Dossier

Ricerca & sviluppo: l'avanguardia piemontese

Intervista al ministro dell'Università e della ricerca, on. Fabio Mussi

Fabio Mussi, 59 anni, piombinese ed ex “normalista” di Pisa, ministro dell’Università e della ricerca del governo Prodi, è lapidario: «Stiamo peggio di quanto dovremmo, ma meglio di come spesso si racconti».

Fabio MussiMinistro può fare qualche cifra?

Il nostro Paese investe una quantità di risorse significativamente inferiore rispetto al resto d’Europa. Gli ultimi dati di cui disponiamo ci dicono che all’Università è destinato lo 0,88% del Pil, di cui lo 0,5 mano pubblica contro la media Ocse dell’1,2 e quella Ue un po’ più alta; gli Usa sono al 2,6%, di cui la metà mano pubblica e metà finanziamenti privati. Gli investimenti per la ricerca sono l’1,1% del Pil in Italia contro la media Ue 15 dell’1,9. Gli obiettivi di Lisbona sarebbero il 2% per l'Università e il 3% per la ricerca, arrivando entro il 2011 al 4,5% del Pil. Questo significa che entro questa legislatura noi dovremmo incrementare i nostri investimenti di 40 miliardi di euro. Cosa a cui ho già chiaramente rinunciato. Mi accontenterei di restare dentro alle medie Ocse (1,2% per l'Università e 1,5% per la ricerca). E questo significa comunque nei prossimi anni incrementare gli investimenti di 12 milioni di euro. La Cina è più o meno allineata in termini di percentuale sul Pil, ma la massa assoluta è spaventosamente più grande e, soprattutto, registra un incremento del 22% l'anno. Gli Usa puntano a raddoppiare gli stanziamenti pubblici in ricerca (pari allo 0,68% del Pil nel 2005), ma hanno comunque il vantaggio che, per ogni dollaro messo dallo Stato, le imprese ne sborsano 2 o 3. E qui arriviamo al punto dolente.

Perché?

Perché in Italia, per ogni euro stanziato dallo Stato, le imprese mettono 50 centesimi. È un dato terrificante, neanderthaliano, perché in tutte le principali economie del mondo, il rapporto tra finanziamento pubblico e privato è di almeno 1 a 2. Insomma, ci fanno la predica sulle privatizzazioni e poi assistiamo a un costante processo di statalizzazione. Quando partecipo alle assemblee degli studenti c'è sempre qualcuno che esprime il timore che le imprese mettano le mani sull'Università. E io dico: magari! Non perché pensi che l'Università debba dipendere dai privati, ma perché vorrei che i rapporti di collaborazione si sviluppassero di più. Il problema dell’Italia è fare sistema, costruire le filiere che vanno dalla scoperta all'innovazione industriale: è uno dei principali punti di debolezza rispetto ai nostri competitori. Penso che dobbiamo riprogettare i nostri strumenti operativi. Dalle Regioni negli ultimi anni sono giunte importanti novità, con un significativo incremento delle risorse destinate alla ricerca e una cresciuta capacità di fare sinergie con i diversi elementi del sistema. Il Piemonte, con cui il Mur ha stilato un protocollo di intesa sperimentale, è il capofila.

Analisi del DNA al Laboratorio chimico della Camera di commercio di TorinoInsomma qualcosa si muove…

Certo, non siamo all'anno zero: i dati relativi al settore delle start up danno le Università italiane ai primi posti in Europa: l'anno scorso sono nate oltre 400 nuove imprese dalle costole dei nostri Atenei. È un dato che in Europa non sfigura affatto. Per quanto possa sembrare paradossale, i nostri ricercatori vengono stimati al 2° posto a livello mondiale per pubblicazioni scientifiche pro-capite: insomma spendiamo poco, ma non è che non valiamo nulla. E le assicuro che all'estero il nostro Paese, pur con tutti i suoi limiti, è considerato un partner fondamentale.

Il 28 febbraio 2007 è partito ufficialmente l’European research council (Erc), commissione di scienziati che stanzierà una parte dei finanziamenti europei in base a criteri esclusivamente meritocratici. Cosa ne pensa?

Tutto il bene possibile. Basti pensare che l'Erc è partito anche perché il governo di cui faccio parte ha rimosso le resistenze molto forti poste da quello che lo ha preceduto: un atteggiamento che aveva fatto parecchio arrabbiare gli altri Paesi europei, convinti che la ricerca di qualità richieda ormai una dimensione continentale. Diversamente l’Europa non può competere con giganti come Stati Uniti, Cina o Giappone. Sono convinto che la ricerca italiana trarrà giovamento dall’Erc, perché vanta ottime qualità.

Lei si è battuto molto per introdurre il merito come criterio guida nella valutazione del sistema universitario e della ricerca e, a tal fine, ha introdotto l’Agenzia nazionale di valutazione dell'Università e degli enti di ricerca (Anvur). Di che si tratta?

L’Anvur è un organismo che valuterà a chi dare i finanziamenti pubblici sulla sola base del merito; la sua istituzione è stata introdotta dal decreto legge n°262/2006; dovrebbe insediarsi entro l’estate 2007 e sostituire progressivamente il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (Civr). In linea di massima l’Anvur sarà più internazionalizzato: dei 7 esperti che comporranno l’organo esecutivo almeno 3 o 4 saranno stranieri, in modo da garantire ulteriormente l’imparzialità e la trasparenza degli atti. Noi abbiamo un sistema fondato sull'ossessione del controllo delle procedure. Ma più si è ossessionati dal controllo delle procedure, più queste scappano da tutte le parti. Dobbiamo spostare il baricentro a valle, cioè alla valutazione dei risultati. Dobbiamo metterci nella condizione di premiare la qualità assoluta e anche il delta del miglioramento. Perché non ho mai creduto che isole di eccellenza possano fiorire in un mare di mediocrità. Bisogna alzare la qualità media di tutto il sistema. Nei convegni “della domenica” tutti lo dicono. Poi però, ogni volta in cui scattano i principi valutativi, succede l'inverosimile…

Ci sono altri principi-guida oltre al merito?

Sì. Ritengo altrettanto fondamentale far sì che il principio dell’autonomia, su cui si fonda la governance degli Atenei, si sposi con il principio della responsabilità. Purtroppo questo connubio spesso è mancato: non si spiegherebbero altrimenti la proliferazione degli stessi Atenei (abbiamo raggiunto il culmine di 360 sedi universitarie a fronte di 105 Province) e dei corsi di laurea. Ma anche la folle struttura del personale: quasi 20 mila ordinari, 19 mila associati e 22 mila ricercatori, con il record mondiale di senescenza: l’età media per le tre categorie è rispettivamente di 59, 52 e 51 anni. Pazzesco! Se c'è un disegno, non è stato intelligente. Nella nuova governance occorreranno anzitutto responsabilità, semplicità e riduzione di sedi e corsi (a cui peraltro ho già posto un freno).

E gli investimenti in infrastrutture?

Sono altrettanto importanti. In genere, però, quando si parla di infrastrutture ci si riferisce a strade, linee ferroviarie, tunnel, porti, aeroporti. A nessuno viene in mente che ormai le grandi infrastrutture di ricerca sono come il passante di Mestre: su quello transitano milioni di automobili, ma anche al sincrotrone di Trieste o al laboratorio del Gran Sasso passano migliaia di ricercatori. Quindi, quando si faranno i prossimi piani nazionali per le grandi infrastrutture, occorrerà avere chiaro che quelle della ricerca sono al pari delle altre e finanziarle in modo adeguato.

Analisi spettrofotometriche al Laboratorio chimico della Camera di commercio di TorinoCosa farà per migliorare la situazione di migliaia di ricercatori precari?

Per loro abbiamo stanziato 20 milioni di euro in più nel 2007, 40 nel 2008 e 80 nel 2009. Il mio obiettivo è assumerne 30 mila nel giro di dieci anni. I ricercatori sono la parte migliore della nostra gioventù, ma sono anche quella che economicamente trattiamo peggio: in media guadagnano meno di una badante. Chiaramente non si tratta di fare una “sanatoria” che per legge imponga l’assunzione di un esercito di precari “over 50” con ormai scarsa voglia di ricercare, ma di premiare i più meritevoli in base a storia e qualità individuali. Mi batterò anche per defiscalizzarne l’assunzione, in modo da favorire il loro sbocco professionale oltre che nell’Università, anche nella pubblica amministrazione e tra le imprese private. Siamo l’unico Paese in Europa dove il dottorato di ricerca non ha alternative di impiego al di fuori della carriera universitaria.

Secondo la prestigiosa rivista «Nature» il piano italiano di rientro dei cervelli in fuga è fallito. È d’accordo?

Sì, è innegabile. Sia chiaro: io farò di tutto perché i poveretti che sono stati fatti rientrare in Italia non vengano ricacciati indietro a calci nel sedere. Tuttavia faccio una critica aperta: se noi lasciamo andare via, non per libera scelta ma per necessità, 6 mila cervelli all'anno e poi facciamo una legge speciale per farne rientrare 400, i risultati saranno nulli. Intendiamoci: è giusto che chi vuole andare all’estero possa farlo, ma è sbagliato che lo faccia perché in Italia ha uno stipendio da fame o non ha prospettive di carriera.

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