesse avuto questi puntelli occasionali e fortuiti e potrebbe scomparire nuovamente se una catastrofe azzerasse la civiltà attuale. Il pensiero scientifico è, appunto, uncommon, innaturale, e dipende fortemente da condizioni al contorno che attenuino la dominanza del pensiero irrazionale. "Catastrofe" qui non sta per catastrofe naturale ma anche e, forse, soprattutto, per cambiamento radicale di interessi culturali e della struttura sociale. A titolo di esempio, voglio riportare come vedeva questo rischio John William Draper2 , uno studioso inglese dell'800 riferendolo alla storia dell'avvento della Chiesa istituzionale, cioè come potere temporale e non solo come credo religioso:

"Il partito pagano é[...] sosteneva che la conoscenza va conseguita solo tramite l'uso solerte dell'osservazione e della ragione umane. Il partito cristiano sosteneva che ogni conoscenza va ricercata nella Scrittura e nelle tradizioni della Chiesa; e che, nella rivelazione scritta, Dio ci ha dotati non solo di un criterio di verità, ma ci ha anche muniti di tutto ciò che Egli voleva che noi conoscessimo. Perciò, la Scrittura contiene la totalità, il fine di ogni conoscenza. Il clero, spalleggiato dall'impero, non avrebbe tollerato concorrenza intellettuale alcuna [...]"

Ho sottolineato l'ultima frase perché è esattamente ciò che chiamerei "catastrofe". Naturalmente, se al posto di un Dio si mette un'altra finalità, per esempio il profitto, anziché un obiettivo culturale generale e condivisibile, il risultato può essere ugualmente catastrofico.

Tuttavia, della dominanza del pensiero irrazionale nelle sue forme più anonime, direi "di fondo", abbiamo segni tangibili più che travolgenti: esso è spesso il fondamento della comunicazione di massa e della cattura del consenso; stravolge il confronto dialettico, raggiunge punte insospettabili di violenza nei conflitti; alimenta l'intolleranza, crea illusioni e afflizioni. Secondo Cromer, i greci ebbero, a differenza dei popoli che li circondavano, l'eccezionale ventura di non essere governati da monocrazie ereditarie, di non avere una religione monoteista, di intrattenere quieti rapporti commerciali con popoli diversi, di credere nella cultura e nella scuola, di essere convinti della possibilità di risoluzione dialettica delle controversie. La legge, l'etica erano, presso di loro, frutto di analisi basata sui fatti, elementi di una realtà sociale vissuta e accettata perché, in qualche modo, ottimizzata. Sicché si faceva strada l'abitudine a sviluppare le argomentazioni probanti, all'apice delle quali si trova, se le aspirazioni intellettuali non sono troppo meschine e anguste, la dimostrazione matematica: come non stupirsi ancora del fatto che una cultura di 3000 anni fa sapesse dimostrare, senza possedere nonché carta e penna nemmeno i simboli con cui oggi rappresentiamo queste cose, che √2 non è un numero "razionale", esprimibile cioè come rapporto di interi (che, per inciso, è ancora incomprensibile alla maggior parte dei nostri contemporanei)?

La funzione dello scrittore di scienza per il pubblico è, oggi, a mio parere ancora in ombra. Ho citato Cromer perché, nonostante fosse un fisico ricercatore militante nel campo degli esperimenti sulle particelle elementari con acceleratori di alta energia, sentiva che "molte cose si devono e si possono dire", al di là delle mirabolanti scoperte moderne; e non vengono dette. Di solito, chi scrive di scienza per un lettore ignoto, si trova in un imbarazzante dilemma stilistico: spiegare? sbalordire? metaforizzare? divertire? Eccetera. Ciascuno ha il suo modo, i suoi gusti. Ma ci vorrebbe un accordo, un codice: Giovanni Maria Pace ha raccontato su la Repubblica dell'11 aprile le innumerevoli, troppe, devianze analizzate nei quotidiani dall'Osservatorio Universitario di Pavia; sembrano davvero un po' troppo frequenti e comuni. Forse, è il modello di "lettore ignoto" che è sbagliato: chi scrive divulgativamente immagina di dover adescare un lettore restio e svogliato, che non ha intenzione di imparare ma solo di riconoscere ciò che già sa o di trovare spunti che rafforzino qualche sua stravagante concezione (pensate ai numeri ritardati del lotto o alla telepatia o ai sogni premonitori); il buffo compiacimento per il dejà vu lo confermerebbe il fatto che la sola formula ammessa dai giornali è E=mc2 , non perché la gente la capisca veramente ma perché è stata usata come il prezzemolo.

Io penso però che ci siano alcune possibilità non ancora ben sfruttate che dovrebbero essere sperimentate sulla stampa ospitale e provo a farne un elenco:

1 Le figure. Ai tempi di Isaac Newton, la gente si chiedeva come mai i sassi cadono e la Luna no. Già c'è sotto un equivoco: cadere, per i più, vuol dire fare un tonfo al suolo, sulla Terra. Newton se la cavò con un disegno, uno schizzo essenziale che vi faccio vedere: non ha nemmeno bisogno di spiegazioni. Oggi, abbiamo mille modi per fare figure, anche animate, assai espressive: ma, badate, nella figura di Newton non è la qualità artistica che conta, è l'idea. Ebbene, molti divulgatori dovrebbero produrre idee grafiche e, francamente, mi sembra che non lo facciano mai. Il mio compianto amico Bruno Touschek insegnava disegnando, beato lui; non tutti ne sono capaci, io non vedo figure con gli "occhi della mente", ma penso che sia un mio handicap.

2 La storia. Le scienze moderne sono su una brutta china: come Attila e i suoi Unni, bruciano i territori di cui si impadroniscono. Della storia delle idee non resta quasi traccia. C'è una vera e propria frenesia di tradurre i risultati in linguaggio canonico e archiviarli nei trattati. D'altra parte, gli storici della scienza hanno il difetto tipico degli eruditi e degli archivisti, di occuparsi di anticaglie riesumate da documenti e di vivere in un mondo separato da quello in cui la scienza vive. Servono appena, storici siffatti, a tratteggiare i caratteri dei personaggi e a rapportarli alle vicende del loro tempo (guerre, autocrazie dominanti e interessi economici e industriali, soprattutto); meglio se la vita del grande nome è tormentata da vicende politiche o sentimentali piccanti. Delle idee di Galilei si sa meno che dei suoi cattivi rapporti con la Chiesa; di Evariste Galois si sa che è morto in duello; di Pierre Curie si sa che era il marito di Marie; delle idee di Enrico Fermi si sa molto meno che del suo lavoro per la bomba atomica; di Ettore Majorana si sa soprattutto che è "misteriosamente scomparso", oppure si sa delle visioni apocalittiche che gli sono state gratuitamente attribuite da Leonardo Sciascia e su cui si sono esercitate coorti di morbosi commentatori. La storia delle idee è un settore quasi nuovo e molto promettente, bisogna potenziarlo perché le idee filtrerebbero da essa in modo naturale: ma forse è necessaria una figura professionale nuova (spero che i Master come quello della Sissa di Trieste la identifichino bene). In ogni caso, per me è scandaloso che l'insegnamento della fisica, della matematica, della biologia e di tutte le scienze nelle scuole secondarie sia stato deliberatamente depurato della loro storia.

3 Le condizioni al contorno. Come ho già detto, l'uncommon sense delle scienze si sviluppa in ambiente ostile. Non voglio ripetere quanto già accennato circa l'ostilità degli irrazionalismi, su cui forse si concorda troppo facilmente senza poi rifletterci abbastanza per cercare rimedi (non facili; la vicenda Vanna Marchi ha portato alla ribalta l'enormità del coinvolgimento popolare ma non ha scalfito i programmi di chi non era direttamente incriminato: la TV manda ancora in onda i suoi oroscopi). Le condizioni al contorno più sfavorevoli sono quelle che stabiliscono dominanze intellettuali di altra natura che non il pensiero razionale; sono quelle che portano tra l'altro al vistoso calo (in tutto il mondo) delle iscrizioni alle facoltà universitarie scientifiche. Nessuno sa darmi un'idea ragionevole "razionale? "del perché i giovani si iscrivono a frotte a sociologia o psicologia o scienza delle comunicazioni , dando per scontato e tradizionale il classico affollamento a giurisprudenza. C'è un senso della formazione culturale che a me sembra rifletta molto una ricerca opportunistica dell'ottimizzazione dei vantaggi con minimizzazione dello sforzo: la laurea è un titolo vantaggioso? Si.Prendiamola! La specificità degli studi è indispensabile? No! E allora, perché faticare con la matematica o con i laboratorî? Ci sono lauree non scientifiche con cui si può fare di tutto: dirigere un giornale, una banca, un grande magazzino, un aereoporto, una agenzia di viaggi, un club di vacanze, una ditta di spedizioni, una fabbrica di scarpe, un'agenzia pubblicitaria, un ufficio comunale; con stipendi eccellenti. Avete mai visto un fisico in uno di questi posti? O un biologo, o un matematico? No. Dunque, chi sceglie di occuparsi di scienza lo fa per sé e solo per sé. Uno "sfizio", direbbero a Napoli. Al punto di suggerire qualche dubbio sull'utilità sociale della costosa ricerca fondamentale; come sembra che ce l'abbiano già e ben radicato - Moratti e Tremonti. La ricerca fondamentale sto per dire un'enormità sembra che sia una aspirazione residuale dei paesi in via di sviluppo o di quelli che vogliono riscattarsi da un passato dominato da forze oscurantiste. Non è più in primo piano nei paesi che l'hanno potenziata nei decenni passati, come se una moda culturale stesse tramontando in quei paesi e, nel nostro, più che in altri. Ma questo avviene in un brodo di provincialismo che dovrebbe toccare il buon gusto degli intellettuali: possibile che, da un momento all'altro, qualcuno possa interrompere un’attività riconosciuta a livello mondiale per agevolare affari particolari ? A mio parere, bisogna trovare il modo di parlare della qualità culturale universale del pensiero scientifico, evitando per quanto possibile di esasperare il sentimento popolare con tormentoni in cui banalmente si attribuisce alla "scienza" la responsabilità di ogni calamità e il vero e il falso si confondono irrimediabilmente nell'opinabile.

La mia esperienza viene da venti anni di direzione (gratuita, beninteso) della più vecchia rivista divulgativa italiana: Sapere, classe 1935. Un vero bimestrale underground, che si sta avviando a diventare un samiszdat. Mai sovvenzionato da leggi sulla stampa, mai aiutato dall'onnipotente pubblicità, mai adottato da un ricco imprenditore. L'emarginazione dà un senso effimero di libertà: Sapere è una specie di "salottino" in cui alcuni amici possono parlare persino di reattori e rifiuti nucleari, ogm, ottusità governativa e così via. Vero è che a suo tempo ho avuto minacce dagli animalisti, insulti dagli ambientalisti e volgarità antinucleari: ma siamo così innocui che un bello sfogo verbale è sufficiente a soddisfare i "contrari". A me sembra incredibile ma gratificante che alcune grandi testate riprendano a volte nostre idee senza citare la fonte, come se fossimo "concorrenza". Mi scappa da ridere. E' la stranezza di questo modo di fare che mi fa ridere; ma anche un inveterato ottimismo. Al quale non intendo rinunciare: in fondo, forse è per questo che mi avete invitato; e vi ringrazio.

1 Edizione italiana: L'eresia della scienza, Raffaello Cortina, 1997

2 History of the Conflict between Religion and Science, H.S.King, London, 1876; v. anche D.C. Lindberg, La Scienza e la Chiesa delle origini, in Dio e Natura, La Nuova Italia, 1994

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