Dossier

Personaggi in cerca di Majorana

L'ipotesi filosofico-esistenziale

Majorana interpretato da La Contrada Un filone rappresentativo di tipo filosofico-esistenziale si deve soprattutto al saggio di Russo Ettore Majorana - un giorno di marzo, da cui sono tratti un’opera teatrale (messa in scena dalla regista Luisa Crismani e rappresentata nel 1997 dalla compagnia del teatro stabile di Trieste La contrada) e un documentario televisivo.

Russo mette in scena un finale in cui il protagonista si suicida, probabilmente buttandosi in mare nel viaggio di ritorno del traghetto postale Palermo-Napoli, la sera del 27 marzo del 1938. La giustificazione del suicidio è ampiamente approfondita in tutto il suo libro e ha radici in una complessa interpretazioni che esclude la facile soluzione del gesto disperato.

Russo sostiene fortemente questa ipotesi. Ma quale tipo di suicidio? Le tesi di Schopenhauer, nel Il mondo come volontà e rappresentazione che, secondo Russo, dovevano essere ben note a Majorana, darebbero delle indicazioni precise:

"Noi non siamo altro che volontà, il cui fenomeno è una esistenza evanescente, è sempre un nullo, vano, aspirare, è l'intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono".

In questa esistenza di sofferenza, di dolorosa illusione, di mancanza di reali appagamenti, secondo Schopenhauer, l'unica contraddittoria salvezza si realizza in una qualche forma di annullamento del sé. Nel momento in cui l'uomo prende coscienza dell' "orrore dell'essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno", solo allora, può rinnegare "quell'avida volontà di vivere, che tutto riempie e in tutto si agita".

Ma ciò per Schopenhauer, come sottolinea Russo, non significa suicidio. Il suicidio per disperazione, per mancanza di realizzazione dei propri desideri, per troppo dolore è in fin dei conti un atto estremo di volontà, e quindi, ancora un atto di vita, o di ricerca di quella Vita che al suicida viene negata.

Esiste però un'altra forma di suicidio, in cui ci si lascia morire e disgregarsi, in cui, dice Schopenhauer: "la completa negazione della volontà può raggiungere il punto, in cui vien meno perfino la volontà occorrente a mantenere mediante il cibo la vegetazione del corpo. Tal maniera di suicidio proviene da tutt'altro che dalla volontà di vivere: quell'asceta rassegnato appieno cessa di vivere sol perché ha cessato affatto di volere".

L'ipotesi esistenziale sostenuta da Russo è che la scelta di Majorana sia proprio di quest'ultimo tipo. Quando, in effetti, Majorana scrive una delle sue ultime lettere a Carrelli, direttore dell'Istituto di Fisica di Napoli, dice: "Ho preso una decisione che era ormai inevitabile, non c'è in essa un solo granello di egoismo".

Ettore Majorana - fumetto Martin Mystére 2 In quest'ultima parola sembra rivivere il pensiero di Schopenhauer. Il suo gesto, sottolinea Majorana nella lettera, non sarà egoistico, perché, per quanto probabilmente definitivo, non nasce dalla violenta affermazione del sè.

Come dice Russo, quella frase scritta da Majorana, "suggerisce piuttosto l'idea del lasciarsi andare, a un dissolvimento volontario, ma inevitabile, dentro il nulla: un lento perdersi, sciogliersi nel mare".

Siamo arrivati al mare. Dunque, all'epilogo. Infatti, è proprio a questo punto che Russo, nella sua narrazione, ha bisogno di rappresentare, direbbero dei teatranti, di mettere in scena la morte di Majorana. Preziose sono, soprattutto dal punto di vista letterario, le parole del fisico Giuseppe Occhialini, che aveva incontrato Majorana a Napoli alcuni giorni prima che scomparisse e che, stando a quel che dichiara nell'intervista riportata da Russo, ne aveva intuito i propositi di suicidio.

Sono parole che forniscono all’autore lo spunto per la conclusione della vicenda. Giuseppe Occhialini

Occhialini associa la morte di Majorana a quella di Martin Eden, personaggio dell’omonimo romanzo di Jack London. Per quanto Russo riporti solo in nota poche parole tratte dal romanzo di London, è proprio lì, che si concentra tutto il finale drammaturgico dell'intrigo che sapientemente ha saputo costruire e che abbiamo ricordato all'inizio di questo saggio:

"Le luci della nave già svanivano in lontananza…si lasciò andare, sprofondò inerte e immobile come una statua, nel mare. Scendeva, scendeva verso il fondo, sempre più giù…Le mani, i piedi si agitavano ancora debolmente, spasmodicamente, ma egli aveva previsto quella ribellione della carne, aveva ingannato l'estrema rivolta dell'istinto. Era troppo lontano dalla superficie dell'acqua. Gli parve di navigare, d'un tratto, fra onde tranquille, fra magiche visioni di sogno. Colori delicati e smaglianti, luminosità perlacee e iridate lo circondavano, lo avviluppavano, lo pervadevano. Che cos'era quella luce bianca, accecante? Sembrava un faro, ma era dentro di lui, nel suo cervello, nella sua carne. Tremolava, ondeggiava, balenava, sempre più vivida, sempre più rapida. Udì un rombo assordante, e gli parve di scivolare lungo un pendio liscio e immenso, morbido e interminabile. Quando ne raggiunse il fondo (come? Dove?) precipitò nelle tenebre. Seppe solo questo: che era caduto nelle tenebre. E nello stesso istante in cui lo seppe, cessò di saperlo".

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