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Il cervello umano

Lo studio del cervello rappresenta una vera e propria sfida data l'enorme complessità e mistero che avvolge quest'organo centrale per la nostra esistenza.

Cervello La determinazione della sequenza del genoma ci ha messo di fronte all'evidenza che i nostri geni non sono poi così numerosi come si poteva ragionevolmente pensare guardando la complessità del nostro organismo.

Studi comparativi ci hanno rivelato che il loro numero non è significativamente diverso da quello dei geni del topo o del moscerino della frutta, ma allora che cosa ci diversifica da questi organismi? Che cosa rende così complesse le nostre funzioni cerebrali? Che cosa ci rende capace di analizzare, valutare, indagare, scoprire noi stessi e la realtà che ci circonda, di adattarvisi o di modificarla come nessun altro animale sa fare?

Se si analizza il cervello di un mollusco marino chiamato Aplasia, si può riconoscere ogni singolo neurone e lo si può ritrovare nella stessa posizione e con le stesse caratteristiche in ogni esemplare di questa stessa specie.

Quando si prende in considerazione il cervello umano una simile operazione diventa immediatalmente impraticabile, non solo per il numero elevato di cellule che lo caratterizzano, ma per l'unicità della loro disposizione e delle reazioni reciproche che si sviluppano nel corso dell'esistenza di ogni singolo individuo.

Come se ciò non bastasse il cervello umano è plastico, in continuo divenire e quello che più i neurobiologi vorrebbero sapere è come funziona questa plasticità a livello molecolare, quali eventi biochimici devono verificarsi per modificare le connessioni tra cellule nervose, quali sono i geni coinvolti nei diversi processi, quali le proteine critiche e come si può intervenire per ottenere determinati risultati (per es. come aumentare la capacità di apprendimento o far recuperare la memoria) e qual sono i limiti funzionali di una struttura tanto articolata e dinamica.

Qualunque evento che vada al di là di una semplice reazione enzimatica coinvolge moltissime strutture e molecole differenti che interagiscono in modo coordinato.

Per comprendere la natura di un meccanismo è quindi necessario prendere in considerazione tutte le proteine presenti nella cellula nel momento in cui il fenomeno si verifica.

Se si pensa che non si conoscono ancora con precisione le caratteristiche strutturali e funzionali di nessuna delle migliaia di proteine presenti per esempio a livello di una determinata cellula nervosa, risulta immediatamente chiaro quanto lavoro resti ai ricercatori.

Un cellula del cervello che va incontro a morte cellulare Inoltre, attribuire una funzione a ogni proteina presente nella cellula è una sfida conoscitiva, infatti praticamente tutte le patologie umane dipendono dalla presenza nell'organismo di una o più proteine alterate o che funzionano male.

Quasi tutti i farmaci e le tecniche terapeutiche esistenti finora, anche quelli più mirati e specifici, non agiscono mai esclusivamente sulla cellula difettosa, ma anche su altre strutture analoghe presenti in altre parti del corpo, oppure sono studiati per compensare un'alterazione anche se non la eliminano e ancora riescono ad alleviare solo i sintomi che adesso induce.

Molte sostanze che agiscono sul sistema nervoso inoltre vengono utilizzate solo su base empirica in quanto si è visto che riescono ad alleviare un certo disturbo, ma poco o nulla si sa di come agiscono a livello molecolare.

La conoscenza della struttura tridimensionale delle proteine e delle loro modificazioni di conformazione in presenza di particolari condizioni cellulari o in seguito all'interazione con farmaci o altre molecole è essenziale per penetrare e definire la funzionalità cellulare.

Il dettaglio della struttura proteica è fondamentale per individuar e per progettare il farmaco ottimale capace di compensare il difetto.

Per alcune malattie come la fibrosi cistica o l'emicrania familiare derivanti da anomalie di canali proteici presenti nella membrana cellulare, gli studi di questo tipo sono già a buon punto.

Il cervello può essere funzionalmente suddiviso in tre aree definite ciascuna reponsabile di un'attività specifica.

Nello studio del funzionamento delle diverse zone del cervello assumono un ruolo critico le tecniche di imaging che consentono di visualizzare l'attività neuronale in vivo.

Benché sempre più specifiche e raffinate, quelle attualmente esistenti non riescono a rilevare fenomeni che avvengono molto rapidamente o che hanno interferenze minime sul complessivo metabolismo cellulare.

Attualmente sono in studio traccianti capaci di consentire l'analisi di un singolo eurone nel tempo e con adeguata sensibilità e capaci di evidenziare particolari attività cellulari.

Per esempio, in Germania e in America è già stato messo a punto un dispositivo di microscopia a due fotoni che applicato sulla testa di un animale in movimento consente di visualizzarne l'attività dei neuroni negli strati superficiali della corteccia senza causare nessun fastidio all'animale.

Questa stessa tecnica può essere utilizzata per studiare la formazione di nuove terminazioni nervose in vivo.

Esistono già diversi studi in cui si dimostra che è possibile seguire la struttura di un neurone anche a centinaia di millimetri di distanza e attraverso diversi strati di tessuto (epidermide, teca cranica, liquor...) e di seguirne le modificazioni nello stesso animale per mesi.

Le tecniche di visualizzazione sono importanti anche per capire quali sono le funzioni di una proteina in vivo perché consentono di valutare direttamente l'effetto della sua presenza o della sua assenza sulla struttura cellulare.

Ma è proprio necessaria una conoscenza così dettagliata? Pensiamo alla malattia di Alzheimer: pochi sanno che le forme di Alzheimer derivate da un singolo difetto genico, ovvero le forme familiari ed ereditabili, costituiscono soltanto l'1-2% di tutti i casi.

Nei casi restanti, la patologia insorge per motivi diversi ancora da chiarire. Il fatto che negli ultimi decenni la demenza senile appaia più diffusa e più grave dipende dunque in primo luogo dall'allungarsi della vita media della popolazione.

Esiste però una significativa variabilità individuale rispetto all'entità del fenomeno.

Sezione di cervello umano Così mentre alcuni sviluppano un grado di demenza fortemente invalidante, altri mantengono una memoria pressoché inalterata e funzioni mentali invidiabili anche in tarda età.

A quanto pare questa variabilità dipende anche dall'uso che facciamo del cervello.

Secondo la teoria più accreditata, se due neuroni lavorano insieme, le loro connessioni si rafforzano ed essi tendono ad interagire con maggiore efficienza riuscendo anche a sopperire ad eventuali danni.

Per esempio, se dopo un ictus che ha portato la paralisi di un braccio, si immobilizza il braccio sano, i continui stimoli nervosi che arrivano al braccio malato favoriscono la guarigione in tempi rapidi.

Analogamente se l'ischemia causa un disturbo del linguaggio, il recupero è più veloce e marcato nel caso in cui chi circonda il malato lo obbliga ad esprimenrsi verbalmente evitando di rispondere alle sue richieste gestuali o scritte.

Con la memoria e le funzioni intellettive avviene lo stesso: miglioriamo se ci sforziamo ad utilizzarle.

Naturalmente le possibilità di potenziare le funzioni cognitive, così come quelle di recuperare un danno non sono infinite, resta da definire quali siano i limiti biologici, da che cosa dipendono e se sia possibile estenderli o abbatterli.

Se è vero che esiste infatti un confine temporale nella storia del nostro cervello superato il quale determinate funzioni cessano di avvenire o avvengono con minor efficienza (si pensi ad esempio all'impossibilità di imparare un nuovo idioma come madre lingua dopo 8-10 anni di età), è vero anche che questa saracinesca funzionale può essere riaperta modificando opportunamente l'ambiente esterno o interno alle cellule nervose coinvolte nel fenomeno.

neuroni della corteccia cerebrale Le tecniche di studio utilizzate sino ad oggi, benché ancora valide, appaiono troppo parziali e quindi sostanzialmente inadatte per analizzare e comprendere la complessità.

Per capire la strada da intraprendere è quindi necessario puntare su nuovi approcci capaci di amplificare la conoscenza e di gestire adeguatamente la mole dei dati che via via emergono: biofisica, proteomica, genomica e bioinformatica sembrano pronte ad affrontare la sfida.

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