Dossier

"It's like if": il potere degli exhibit negli science center e nei musei, tra immersione e illusione

Immersione senza illusione: dalle visite nelle stive al dialogo nel buio

Concludiamo questo ‘tour’ per nulla esaustivo tornando dal virtuale al reale. Per quanto siano importanti e ammirevoli gli sforzi in un ambito di ricerca come quello descritto, restano pur sempre fondamentali le esperienze ‘di prima mano’. Nella storia dei musei – soprattutto di quelli legati alla tecnica – si è sempre fatto uso di vecchi modelli dimessi di aerei o navi o locomotive che, dietro opportuni riadattamenti, potessero costituire dei veri e propri luoghi di visita, cercando di restituire, per quanto possibile (anche grazie all’ausilio di diorami e altre ‘strategie’) esperienze della vita vissuta da capitani coraggiosi, soldati semplici, trasvolatori oceanici e quant’altro. Certo: non c’era la realtà virtuale, ma una buona dose di fantasia spesso riusciva a far sognare comunque.

Museo della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci Attualmente in Italia importanti musei come il «Leonardo Da Vinci» di Milano propongono, tra le attività didattiche ‘immersive’ per i ragazzi (ma non solo), «teatro e giochi scientifici per rendere speciali una festa, una giornata e qualsiasi momento passato al Museo» . Tra queste c’è ‘Una notte al museo’, dove si sta «con pila e sacco a pelo per vivere il Museo quando tutti se ne sono andati. Avventure a tema che conducono i ragazzi alla scoperta dei segreti nascosti nelle sale e nei laboratori interattivi. […] I ragazzi dormiranno nel Museo e potranno scoprire in modo inedito ed emozionante le collezioni visitandole di notte, assistendo ad alcune animazioni scientifiche ed incontrando scienziati di ogni epoca». (Museo nazionale della scienza e della tecnologia «Leonardo Da Vinci», guida alle attività 2003/04)

In un contesto diverso, ma pur sempre nel momento magico della chiusura del museo, si muove «Città della Scienza» di Napoli, dove i bambini possono pernottare per osservare il cielo in una lezione di astronomia in cui vengono coinvolti, come… stelle! Durante l’incontro ‘Macramè’ a Trieste ho avuto la possibilità di dialogare con uno degli animatori di queste notti con i bambini. Per i più piccoli, che si annoierebbero terribilmente, hanno escogitato dei giochi in cui devono disegnare delle stelle su dei grandi fogli di carta colorata che poi si mettono addosso per essere proprio quella stella. Il tutto diventa ‘magico’ alla luce di una lampada di Wood. Abbiamo parlato dell’importanza dell’esperienza tattile e, a proposito di ‘esperienze di prima mano’, mi piacerebbe raccontare quella che è accaduta a me, alla fine di novembre 2003. Mi trovavo a Monaco di Baviera in occasione della conferenza annuale di ECSITE (European Collaborative for Science, Industry and Technology Exhibitions) e Matteo Merzagora mi consiglia di andare a provare «Dialogo nel buio», un pezzo (l’ultimo) di una ‘mostra’ molto più articolata che veniva portata in giro per l’Europa.

Dialogo nel buio Ad accogliermi l’italianissima Laura Gorni che mi spiega quel che sarebbe accaduto. Si tratta di entrare nel buio completo di un ambiente che ‘simula’ perfettamente una situazione reale. È necessario spegnere anche il cellulare per evitare distrazioni e illuminazioni che l’occhio di un non vedente non potrebbe mai avere. L’ambiente scelto per Monaco era il bar: si entra con un bastoncino da cieco – utile a non sbattere la faccia contro qualche ostacolo – e ad accoglierti trovi una persona non vedente, molto gentile e affabile, che ti chiede se vuoi consumare qualcosa, se vuoi fare due chiacchiere, se ti vuoi sedere, ecc.

Io sono stato accolto da Monica (o forse Monika), una ragazza dalla voce dolcissima con la quale ci siamo intesi in un misto di italiano e inglese. Ci siamo presentati e mi ha detto che avrei dovuto, in quell’ambiente, fidarmi di lei. Mi ha accompagnato inizialmente per mano, ma poi ho imparato quasi subito a capire da dove proveniva la sua voce. Nel bar c’era in effetti un po’ di vivace trambusto (ovviamente come accade in un bar reale, gli ‘avventori’ non eravamo solo io e lei, ma molti altri – vedenti e non – che chiacchieravano) e musica di sottofondo. Ci siamo diretti verso il bancone per una consumazione: ho chiesto del vino e il barman, ovviamente non vedente, mi ha gentilmente chiesto di esprimere una preferenza: rosso o bianco? Un dettaglio che io non avevo specificato per lo stupido pregiudizio di chi sa che un non vedente non può distinguere i colori: la sua domanda mi ha fatto sentire stupido e superficiale. Ho scelto per il rosso e Monika ha declinato l’invito dicendomi che se avesse dovuto accettare tutti i drink che le venivano offerti ad ogni visita si sarebbe ubriacata ogni giorno. Sento il bicchiere che poggia sul bancone e mentre continuiamo la nostra conversazione cerco di capire col tatto dov’è, facendo una timida scansione della superficie di fronte a me con la mano, per evitare di far danni. Riesco ad individuarlo quasi subito e capisco che è un bicchiere a calice: riesco ad afferrarlo e avverto il primo vero sfasamento propriocettivo: mi sembra che il percorso per arrivare alle mie labbra sia lunghissimo, ma si tratta solo di calibrare meglio il tiro. Arriva il momento di pagare. Sono tre euro e cinquanta. So a malapena dove ho il portafoglio e non penso neppure per un momento di tirare fuori il portamonete: e chi riesce a capire quante monete e di quale taglio sono contenute al suo interno? Il problema è che nel portafoglio non so né quanto banconote ho, né di quale taglio: ne tiro fuori una a caso e il barman mi dice «Ah, un pezzo da cinquanta euro!», e io che non so come giustificare la scelta. Lui, probabilmente abituato, non batte ciglio e mi appoggia il resto sul tavolo, facendo in modo che io possa percepire un piccolo rumore. Raccolgo il tutto che ripongo confusamente dentro al portafoglio e andiamo a sederci per un po’ di chiacchiera con Monika: lei è bulgara, ma vive in Germania da molti anni. Le chiedo come mai conosce un po’ di italiano e dice che è stata per dei periodi dalle parti di Siena e così cominciamo a parlare un po’ della Toscana, dell’Italia e di altre questioni. Mi sto abituando e il buio quasi non mi infastidisce più: la vista si ‘spegne’ in favore di tutti gli altri sensi che sembrano acuirsi. Faccio già meno fatica rispetto a quando sono entrato quindici minuti prima, ma ahimè è l’ora di andare.

La saluto e dopo che lei mi ha accompagnato fino ‘alla soglia del buio’, ritrovo la strada per uscire da me. Esco ammutolito da questa esperienza: questo è il ‘grado zero’ dell’immersione, penso, alla faccia dell’iperstimolazione sensoriale di cui siamo oggetto nel mondo in cui viviamo.

L’esperienza è stata ideata da Andreas Heinecke, che nel 1983 comincia a lavorare come giornalista e documentarista presso la radio Sudwestfunk di Baden-Baden: è qui che viene a contatto per la prima volta con persone non vedenti, quando gli viene chiesto di seguire la formazione di un giornalista cieco. Dopo due anni di lavoro giornalistico, decide di lasciare la professione. Elabora, a questo punto, un progetto che esplora la possibilità di integrare i non vedenti nel mondo dei media e va alla ricerca di una ‘piattaforma’ per realizzare questa idea. Da questi tentativi di integrazione, avendo ben chiaro il percorso di sensibilizzazione necessario per realizzarla efficacemente, nasce «Dialogo nel buio».

Suggerimenti