Articoli

Il Centro "Scansetti" di Torino in prima linea contro amianti e nanoparticelle nocive

La direttrice, Bice Fubini, parla delle ultime frontiere della ricerca sugli asbesti e il particolato ultrafine. Di cosa dobbiamo davvero avere paura e come possiamo difenderci

crisotilo È stato messo al bando da oltre 15 anni, ma se ne trova ovunque, soprattutto in discariche abusive: le ultime sono state segnalate in Sicilia, Sardegna e Campania. Si stima che in Italia esistano ancora 2,5 miliardi di mq di lastre di cemento-amianto (noto come «eternit») da rimuovere. D’altronde l’amianto (o asbesto) è un minerale estremamente versatile e di costo contenuto, perciò in passato è stato usato in svariati settori: per la coibentazione di edifici, tetti, navi, treni, come materiale per l’edilizia (tegole, pavimenti, tubazioni), nelle tute dei vigili del fuoco, nelle auto (vernici e parti meccaniche), ma anche per la fabbricazione di corde, plastica e cartoni.

L’asbestosi, malattia provocata dall’esposizione all’amianto, è insieme alla silicosi la patologia per la quale l’Inail ha riconosciuto e paga il maggior numero di indennità di invalidità. Purtroppo l’amianto è anche un potente cancerogeno: induce carcinoma polmonare e un tumore raro alla pleura (il mesotelioma), di cui l’unica causa nota è l’esposizione a fibre minerali di asbesto. A Casale Monferrato (To), sede della fabbrica «Eternit», il numero di persone decedute tra i lavoratori dell’azienda, i loro famigliari e la popolazione è elevatissimo, con casi da 30 a 50 volte più frequenti di quanto atteso in base alla media nazionale nei vari gruppi esposti. Dati i lunghi periodi di latenza (oltre 20 anni), il numero delle vittime è destinato a crescere ancora: il picco è atteso intorno al 2025.

L’amianto, peraltro, è un minerale molto comune in natura. In anni recenti la sua presenza nelle Alpi Occidentali e, in particolare in Val di Susa e in Val di Lanzo, ha creato grande allarme tra chi contesta la realizzazione della nuova linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione e teme che i lavori per il nuovo passante ferroviario possano disperdere nell’aria le fibre tossiche. Bice Fubini Bice Fubini, ordinario di Chimica generale e inorganica alla Facoltà di Farmacia dell’Università di Torino, è direttore del Centro «Scansetti» per lo studio degli amianti e di altri particolati nocivi. Qui dal 2002 è in corso uno studio finanziato dalla Regione Piemonte volto all’«identificazione, mappatura, valutazione del rischio, inattivazione e/o confinamento» dell’amianto e minerali asbestiformi nell’arco alpino.

Professoressa Fubini, come e quando l’amianto fa male?

L’amianto non è un veleno come il cianuro (di cui sono ben note le dosi letali, eguali per tutti gli individui) né una radiazione che attraversa la materia. È un cancerogeno chimico, che agisce allo stato solido. Le fibre naturali di asbesto tendono a sfaldarsi in frammenti più piccoli, leggeri e sottili che, se movimentati, restano sospesi nell’aria per tempi lunghissimi: il pericolo è legato proprio a questi elementi dispersi nell’aria che, con la respirazione, possono raggiungere i polmoni. La probabilità di contrarre un tumore dovuto all’amianto dipende comunque in modo diretto dall’intensità e dalla durata dell’esposizione, oltre che dal periodo trascorso dal suo inizio, poiché le fibre possono conservarsi nei polmoni anche per 30-40 anni. L’asbesto contenuto in manufatti o contenitori sigillati, che non consentono il rilascio nell’aria delle fibre, non è dunque una minaccia per la salute. Al momento neppure l’ingestione delle fibre di amianto pare sia pericolosa. Per contro, sono rischiosi tutti gli interventi che frammentano o rimuovono fibre di asbesto, ivi compresi quelli di decoibentazione degli edifici contaminati, condotti senza le dovute precauzioni, in quanto rilasciano fibre nell’aria. Più in generale, richiedono cautela le attività di sbancamento, i cantieri edili, così come i lavori agricoli perché possono smuovere frammenti eventualmente presenti nelle rocce o nel terreno e disperderli nell’ambiente.

Questa è anche una delle principali preoccupazioni di chi si oppone alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. La presenza di amianto è un pericolo tanto serio da sconsigliare la prosecuzione dei lavori?

salice d'ulzio Lo studio geologico, necessario alla redazione del progetto esecutivo di quella tratta ferroviaria, è stato rigorosamente pianificato per permettere fin dalle fasi iniziali tutte le misure utili ad annullare l’eventuale esposizione all’amianto dei lavoratori e della popolazione, intervenendo su tutti i punti del processo: dalle metodologie di escavazione (es. mantenendo costantemente bagnate le superfici rocciose) allo stoccaggio nell’ambito del cantiere (l’asbesto esce dalla galleria già impacchettato) al trasporto nelle aree di smaltimento preventivamente individuate. Se il progetto è seguito da persone competenti, ci sono tutti gli strumenti per realizzare la tratta ferroviaria in sicurezza. Una buona soluzione per tranquillizzare i dubbiosi potrebbe essere permettere un monitoraggio sistematico, in tutte le aree a rischio, da parte degli stessi cittadini: per tutta la durata dei lavori, appositi campionatori, muniti di filtri in grado di trattenere il particolato disperso nell’aria, preleverebbero campioni a cadenze prestabilite, in modo da verificare e quantificare l’eventuale presenza di fibre di asbesto. I lavori potrebbero essere bloccati non appena la situazione risultasse pericolosa. Il presupposto indispensabile è che la questione sia in mano a personale competente e goda del consenso della popolazione coinvolta.

Al Centro «Scansetti» state lavorando su funghi e licheni per l'inattivazione del potenziale nocivo dell'amianto. A che punto sono questi studi?

Stiamo andando avanti. La collaborazione con le professoresse Perotto e Piervittori del dipartimento di Biologia vegetale, all’interno del Centro, è davvero ottima e promettente. Queste ricerche ci hanno già procurato una certa fama internazionale, compresa una segnalazione da parte della prestigiosa rivista «Nature». D’altronde oggi fa molta presa l’idea di ricorrere a un metodo naturale per distruggere l'amianto (biorisanamento). Alla base c'è l'osservazione che ci sono sostanze in grado di estrarre selettivamente gli ioni metallici di cui è ricca la superficie delle fibre d’asbesto e che pare favoriscano la formazione di radicali liberi, con conseguente riduzione delle difese antiossidanti delle cellule. L'estrazione progressiva di questi ioni, specie nell'amianto crisotilo, fa collassare la struttura e le fibre vengono letteralmente distrutte. Noi sappiamo innescare questo meccanismo con prodotti chimici (chelanti) in laboratorio, ma in natura non si può procedere in questo modo. Sappiamo però anche che alcuni funghi e licheni sono in grado di secernere sostanze che compiono lo stesso lavoro, ancorché molto più lentamente di quanto non avvenga in laboratorio.

È possibile coltivare funghi e licheni in modo da applicarli su vasta scala, per la bonifica ad esempio di ex cave d’amianto?

licheni In genere si usa poco coltivare i licheni (organismi prodotti dalla simbiosi tra un fungo e un’alga microscopica) perché crescono molto adagio: abbiamo provato, ad esempio, nella ex cava di Balangero, in provincia di Torino, la più grande dell’Europa occidentale fino al 1990, con un certo successo, ma la fragilità della roccia non ci permette di verificare l’evoluzione su tempi lunghi. Lo studio dei licheni è importante soprattutto per affermare che l'amianto ricoperto naturalmente da un mantello di questi organismi è relativamente innocuo se non viene rimosso. I funghi, per fortuna, si possono coltivare meglio e crescono più in fretta, anche se sono più delicati. Stiamo cercando di vedere se è possibile (ma niente affatto facile) riprodurre in campo ciò che abbiamo visto accadere in laboratorio, dove effettivamente mostrano grande capacità di modificare la superficie delle fibre di asbesto attraverso una selettiva azione chelante tra gli ioni metallici contenuti nelle fibre.

Di che funghi si tratta?

Sono funghi del suolo. In particolare, nella prima fase dei nostri studi, abbiamo scelto varietà che sapevamo essere più potenti nell’estrazione di metalli e abbiamo visto che funzionavano. Poi, dato che un eventuale intervento in loco richiede grande attenzione ecologica, siamo andati a raccogliere i funghi del suolo di Balangero e abbiamo selezionato i tipi autoctoni con potere chelante. Ora stiamo lavorando su quelli.

Più in generale a che punto è il risanamento ambientale delle ex cave estrattive?

cava Balangero Posso dirle che a Balangero, dove c’è una quantità molto estesa di terreno amiantifero, la Società per il risanamento ambientale (Rsa) ha fatto meraviglie, riuscendo, ad esempio, a evitare che la montagna di detriti contenente anche fibre di amianto scivoli a valle: vi hanno fatto crescere sopra la vegetazione più adatta e hanno incanalato l'acqua secondo criteri di ingegneria naturale, così da evitare che le particelle di asbesto si disperdano nell'aria.

A che punto siamo, invece, con lo smaltimento dei manufatti di amianto come le tettoie in eternit, i rivestimenti per pavimenti...?

Come dice il direttore della ex cava di Balangero, il dottor Massimo Bergamini, in questo momento il pericolo amianto è molto più elevato per le sorgenti sconosciute (che la gente ha vicino senza esserne consapevole) che non nei contesti palesemente “a rischio” (dove ad es. si procede a decoibentazione di amianto), perché ormai le misure di sicurezza e precauzionali sono tali e tante da abbattere completamente ogni rischio, a differenza, ovviamente, che in passato. C'è ancora molto da fare, invece, per l’asbesto disperso nel suolo, nelle case, nelle strade. Casale Monferrato, dove aveva sede la Eternit e si lavoravano vari tipi di amianto (crisotilo, in larga parte da Balangero, e anfiboli provenienti dal Sudafrica) è uno dei luoghi più colpiti, teatro di un vero disastro sanitario e ambientale, non solo perché l’Eternit (chiusa nel 1986) continuò a far lavorare gli operai senza adeguate protezioni, pur sapendo fin dagli anni Sessanta che era molto pericoloso, ma perché li lasciava rientrare a casa con le tute piene di polvere di amianto, disperdendo negli ambienti e negli scarichi domestici il materiale tossico. Gli operai inoltre mangiavano spesso in fabbrica e il cibo che portavano da casa si ricopriva di polvere d’amianto. Ma, ancora più grave, quintali di scarti di amianto (il famigerato “polverino”), accumulati in seguito alla lavorazione dei tubi, venivano regalati ai dipendenti che li usavano per rivestire le aie dei cortili di casa e i sentieri di campagna. Così oggi la mortalità in loco è anche 50 volte maggiore rispetto alla media nazionale dei gruppi esposti; ci sono persone che hanno 3-4 parenti cari morti per asbesto; tra i più colpiti ci sono anche i trentenni, che da bimbi giocavano nelle aie piene di “polverino”. Casale purtroppo è una tragedia destinata a protrarsi nel tempo.

Il ddl 248 del 2004 legittima la trasformazione cristallochimica dei materiali contenenti amianto attraverso le alte temperature: a 800°C l’amianto non è più stabile e si tramuta in una miscela di silicati innocui per la salute. È una buona soluzione?

eternit Va bene solo per l’amianto crisotilo: gli altri (es. la crocidolite o amianto blu del Sudafrica) non vengono modificati a queste temperature. Inoltre, trattandosi di temperature piuttosto alte, il processo ha un costo enorme. È vero che i silicati così ottenuti potrebbero venire riciclati nei cementi, nei mattoni o nelle piastrelle ceramiche, ma temo che non godrebbero di buon credito sul mercato. L'idea che l'asbesto faccia male, infatti, ha talmente raggiunto il "magico" che nessuno accetta l'idea di farsi una casa con mattoni ricavati da esso, seppure bonificato. Insomma non è facile far partire un business del genere.

Il vostro Centro si occupa anche di un’altra questione spinosa: il particolato ultrafine (PM 0,1), indicato in Italia anche con il termine generico di «nanoparticelle». Quali studiate in particolare?

eruzione vulcano Le nanoparticelle si suddividono in due grandi categorie: quelle che non si vorrebbe ci fossero, come il particolato atmosferico (il famigerato PM10), prodotto sia in natura (es. eruzioni vulcaniche, incendi, aerosol marino, erosione delle rocce..) sia dall’attività antropica (es. motori a scoppio, residui di gomme delle auto o di olii combustibili, usura dell’asfalto, impianti di riscaldamento, inceneritori, cave e miniere a cielo aperto, fonderie, fumi industriali…), e quelle create appositamente con le nanotecnologie (manipolazione della materia fino a livello atomico), per ottenere materiali dalle caratteristiche innovative.

Che impieghi hanno le nanotecnologie?

I prodotti nanotech sono destinati ad avere un impatto straordinario sulla medicina, la produzione di energia e la creazione di nuovi materiali. Sono già centinaia quelli in commercio: additivi chimici usati nei carburanti, sostanze plastiche nella componentistica delle auto, materiali ad alta resistenza per attrezzature sportive, ma anche prodotti cosmetici come le creme solari. Tra le nanotecnologie più sorprendenti ci sono quelle che possono riempire le screpolature di un materiale a livello nanometrico e renderlo perfettamente liscio, idrofobo e repellente alla polvere. Sono state impiegate per costruire il tetto di una famosa chiesa a Roma, che è autopulente sia perché è perfettamente liscio sia perché il materiale è fotosintetico e quindi distrugge, grazie all’irradiazione solare, eventuali elementi di sporcizia che vi si depositino sopra. chiesa autopulente Roma Estremamente promettenti sono anche le applicazioni in ambito medico, con la creazione di nanoparticelle progettate per poter individuare ed eliminare selettivamente le cellule cancerose, per rilasciare farmaci in modo mirato e programmato o per impieghi diagnostici. Per non parlare dei nanotubi, minuscoli cavi composti da catene di anelli esagonali di carbonio, con caratteristiche eccezionali di elasticità, stabilità termica, resistenza alla trazione e conduzione elettrica, dunque potenzialmente applicabili in svariati settori. Dato il loro elevato potenziale di diffusione, è indispensabile stabilire che tutte queste particelle, destinate a venire in contatto con il corpo umano, non siano tossiche. Ma non si possono demonizzarle tutte a priori. Purtroppo le doverose cautele circa eventuali rischi alla salute, sollevate dalla stessa comunità scientifica («Nature», 2003), si sono presto trasformate in allarmi molto amplificati dai mass media, che hanno fatto passare l’idea che qualunque particella di dimensioni nanometriche, in virtù solo della sua taglia, costituisca una seria minaccia per la nostra salute.

Ma, in definitiva, le nanotecnologie sono pericolose o no?

Al momento non abbiamo certezze: è dunque necessaria la massima cautela. Secondo il professor Günter Oberdörster, uno dei massimi esperti nel campo della «nanotossicologia» (la disciplina che studia gli eventuali effetti sulla salute generati da materiali prodotti dalle nanotecnologie), molti fattori determinano la potenziale pericolosità di queste particelle: la loro composizione chimica, la loro forma, la loro tendenza ad aggregarsi e la loro capacità a muoversi all’interno del corpo. Ma non è detto che tutte costituiscano una minaccia per la salute: è indispensabile procedere a studi multidisciplinari che coinvolgano diverse competenze e laboratori. Oberdörster, in particolare, ha scoperto che alcune nanoparticelle (di carbone, di ossido di manganese e di oro), se inalate in dosi relativamente elevate da ratti di laboratorio, possono raggiungere il cervello attraverso il nervo olfattivo, provocando danni a cellule e tessuti. Ma questo non vuole ancora dire che i dati sugli animali si possano trasferire pari pari sugli esseri umani. Secondo lo stesso Oberdörster occorrono almeno 15 anni di ricerche sistematiche per poter arrivare a prevenire i rischi e sviluppare in sicurezza, su basi rigorosamente scientifiche, le nanotecnologie. Personalmente credo al “principio di precauzione” e all’idea che, in presenza di seri dubbi, si debba limitare la diffusione di una nuova tecnologia. Ma quel principio dovrebbe essere applicato anche alla comunicazione: non bisogna creare allarme nel pubblico in assenza di dati affidabili, perché a volte causa danni altrettanto gravi.

Qualcuno già parla di «nanopatologie», cioè di malattie provocate alle nanoparticelle: cosa ne sappiamo?

Esprimersi in questi termini fa parte del procurato allarme a cui accennavo sopra. Parlare di «nanopatologia» significa conoscere una malattia causata da una o più nanoparticelle, esattamente come a scale maggiori sappiamo che il mesotelioma è provocato dall' amianto e la silicosi dalla silice: qualunque anatomopatologo riconosce queste patologie in un frammento di tessuto. Ma che non esiste alcuna malattia correlata direttamente alle nanoparticelle. Per ora si può parlare solo di eventuali effetti tossici o ecotossici e, dunque, al più di nanotossicologia.

E allora, a livello di nanotossicologia, che tipo di reazioni possono dare?

Nanotubi Ci sono lavori molto interessanti, soprattutto di colleghi americani, sull'ipotesi che possano penetrare attraverso la pelle, almeno in piccola parte, con conseguenti allergie e irritazioni. Forse provocano anche qualche effetto più grave, ma non vi sono dati certi. Si tengono d’occhio soprattutto le creme solari a base di nanoparticelle di biossido di titanio. Comunque i principali problemi, secondo me, potrebbero venire dai nanotubi di carbonio: se respirati sembrano causare nei polmoni effetti simili alla silice cristallina; se vanno in circolo, infatti, possono comportare un maggior rischio cardiocircolatorio in individui predisposti, causando trombi. D’altronde è un dato assodato che, in occasione dei picchi di particolato atmosferico fine, si registra un aumento delle patologie cardiovascolari e respiratorie. Tra tutti gli indizi questo è forse il più provato statisticamente, attraverso studi epidemiologici, mentre gli altri non lo sono.

Voi siete direttamente coinvolti in queste ricerche sulla tossicità delle nanotecnologie?

Sì, almeno in tre settori. Abbiamo appena presentato alla Regione Piemonte un programma di ricerca sulle nanoparticelle più comuni e più importanti. E cioè: sui nanotubi di carbonio, sui biossidi di titanio (usati nei cosmetici e nelle creme solari) e su alcuni modelli di nanoparticelle che un inceneritore può generare (così da stabilire se sia giustificato o meno l'allarme che c'è riguardo a tali strutture).

Partiamo dai nanotubi: cosa vi fa supporre che siano più pericolosi delle altre nanoparticelle?

Di preciso non si sa. C'é chi dice che è perché assomigliano agli amianti, perché cioè sono lunghi e sottili, però in realtà la parte chimica è molto diversa. Si è visto, in ogni caso, che nei topi di laboratorio provocano alcuni effetti simili a quelli del quarzo, non cancerogeni, ma tali da indurre fibrosi polmonare. Riteniamo importante studiarli anche perché c'è una solida prospettiva che si diffondano su vasta scala. È probabile che in alcune forme risultino davvero pericolosi, ma è anche ipotizzabile procedere a modificazioni chimiche che li rendano innocui. E, una volta tanto, abbiamo l’opportunità di studiare i danni potenzialmente derivanti da una tecnologia prima che divenga di uso corrente.

La seconda parte della ricerca è dedicata alle nanoparticelle che si usano in cosmetica: perché vi si ricorre e quali rischi comportano?

creme solari Le industrie dei cosmetici usano da tempo il biossido di titanio per le sue proprietà di bloccare i raggi ultravioletti (UV). Le creme solari, in genere, devono essere il più possibile trasparenti, perché i consumatori non gradiscono cospargersi il viso con una crema bianca a effetto maschera. Ora, il biossido di titanio, quando è piccolo piccolo a livello di nanoparticelle, diventa trasparente, ma anche capace di generare radicali liberi e provocare reazioni analoghe a quelle che rendono bianco il tetto della chiesa di Roma: sulla nostra faccia non vanno altrettanto bene. Il problema è riuscire a produrle in modo che siano sufficientemente trasparenti per adattarsi a un prodotto cosmetico, ma abbiano al contempo caratteristiche che blocchino le attività indesiderate. E già ci si sta provando, rivestendole o mescolandole con altre sostanze. Il nostro obiettivo è di studiarle con più sistematicità per verificare che non provochino reazioni avverse. Un progetto peraltro condiviso dalle industrie cosmetiche più serie.

La terza parte del progetto riguarda gli inceneritori: di che si tratta?

inceneritore Studiare l'intero prodotto degli inceneritori è complicatissimo. L'idea è dunque individuare quali sono i componenti più comuni e abbondanti nelle emissioni degli inceneritori per poi modellizzarli e studiarli. Fra i partner del progetto c’è anche la ditta che dovrebbe costruire il nuovo termovalorizzatore del Gerbido, alla periferia di Torino. L’obiettivo è individuare 2-3 prodotti principali (sono sostanzialmente particelle di carbonio, di silice e metalliche), prepararne dei prototipi e poi condurre uno studio sistematico coinvolgendo i vari dipartimenti del Centro, da quelli chimici a quelli biologici. A questo progetto partecipa anche il Centro di eccellenza per le Superfici Nanostrutturate (NIS) dell’Università. Magari, alla fine, scopriremo che le particelle di carbonio non fanno male e invece quelle di metalli sì. L'idea, in ogni caso, è di affrontare il problema in modo sistematico e non prevenuto.

In queste ricerche i test di tossicità vengono fatti solo in vitro o anche sugli animali?

Per ora qui lavoriamo solo in vitro, ma occasionalmente collaboriamo con laboratori stranieri che fanno test in vivo, seguendo una procedura molto costosa (fatta perciò soprattutto in grandi istituti). Ma c'è anche un’altra questione, altrettanto importante. Pur ammettendo di avere quantità enormi di soldi per finanziare le ricerche (e non è certo il caso dell’Italia), non ha senso testare su animali da laboratorio tutto quello che il mercato si propone di vendere o, peggio, sta già vendendo. Gli animali, sia per questioni economiche che etiche, devono essere usati solo alla fine di un imbuto: prima si devono selezionare i materiali in base ad appropriati controlli chimici messi a punto in laboratorio; successivamente si testano su cellule semplici, poi su cellule un po' più complicate (per esempio in co-culture di cellule del sistema immunitario ed epiteliali del polmone); solo quando è stato selezionato il materiale che pare “predire” bene può avere senso passare ai test sull'animale. È perfettamente inutile usare le cavie e farle soffrire per verificare ciò che si può fare benissimo per altra via. Inoltre spesso non ve ne sarebbe neppure il tempo.

Al centro «Scansetti» vi occupate anche del tradizionale particolato atmosferico, compreso sotto la dicitura PM10. In quali concentrazioni diventa pericoloso?

ciminiere inquinanti Va detto anzitutto che iI particolato atmosferico PM10 comprende tutte la particelle inferiori a 10 micron e quindi anche le nanoparticelle. Non è facile distinguere tra loro gli effetti causati da particelle di dimensioni diverse, visto che siamo esposti contemporaneamente all’intero particolato, misto sia per composizione chimica che per taglia. Ma possono sorgere equivoci circa la reale entità delle nanoparticelle. Infatti, se andiamo a calcolare la quantità in massa dell'una componente (nano) e dell'altra (micro e macro), troviamo che le nanoparticelle in massa sono in genere una frazione non rilevante dell’intero particolato. Se, invece, le andiamo a misurare in numero, poiché a parità di massa il numero di particelle piccole è molto maggiore, troviamo che le nanoparticelle sono davvero tante. A volte i giornalisti scrivono che in sospensione c'è il 30% di nanoparticelle: ma in massa o in numero? D'altra parte anche i biologi spesso fanno le analisi senza concordare tra loro se valutare gli effetti per numero di particelle o per massa. E questo è un dilemma che si deve risolvere, anche se non è facile capire qual è il metro di valutazione giusto, perché non sappiamo esattamente come agiscono. Ci sono casi in cui può essere rilevante il numero e altri in cui è fondamentale la massa. E misure diverse del medesimo oggetto possono avere conseguenze diverse.

Quali evidenze abbiamo sulla nocività della componente più piccola del particolato?

Ci sono lavori abbastanza seri che tendono a dire che forse la frazione più fine è la più pericolosa. Ed è possibile che sia così, anche se non è ancora stato del tutto dimostrato. Il fatto è che le nanoparticelle possono migrare nel corpo. Ma è pur vero che se migrano più facilmente, possono anche essere escrete con altrettanta efficienza. Insomma occorre fare tanta ricerca. Perché se non si sciolgono questi dubbi, si è poi sempre in preda alle opinioni anziché ai fatti. Comunque, allo stato attuale, anche l’Organizzazione mondiale della sanità tende a ritenere che la frazione “nano” del particolato atmosferico sia la più pericolosa.

Quali rimedi si possono adottare a livello istituzionale per abbattere il particolato sospeso nell'aria?

traffico Credo che occorra attuare una seria campagna di informazione tra i cittadini, per convincerli a non usare l'automobile e a spostarsi il più possibile con le bici e i veicoli pubblici. I nostri amministratori dovrebbero infondere la cultura del mezzo di trasporto alternativo, almeno in città. Senza dimenticare il riscaldamento delle case, tra le principali fonti di particolato assieme ai motori delle auto. Gli americani a questo proposito offrono un modello in negativo: tengono le case caldissime in inverno e gelide in estate. E infatti consumano il doppio di energia di un europeo, che a sua volta consuma dieci volte più di un africano. Insomma: riduciamo il riscaldamento in inverno e l'aria condizionata in estate. E creiamo la cultura del godersi la città il più possibile a livello locale, nei quartieri, andando a piedi e usando i mezzi pubblici o convincendo almeno la gente a condividere un'auto per non vedere più veicoli con una sola persona a bordo.

A livello individuale cosa possiamo fare per evitare di esporci troppo al particolato? Ci sono ad esempio persone che girano in bici con la mascherina...

Credo che li tranquillizzi molto. Forse ogni tanto è giusto, però mi sembra una cosa più psicologica che concreta: allo stato attuale delle conoscenze non esistono filtri in grado di bloccare particelle di diametro inferiore a 0,2 micron. Vorrei aggiungere, comunque, una considerazione utile a sminuire un po' il panico. Un epidemiologo dell’Università di Torino ha pubblicato di recente una ricerca da cui risulta che l'aspettativa di vita di chi abita a Torino è maggiore di 2 anni rispetto a quella di chi vive in campagna. La storia del particolato è dunque ininfluente? Secondo lo stesso professore c'entra ovviamente anche quella, ma ci sono altri fattori che contano di più: per esempio avere accesso a una buona sanità e godere di agiate condizioni economiche.

Da quasi trent’anni lei si occupa anche della valorizzazione della componente femminile nel mondo scientifico. Abbiamo compiuto progressi?

ricercatrice Cerms Tantissimi. Basti pensare che negli anni Sessanta le donne iscritte a Chimica erano 10 su 120 e ora superano la metà. Anche quando sono arrivata in questo istituto ero l'unica donna e adesso ci sono più ragazze che ragazzi. La situazione è molto cambiata: le donne che lavorano qui hanno le foto dei loro bimbi sulla scrivania, mentre ai miei tempi si faceva di tutto per cancellare la propria femminilità. Però più si sale la piramide del potere, verso i luoghi di comando reale, meno donne si trovano. I professori che hanno un compito importante all'interno dell'Università o che decidono la distribuzione dei fondi sono quasi tutti uomini.

Poco per volta cambierà anche la situazione al vertice?

Penso di sì, ma può anche darsi che non cambi molto perché le donne, oltre a essere escluse, si auto-escludono (con gran buon senso) da un certo tipo di competizione che porta a posizioni di potere, ma logora e abbassa la qualità della vita. D’altronde, quando si ama la ricerca, difficilmente si trova soddisfazione a svolgere mansioni “burocratiche”, ancorché di prestigio. Inoltre il gusto di comandare in sé e per sé è tradizionalmente più maschile.

Qui al Centro ci sono tante donne?

Nel mio gruppo sì e così pure negli altri cinque dipartimenti, soprattutto tra i giovani borsisti e dottorandi; a livello di docenti siamo più o meno la metà. Riflettendo sulle nuove leve, ho l'impressione che il fascino della ricerca multidisciplinare sia più femminile. Ma chiaramente sto generalizzando: i casi che si distinguono sono numerosi sia in un gruppo che nell’altro.

Citato in