Cannabis: antichi rimedi, nuove applicazioni
Pochi sanno che nell’Ottocento le foglie comunemente note con il termine di “marijuana” erano utilizzate per aumentare l’appetito nei soggetti inappetenti. Questo utilizzo fu tralasciato all’inizio del Novecento, per via degli aspetti sociali non desiderati e correlati al consumo di questa pianta.
Quella che può sembrare un’applicazione ormai antica e in disuso ha fatto nascere nella mente di alcuni ricercatori una domanda molto attuale: ma se io conosco come agisce la marijuana nell’organismo e ne blocco la funzione, diminuisco l’appetito?
L’interesse nel trovare la risposta risiede nel fatto che il nostro corpo produce una sostanza simile a quella presente nella cannabis, da cui prende il nome: endocannabioide. Si tratta, in realtà, di un’intera classe di composti che assolvono compiti diversi, tra i quali attenuare le sensazioni dolorose e rinforzare il desiderio di sensazioni piacevoli.
La conoscenza del funzionamento a livello molecolare di queste molecole ha permesso di sviluppare una serie di nuovi farmaci che ne bloccano la funzione. La sperimentazione animale, pubblicata sulla rivista medica Lancet, ha dimostrato che le cavie che assumono questo farmaco non solo mangiano di meno, ma nutrono un interesse minore nei confronti dei cibi più gustosi.
Dal momento che gli endocannabioidi provocano sensazioni piacevoli, inizialmente si pensava che il blocco del loro meccanismo d’azione agisse semplicemente diminuendo l’interesse verso i cibi appetitosi. In realtà, gli studi hanno dimostrato che non solo influenza direttamente la sensazione di sazietà ma agisce anche a livello di tessuto adiposo, facilitando il consumo dei grassi.
Chi potrà utilizzare questo farmaco? Innanzitutto, è necessario aspettare l’esito della sperimentazione che ne valuterà la sicurezza, le dosi adeguate e l’efficacia nell’uomo. In secondo luogo, gli studi preliminari e la conoscenza chimica della molecola permettono di prevedere che con molta probabilità non sarà un farmaco adatto alle persone ansiose, poiché agisce sui centri che regolano la sensazione di ansia.
Un'altra classe di molecole interessanti sono le proteine disaccoppianti presenti nelle piccole centrali energetiche delle nostre cellule, i mitocondri. Questi organelli trasferiscono l’energia ricavata da zuccheri e grassi nelle pile elettriche delle cellule, l’ATP, utilizzate da tutti gli altri apparati cellulari. Il sistema prevede una procedura di trasferimento degli elettroni che trasportano l’energia attraverso diversi dispositivi molecolari, fino ad arrivare ad accumularli nell’ATP. Le proteine disaccoppianti si intrufolano tra i dispositivi provocando la dispersione degli elettroni, la cui energia si consuma con il movimento cinetico all’interno della cellula, liberando calore. Queste proteine sono state identificate inizialmente nel grasso bruno, deputato al riscaldamento del nostro organismo e alcuni gruppi di ricerca le stanno studiando in vista di poterne sfruttare la funzione in terapia, in quanto permettono di bruciare molta energia e, quindi, facilitare il consumo di grassi.
Su questo versante, è stato scoperto che agendo su un recettore dell’adrenalina (quello beta-adrenergico), si aumenta la produzione delle proteine disaccoppianti, il calore prodotto dalle cellule e il consumo di grassi.