Dossier

La "clinica" dei capolavori

Intervista a Lidia Laura Rissotto, direttrice della SAF

Lidia Laura Rissotto si è formata a Roma presso l’Università «La Sapienza» e l’Istituto Centrale per il Restauro (ICR). È stata direttore operativo del cantiere dedicato ai dipinti murali in frammenti di Giotto e Cimabue nella Basilica superiore di San Francesco d’Assisi e direttore operativo dei lavori sui dipinti murali della Sacrestia della Chiesa di Nostra Signora di Loreto a Lisbona. Rissotto Lidia Laura Ha curato la progettazione della documentazione per l’«Ultima Cena» di Leonardo da Vinci in Santa Maria della Grazie a Milano. Ha partecipato in qualità di esperto ai gruppi italiani ed europei per i software tecnici (Narcisse, NORMAL/G/DM, Cristal); ha svolto attività di docenza presso diversi istituti, tra cui la Scuola Normale Superiore di Pisa, la Scuola di Alta Formazione dell’ICR e l’Università di Conservazione Beni Culturali della Tuscia. Numerose le pubblicazioni scientifiche a suo nome. Coordinatore dei laboratori di restauro cuoio, carta e tessuto dell’ICR, è dal 2006 direttore della Scuola di Alta Formazione (SAF) del Centro di Conservazione e Restauro «La Venaria Reale».

Dottoressa Rissotto, il Corso di laurea quinquennale a Venaria è giunto al secondo anno accademico: quanti sono gli allievi? Quali sono le principali materie di studio?

Adesso in tutto gli allievi sono 39: 19 dell'anno scorso e 20 di quest'anno. La formazione del restauratore si basa su conoscenze storiche, scientifiche e tecniche, quindi i corsi riguardano anzitutto le tecniche del restauro, le varie metodiche esecutive, le nozioni basilari sui diversi manufatti, la conoscenza approfondita delle differenti cause di degrado delle opere. Poi ci sono materie più “tradizionali” come chimica, fisica e storia dell'arte.

Questo spiega perché il Corso di laurea nasce dalla collaborazione della Facoltà di Lettere e di quella di Scienze fisiche, matematiche e naturali...

Esatto. Il Centro di Venaria, d’altronde, ha colto la formula vincente sperimentata per più di mezzo secolo dall'Istituto Centrale del Restauro di Roma e dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze e cioè l'interazione stretta tra la formazione teorica (appannaggio delle Facoltà “tradizionali”) e l’attività dei laboratori di restauro e scientifici. La caratteristica di base, imprescindibile, è l'interdisciplinarietà: occorre unire sotto un'unica formula insegnamenti scientifici, storici e tecnici. Una caratteristica che le attuali Facoltà universitarie non possiedono, tanto più in Italia, dove a lungo è prevalsa la separazione netta tra i due saperi. Ancora oggi, purtroppo, la formazione del restauratore deve inserirsi per forza all'interno di uno schema universitario che non prevede una simile figura professionale.

Attivando un Corso di laurea per la formazione di restauratori in convenzione con la Fondazione di Venaria, l’Università di Torino è stata la prima in Italia a dare risposta alle direttive espresse nel Codice dei beni culturali e del paesaggio (ddl 42/2004)…

inaugurazione corso laurea SAF Vero, tuttavia, in attesa dei decreti attuativi dell’art. 29 del medesimo decreto legge, siamo ancora costretti a ricondurre l’ordinamento didattico del Corso di laurea alla disciplina stabilita per la classe di laurea 41 (Laurea in tecnologia per la conservazione e il restauro dei beni culturali). Di fatto, però, la classe 41 identifica il percorso attraverso cui si formano i tecnici in diagnostica, coloro cioè che si dedicano alle analisi scientifiche. Ma questo è chiaramente solo un aspetto della conservazione e sarebbe riduttivo per un restauratore limitarsi ad esso. A Roma è in corso un tavolo di trattative tra tutte le parti in gioco nella formazione del restauratore (Università, Accademie, Ministeri...) per attuare finalmente quanto scritto nel Codice del 2004.

Quando si arriverà a una formula definitiva?

Entro la fine di marzo 2008 i partecipanti al tavolo delle trattative dovrebbero presentare la proposta definitiva, che andrà poi in commissione d'esame al Ministero. I tempi sembrano ormai abbastanza ravvicinati. E, soprattutto, sono maturi: il problema del riconoscimento formativo del restauratore risale infatti a fine anni Ottanta. Purtroppo in questo momento un po' tutte le Facoltà universitarie paiono in sofferenza: passare dal vecchio ordinamento (in 4 o 5 anni) alla formula del 3+2 non è stata una scelta ottimale.

Quante ore riservate alla teoria e quante alla pratica?

A grandi linee la stessa quantità di ore, secondo quanto indicato come iter formativo ideale. Questo spiega anche perché il corso è a numero programmato, con non oltre 20 persone per anno e selezione iniziale.

In cosa consiste la selezione iniziale?

In tre prove d'esame: due scritte e una orale. La prima delle prove scritte è di disegno, per valutare la capacità di controllo della mano. Non si tratta quindi di realizzare un disegno "accademico" ma “a contorno”, per verificare la capacità di cogliere i dettagli, riprodurre, ingrandire o diminuire l'immagine d’insieme. In genere i candidati arrivano da licei scientifici, classici e artistici: non c'è prevalenza dell'uno sull'altro. Abbiamo sempre anche 3-4 laureati o laureandi: chi viene dalle Facoltà umanistiche o da quelle scientifiche ha competenze parziali che deve integrare, sia dal punto di vista teorico che pratico. Finora gli allievi hanno espresso giudizi molto positivi sui nostri corsi.

Chi sono i vostri docenti?

Per le materie “tradizionali” i docenti sono per lo più professori ordinari delle due Facoltà. Per gli insegnamenti relativi al restauro, assenti sia a Lettere che a Scienze, l’Università indice specifici bandi di concorso. Non a caso, quando è partito il Corso di laurea a Venaria, abbiamo promosso come Scuola di Alta Formazione un corso per formatori, volto a preparare un gruppo di professori specializzati in restauro, che oggi fanno parte del nostro corpo docente.

CCR laboratorio dipinti tela e tavolaIn cosa consiste la collaborazione con l’Istituto Centrale del Restauro di Roma e l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze?

Anzitutto va detto che i direttori di ICR e OPD fanno parte del Consiglio scientifico del Centro di Venaria. La collaborazione si concretizza nel partecipare a definire le linee guida per quanto riguarda i problemi attinenti la conservazione e, inoltre, in alcune attività formative. Lo scorso anno, ad esempio, abbiamo condiviso con l'ICR un cantiere estivo sui dipinti murali. I nostri quattro studenti del settore hanno affiancato altrettanti studenti romani. È stata un'esperienza molto costruttiva, culminata a dicembre 2007 con una giornata di presentazione dei risultati a Venaria, a cui hanno partecipato gli otto studenti coinvolti, i docenti e il direttore-storico dell’arte responsabile.

Com’è oggi il mercato del lavoro per i conservatori dei beni culturali?

Faticoso. Il restauratore, infatti, ha come principali committenti gli enti pubblici (anzitutto le Sovrintendenze), che tradizionalmente hanno budget di spesa piuttosto limitati. Quindi non possono corrispondere grandi compensi. Purtroppo questa situazione rispecchia un atteggiamento “altalenante” nei confronti del patrimonio artistico: gli sforzi sono intensi quando l’intervento sull’opera promette un ritorno economico più o meno immediato (si tratta, ad esempio, di beni sfruttati nell’allestimento di mostre o eventi), ma sono praticamente nulli quando il fine è attuare una politica di tutela conservativa allargata. Ovviamente per questo secondo obiettivo il Ministero dovrebbe stanziare un budget ben più alto dell'attuale, data anche la vastità del patrimonio artistico-culturale italiano. Alla modesta disponibilità di spesa delle Sovrintendenze occorre ancora aggiungere la scarsa tutela professionale del restauratore. Non c'è un Ordine o un’associazione di categoria che stabilisca un tariffario minimo e massimo per le prestazioni a fronte di precisi capitolati di spesa. I compensi vengono definiti a livello regionale e, dunque, in modo disomogeneo sul territorio nazionale. Il restauratore, insomma, deve sottomettersi a una legge di mercato non definita dalla professione.

Quindi oggi conta soprattutto la passione, più che le prospettive di guadagno…

Proprio così. Credo, d’altronde, che questo spieghi anche la forte presenza femminile tra i restauratori: le donne da sempre sono abituate a lavorare parecchio senza attendersi lauti compensi. Non è giusto, ma è un retaggio culturale persistente e ampiamente sfruttato.

Nel tempo la parola «restauro» ha acquisito vari significati, spesso in aperta contraddizione. Cosa si intende oggi con tale termine?

Non c'è dubbio che il significato sia cambiato molto. Oggi è, per così dire, più approfondito e ricco, proprio come la professione. Un tempo il restauro era legato a chi aggiustava un oggetto. Poi però si sono delineate meglio sia la figura dell'artigiano sia quella del restauratore e la distinzione è diventata fondamentale: l'artigiano è colui che crea l'oggetto, il restauratore è colui che conserva. Brandi Cesare Al punto che, se durante il restauro appare necessario ricostruire la parte mancante di un certo manufatto, interviene l'artigiano, non il restauratore. Negli ultimi decenni ci si è resi conto che, al di là dell'estetica dell'oggetto (che deve sempre apparire bello), è importante conservare la sua autenticità, preservare l'ispirazione originale dell’autore. Anche perché, diversamente, ci si esporrebbe al rischio di sottomettersi alle mode del momento. Dunque non si può più agire sulla superficie, ma solo sulla struttura del manufatto. Nel caso di un dipinto murale, ad esempio, si andrà a valutare anzitutto lo stato di conservazione del muro: l'oggetto è considerato nella sua tridimensionalità, non solo a livello superficiale. Questo “nuovo” approccio risale in realtà agli anni Settanta e alle riflessioni storico-filosofiche di Cesare Brandi. Oggi il restauro è inteso anzitutto come conservazione e prevenzione dal deterioramento, inclusa la manutenzione nel tempo degli stessi restauri. È ormai chiaro a tutti infatti che, terminato il restauro di un'opera (es. il «Cenacolo»), è indispensabile proseguire con un programma di mantenimento dei risultati raggiunti, per cui periodicamente si andrà a controllare in che stato è l’opera, se si è impolverata, se l’ambiente conservativo garantisce parametri idonei alla preservazione nel lungo periodo (in termini di temperatura, umidità, pulizia dell’aria...). Perché, nel restauro come nella salute, «prevenire è meglio che curare»: occorre intervenire il meno possibile, soprattutto per limitare operazioni invasive.

Veniamo a una polemica che ha fatto molto discutere gli addetti ai lavori, innescata a ottobre 2007 da Salvatore Settis e Carlo Ginzburg: le pare sensata la loro proposta di una moratoria sui restauri? La provocazione dei due studiosi partiva dal fatto che, a fronte di un’attenzione esasperata e spettacolare nel confronti delle grandi opere, quelle minori sono quasi dimenticate; inoltre gli interventi di restauro sarebbero talora troppo invasivi, poco rispettosi dell'idea originale...

Sono critiche che colgono nel segno, perché puntano il dito contro due problemi reali. Tuttavia la proposta di una moratoria mi pare eccessiva. È evidente che occorrerebbe scaglionare meglio le operazioni di restauro, assegnando un ordine di priorità in base all'urgenza dell’intervento, al di là della fama dell'autore. Per quanto riguarda l'invasività di certi restauri, è indispensabile arrivare al più presto a una “normalizzazione” della formazione del restauratore. Oggi come oggi, infatti, chiunque decida di fare il restauratore può procedere senza grandi investimenti formativi. Basta recarsi alla Camera di commercio e artigianato locale e iscriversi come restauratori: dal giorno dopo, in teoria, si può mettere mano su qualunque oggetto. D'altronde solo da poco tempo a questa parte le Sovrintendenze subordinano la committenza di un restauro all’esibizione di curriculum vitae e certificazioni della propria qualifica professionale. La situazione è ancora molto fluida.

E qui il cerchio si chiude...

Sì, torniamo alla questione della formazione, che è davvero fondamentale. L'Istituto Centrale del Restauro di Roma è stato fondato nel 1939: fin da allora il Ministero competente stabilì che qualunque corso di restauro in Italia doveva avere l'autorizzazione da parte dell'ICR. Purtroppo la norma non è mai stata presa in considerazione. E la situazione è ulteriormente peggiorata quando è subentrato il decentramento regionale della formazione: ciascuna Regione ha provveduto a fare formazione in autonomia attivando i più fantasiosi corsi di restauro. Nel mucchio, chiaramente, ci sono state anche iniziative molto serie (come a Passariano, Brescia, Spoleto, Genova...), ma le più erano scadenti, a livello di hobbistica e di stage estivi. Questo spiega perché talora sono stati compiuti interventi inopportuni su certe opere: la deregulation è pericolosa. Settis e Ginzburg, insomma, hanno ragione anche da questo punto di vista, ma da lì a bloccare ogni restauro con una moratoria restano parecchi margini di manovra. Sicuramente la loro è stata una provocazione volta a far discutere. In Italia, purtroppo, si parla molto poco delle problematiche legate al restauro, soprattutto sui mass media.

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