Dossier

Design, architettura & innovazione: Torino "capitale mondiale"

Al lavoro tra “archistar”, grattacieli ed edilizia sostenibile

elmetto cantiere Cosa significa oggi fare l’architetto? Quali competenze si debbono avere? A quali difficoltà si va incontro? Ne abbiamo discusso con Giorgio De Ferrari, che ha insegnato per molti anni alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, formando schiere di professionisti.

Professore, partiamo da una domanda volutamente provocatoria, utile però a fissare dei paletti. Uno dei temi conduttori del XXIII Congresso mondiale Uia è stato la «vocazione democratica» dell’architettura, che deve rispondere ai problemi urgenti nell’era della globalizzazione (es. mobilità pubblica, abbattimento dell’inquinamento cittadino, creazione di nuove centralità nelle periferie, integrazione multi-etnica…). Qual è, allora, la differenza rispetto al lavoro degli ingegneri e dei tecnici, che tradizionalmente si occupano della soluzione pratica di quei problemi?

Credo che le differenze possano essere inesistenti o immense. Il Politecnico, d’altronde, unisce le competenze e la preparazione di architetti e ingegneri e, ora, anche dei designer con i corsi avviati di recente. La cultura politecnica ha quindi tre rami: ingegneria, architettura e design, che di fatto sono tutte professioni tecniche. La distinzione tra l’architetto e l’ingegnere, in particolare, è piuttosto complessa. Credo che la vera differenza, almeno in teoria, stia nel fatto che l’ingegnere conosce bene le tecniche, l’architetto le conosce meno bene (o, comunque, sa come usarle ma non come metterle tutte in pratica), però ha una preparazione umanistica maggiore. Le problematiche che oggi ci troviamo ad affrontare (inquinamento, integrazione multietnica...) hanno bisogno di grandi “tecnici”, ma forse prima ancora di chi ha la sensibilità di avvertirne l’urgenza. L’architetto, detto brevemente, è colui che definisce il problema e la sua dimensione, il tecnico o l’ingegnere risolve gli aspetti che l’architetto non è in grado di definire tecnicamente. Comunque il lavoro è sempre più di équipe: per affrontare certi problemi sono indispensabili anche altre competenze, come quella del chimico, del sociologo, del geologo, dello storico…

Guggenheim museumLeopoldo Freyre, relatore generale del Congresso, ha detto che «l’architettura contemporanea è autoreferenziale». Anche il card. di Torino Severino Poletto, intervenendo a una tavola rotonda, ha affermato che «molti architetti badano solo ad affermare se stessi, anziché a esprimere le esigenze delle altre persone». E c’è anche chi ha parlato della necessità di passare dagli «ego-architetti» agli «eco-architetti». Sono giudizi validi per tutta la categoria o soprattutto per le cosiddette “archistar”?

Sono considerazioni molto giuste, che condivido pienamente. Direi che valgono soprattutto per le “archistar”, ma non solo. Infatti i grandi architetti sono modelli per tutti gli altri e quindi il loro “difetti” si estendono, per emulazione, all’intera categoria, sebbene in forma via via più attenuata. La colpa tuttavia non è dell’archistar, ma della società in senso lato. Qualunque amministrazione pubblica locale vuole accaparrarsi il grande nome, perché accende i riflettori su di sé e porta consensi. Un esempio tra tutti: il Guggenheim di Bilbao è diventato un punto di riferimento architettonico a cui tutti gli amministratori, grandi e piccoli, si ispirano; tutti vogliono il loro “piccolo Guggenheim” ed è un disastro. Ritengo che questo sia un aspetto cruciale, sul quale al Convegno si è discusso, ma non abbastanza.

Dopo cinque giorni di dibattiti intensi, il “paradigma ecologico” è emerso come questione di fondo: la nuova frontiera è l’architettura post-consumistica. Ma invertire la rotta è davvero possibile? Le cosiddette “archistar” finiranno con il badare anche alla sostenibilità ambientale delle opere, e non solo più al loro impatto emotivo, evocativo e spettacolare?

Ha letto i resoconti sull’ultimo G8 a Toyako? È la stessa storia. Voglio dire: hanno detto che c’è un problema e che lo affronteranno, ma non hanno preso provvedimenti. Insomma: un conto sono le parole e un conto sono i fatti. Credo che per invertire la rotta anzitutto dovrebbero cambiare le richieste delle pubbliche amministrazioni. In tutta la storia dell’architettura il committente è una figura centrale determinante. Proposte architettoniche moderate, realistiche e funzionali spesso sono considerate “banali” proprio dai committenti. Bisogna cambiare mentalità. E le scuole possono fare molto. C’è anche da dire che questo impegno più “ecologista” è recente, quindi vedremo cosa accadrà. Ma sono abbastanza pessimista.

Rinunciare al grande nome, d’altronde, per un politico o un amministratore pubblico è un atto molto coraggioso, perché implica rinunciare a notorietà e consenso sociale “scontato”...

Vero. Ma il grande nome, se è tale per riconosciuta abilità professionale, dovrebbe capire che i problemi da affrontare sono altri rispetto alla ricerca della soluzione eclatante fine a se stessa. E proposte valide, avanzate da questi “maestri”, sarebbero certamente di grande aiuto al cambiamento di mentalità.

Al Congresso si è discusso parecchio della sostenibilità ambientale dei grattacieli. In particolare sembra che oltre i 36 piani di altezza perdano qualsiasi convenienza economica (senza contare il fatto che rendono i panorami cittadini estremamente omologati). Perché si continuano a fare, se è vero che la priorità dichiarata è fare un’architettura sostenibile anche dal punto di vista ambientale?

Il grattacielo è indubbiamente un elemento che rende i panorami delle città indistinguibili gli uni dagli altri. Tanto più se ce ne sono tanti. Per seguire la mostra «Piemonte Torino design» in giro per il mondo ho avuto modo di visitare diverse città cinesi: la presenza di grattacieli le rende tutte uguali, soprattutto quelle di recente sviluppo. Senza contare poi che la qualità di questi edifici non è neppure lontanamente paragonabile a quella straordinaria dei casi “da manuale”, di riferimento internazionale. Credo che i grattacieli si continuino a fare, nonostante tutto, per speculazione. Qualcuno in modo molto ingenuo pensa ancora che siano sinonimo di progresso, ma basta dare uno sguardo alle città asiatiche affollate di grattacieli per capire che non sono molto evolute in termini di qualità di vita. Sono realtà “isteriche”, con zone, come quelle degli uffici, che di notte si svuotano; nell’insieme risultano alienanti e non certo piacevoli. È evidente dunque che il motivo che induce a costruire in questo modo è fondamentalmente economico, con l’aggiunta di una componente di auto-gratificazione per il progettista o la committenza. Ma che il bello si misuri con il metro e in altezza è assolutamente ridicolo...

grattacielo TorinoMassimiliano Fuksas ha dichiarato: «Se si costruisce un palazzo sotto i 200 metri di altezza non ne parla nessuno. Solo sopra i 400 metri si comincia a discutere. Per essere al passo coi tempi è necessario progettare in verticale»...

Non escludo affatto che sia così, ma occorre lottare perché non sia più così e la gente finalmente apprezzi una costruzione bella e valida, indipendentemente da quanto è alta. Che il metro dell’architettura sia l’altezza, ripeto, è demenziale ed è sintomo di un bassissimo livello culturale. Se Fuksas lo dice come dato di fatto, ha ragione. Però da lì occorre partire per cambiare lo stato delle cose. Anche tra le star della musica vale più o meno lo stesso principio: più uno è strambo, più desta interesse e acquista notorietà. Ma allora, procedendo di questo passo, l’uomo non può più dirsi tale: l’intelletto che lo contraddistingue viene messo da parte. E poi, se è vero che il turismo va incentivato come importante risorsa economica, allora occorre fare in modo che le città risultino originali, con una propria identità forte e distinta. Ciascun contesto urbano deve poter offrire un’esperienza diversa. Torino, ad esempio, possiede caratteristiche architettoniche e urbanistiche molto marcate: dovrebbe imparare a puntare su esse e valorizzarle. Sono discorsi banalissimi che però si scontrano con chi pensa che, indipendentemente da tutto, più alto vai con le costruzioni più evoluto sei.

Ma quanto conta il fattore economico-speculativo?

Parecchio, perché è chiaro che più piani costruisci, più locali hai da vendere. Però è anche vero che ci sono soglie in cui la convenienza economica è discutibile. Inoltre, se uno progetta in modo coscienzioso, tenendo conto del contesto, sa che ogni oggetto incide sull’insieme. Quindi se decide di fare una certa costruzione, deve pensare di organizzare anche una serie di servizi necessari affinché questa non risulti dannosa per il sistema: costi aggiuntivi che andrebbero valutati attentamente. Senza contare altri aspetti fondamentali che non sono valutabili in termini di denaro: l’identità cittadina è uno di questi. Le conseguenze di scelte sbagliate sono enormi e irrecuperabili.

piazzale Valdo Fusi - TorinoLe comunità locali (come quella torinese che si oppone ai grattacieli) sono davvero in grado di giudicare l’opportunità di un progetto architettonico?

Credo (e l’ho anche teorizzato nei miei lunghi anni di insegnamento) che il coinvolgimento dell’utente alla definizione del progetto sia importante, purché sia preceduta da un’adeguata opera di informazione. Perché il giudizio di persone che normalmente non sanno nulla di una certa materia (in campo architettonico come in quello energetico o medico), e conoscono solo ciò che hanno vissuto ma non quello che potrebbero vivere, è evidentemente inadeguato. Ha senso solo se prima ci sono un’acculturazione e un’informazione adeguate. A Torino si potrebbe fare l’esempio in negativo del piazzale Valdo Fusi. È stata fatta una consultazione popolare, senza organizzare prima un percorso informativo. Poi tutto è ulteriormente degenerato perché, alla fine, la giuria tecnica ha scelto un progetto che non era neppure quello indicato dai cittadini. Era già sbagliato far esprimere un giudizio senza che le persone avessero appropriata conoscenza del problema, ma ancora più scorretto è stato non tenerne conto. È pur vero che tutte le informazioni necessarie a valutare in modo corretto un certo progetto forse non le possiede nessuno, tuttavia il riferimento ai valori di più ampio respiro è fondamentale. Nel caso dei grattacieli ci si dovrebbe chiedere: qual è l’identità urbanistica della città e come va tutelata? Credo, inoltre, che sia essenziale sgombrare il campo da un equivoco diffuso: il grattacielo non è l’emblema dell’avanguardia di una città. Solo dopo aver fatto tutte queste considerazioni, si può discutere se costruire questo genere di edifici in un posto piuttosto che in un altro, se farne più di uno ed erigerli in modo coordinato... Nel caso Torino sono dell’idea che la città ha caratteristiche particolari ben distinguibili: se le valorizziamo, resterà straordinaria; se, invece, cediamo ai grattacieli, la renderemo uguale a molte altre.

Al Congresso sono intervenuti relatori di molti Paesi differenti: sono emerse sostanziali differenze di approccio tra le varie aree geografiche?

Premesso che non ho sentito tutti i relatori, posso dire che, come spesso capita, ho udito tutto e in contrario di tutto. Valga per tutti l’esempio degli architetti giapponesi: provengono da una nazione che in certe zone è distrutta e sconvolta dal punto di vista architettonico e urbanistico, ma sono anche capaci di manifestare una sensibilità ambientale che è tanto convincente da lasciare scombussolati. La stessa nazione insomma produce poeti minimalisti e distruttori globali. In definitiva, è difficile dire in assoluto se un certo territorio produce un tipo di architetto piuttosto che un altro. La verità è che gli opposti coesistono. E non solo in Giappone, ma un po’ dappertutto. Tutto ciò, ovviamente, lasciando da parte le differenze a livello di ricchezza e di ambiente, che inevitabilmente differenziano gli uni e gli altri.

Nel comunicato stampa finale del Congresso si legge che «in Italia manca una normativa che regoli e definisca nelle sue linee essenziali l’attività dell’architetto». È così?

In parte sì, purtroppo. Da questo punto di vista è stato molto interessante quanto ha dichiarato ministro Biondi, secondo il quale il vero problema italiano è che i grandi appalti di norma sono vinti da chi si fa pagare meno. Il metro di giudizio è il costo minore, non la qualità della proposta. E questo vale sia per il progetto sia per la costruzione. È un dato di fatto su cui tutti hanno concordato: le costruzioni del settore pubblico sono sempre realizzate dalle imprese che fanno il maggiore ribasso. Il risultato è un disastro programmato. Biondi ha concluso dicendo che questa stortura va corretta. Credo che il fatto di averne preso atto pubblicamente sia un passo avanti, anche se la questione avrebbe meritato un maggiore approfondimento.

Nello stesso comunicato si legge che «l’Italia è il Paese delle mille leggi e manca quella che regola l’arte che ci ha resi famosi in tutto il mondo: l’architettura»…

Alle volte si dice che le regole devono essere le più vaghe possibile, altrimenti tolgono libertà. In Italia la professione dell’architetto in qualche modo è regolamentata: potrebbe esserlo di più o meno o esserlo diversamente. Ma dire che proprio non lo è mi pare eccessivo. Non si può affermare altrettanto per i designer, per i quali effettivamente non c’è una normativa di riferimento.

pannelli fotovoltaiciCosa significa fare un’architettura ecosostenibile?

Occorre fare una premessa importante: esistono un’architettura e un’edilizia definite ufficialmente «ecologiche», a cui fa riferimento ad esempio il sistema «CasaClima» diffuso in Trentino Alto Adige. Ritengo che gli edifici realizzati seguendo tale metodica siano importantissimi a livello di sperimentazione e di modello, ma ciò che più preme è che tutta l’edilizia si faccia carico di questi problemi. Perché se vogliamo davvero abbattere l’inquinamento globale, dobbiamo cambiare la stragrande maggioranza degli edifici esistenti: non possiamo limitarci a costruire ex novo case “estreme”; tutte devono diventare a basso impatto. Il problema principale è, ovviamente, economico: alcuni tipi di edificio, per poter raggiungere la passività assoluta, richiedono investimenti che oggi non stanno sul mercato. Fortunatamente negli ultimi 5 anni il prezzo dei pannelli fotovoltaici è sceso di 10 volte, un po’ per i progressi tecnologici e un po’ per gli incentivi fiscali, a cui alcune Regioni, come il Piemonte, hanno aggiunto bandi per elargire contributi diretti. Ma occorre anche tenere presente che questi concetti stanno diventando oggetto di consumismo e speculazione. Sicché molte aziende cercano di cavalcare la nuova “moda”, esibendo certificati che attestano la conformità dei loro prodotti al nuovo “paradigma” ecologico. Ma un conto è fornire certificazioni su manufatti usati nei test, che sono nuovi e provati in condizioni di lavoro ottimali, altro conto è la prestazione dei prodotti di serie, utilizzati in contesti “non controllati”: alla fine, insomma, l’utilizzatore crede di aver acquistato performance di un certo livello, ma in realtà sono inferiori, soprattutto con il passare del tempo e, spesso, in relazione al montaggio, che non è detto sia effettuato “ad arte”.

Quali sono le principali difficoltà della professione oggi?

La prima, per quanto lapalissiana, è trovare i clienti. Per mille ragioni. Una è che i lavori più consistenti sono ormai appannaggio dei grandi studi. La seconda è che il numero dei professionisti è molto aumentato: gli architetti italiani sono un terzo del totale europeo e questo comporta inevitabilmente una frantumazione del mercato. Terza ragione, non meno importante, è la crisi economica generale.

E in tempi di ristrettezze economiche l’italiano medio cerca di risparmiare sui costi rinunciando all’architetto e accontentandosi magari del geometra...

Questo discorso forse è meno valido per i progetti nelle grandi città, ma è senz’altro vero per le piccole committenze private extra-urbane (le classiche villette fuori porta). C’è da dire però che è sempre stato così: non è un fenomeno legato a questa precisa congiuntura economica. La causa della crisi del lavoro di oggi, insomma, non è la “concorrenza” dei geometri, che c’è da sempre, ma tutte le altre cause menzionate prima.

burocraziaCi sono altre difficoltà?

Purtroppo sì. Una volta trovato il cliente, altro scoglio è centrare il progetto, non per quanto dipende da noi (ogni progetto è una sfida appassionante), ma per i vincoli burocratici. Non è solo una questione di libertà espressiva: si tratta di soddisfare le richieste del cliente prevedendo tutte le difficoltà che ciò comporta. Spesso infatti capita che l’architetto riesca a produrre un buon progetto, ma le scelte di strategia vanno a scontrarsi con normative difficili da applicare o uffici inadempienti che non rilasciano a tempo debito certificati e permessi. Dopo aver trovato il cliente e aver centrato il progetto, il terzo problema è riuscire a fare bene il lavoro. Tra i crucci principali dell’architetto, come s’è detto prima, ci sono gli appalti pubblici con imprese selezionate in base al solo criterio del costo minore. La Corte dei Conti, non a caso, ha accusato il sistema edilizio di eccesso di autorizzazione al subappalto, riferendosi in particolare alle cooperative che formano catene infinite e, alla fine, realizzano opere di scarsissima qualità. D’altronde le imprese che fanno prezzi troppo stracciati sono destinate a fallire, perché non arrivano a coprire le spese, a meno che non riescano a trovare artifici e sotterfugi per tagliare i costi (es. impiego di materiali scadenti, alterazioni contabili, inserimento di voci di spesa “impreviste” rispetto al progetto iniziale...), che incidono in modo molto negativo sui tempi e la qualità del prodotto. Quarta e ultima difficoltà: dopo aver costruito (magari anche male) le costruzioni per cui si è data l’anima in fase progettuale, spesso non viene fatta la manutenzione necessaria, sicché gli edifici si trasformano in modo orrendo (il discorso vale soprattutto per le opere pubbliche). Il progetto originale in realtà prevede sempre un «piano di manutenzione», ma in genere è ignorato.

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