Tristemente, solo in Italia, quasi 150000 persone vengono ogni anno colpite da un infarto e tra queste circa la metà muore prima ancora di arrivare in ospedale.
Spesso questo è dovuto alla fibrillazione ventricolare, quella forma di aritmia che è capace di azzerare la quantità di sangue e quindi di ossigeno che arriva dal cuore all’organismo provocando una morte definita per questo motivo improvvisa.
In altri casi, invece, la morte dipende dal ritardo della diagnosi medica. Infatti, se non si interviene sul paziente entro le prime due ore non solo il danno registrato al cuore si estende e si stabilizza, ma cresce in modo drammaticamente considerevole il rischio che si istaurino complicazioni a loro volta fatali.
Attualmente, per trattare questa situazione sono in fase di sperimentazione due strategie tra loro differenti.
La prima consiste nel ridare, mediante un approccio che sfrutta la terapia genica, il sangue al cuore anche nel caso in cui le arterie coronarie, ovvero le arterie che irrorano di sangue il muscolo cardiaco nutrendolo, sono ostruite.
Il secondo approccio mira invece alla ricostituzione delle cellule cardiache uccise dall’infarto mediante l’inserimento dicellule staminali progenitrici.
Per restituire il sangue al cuore si punta in particolare sulla neoangiogenesi ovvero sulla possibilità di riformare nuovi vasi sanguigni capaci almeno in parte di sostituire le coronarie ostruite.
L’intervento su cui si lavora è quello di ottenere una serie di by-pass naturali mediante la riattivazione della capacità ormai persa nell’adulto che hanno le cellule fetali di costruire velocemente nuove arterie capaci di vascolarizzate il cuore.
Questa capacità (che vale il nome di staminali alle cellule fetali) viene persa subito dopo la nascita, ma i ricercatori della Cornell University di New York hanno "ricostruito" in laboratorio il gene della VEGF (Vessel Endothelial Growth Factor ovvero del fattore di crescita dei vasi e del loro endotelio) che è capace di regolare nel feto la produzione dei vasi sanguigni.
Questo gene è poi stato iniettato nel cuore di persone destinate al classico by-pass, l’intervento che crea un ponte artificiale capace di eliminare dal circolo sanguigno il tratto di coronaria occluso mediante l’inserzione di frammenti di una vena presi generalmente dalle gambe del paziente stesso.
I risultati dell’inserzione del gene della VEGF sono stati soddisfacenti e non hanno causato effetti indesiderati.
Dopo questi tentativi che miravano soprattutto a valutare la fattibilità tecnica del trattamento sono cominciate le prime sperimentazioni allargate.
In una trentina di pazienti che non potevano essere sottoposti al classico intervento di by-pass o ad angioplastica e che non avevano tratto alcun beneficio dalla terapia farmacologica, è stato immesso il gene della VEGF con una serie di quattro iniezioni successive direttamente nel ventricolo sinistro.
Questo trattamento si è rivelato efficace nel risvegliare quelle cellule cardiache che, benché ancora vitali dopo l’infarto, avevano perso la capacità di contrarsi perché non ricevevano una quantità sufficiente di ossigeno.
Dopo questa terapia genica, queste aree del cuore hanno ripreso a contrarsi normalmente e tutti i 30 pazienti non hanno mostrato effetti collaterali.
Ormai da due anni però è anche in fase di sperimentazione l’uso delle cellule staminali.
In questo caso si vuole sostituire le cellule cardiache uccise dall’infarto.
Queste cellule infatti, a differenza di quello che succede in altri organi come ad esempio il fegato, non sono capaci di autorigenerarsi.
Una volta morte vengono sostituite da altre cellule, i fibroblasti, che sono le stesse cellule che formano le cicatrici che però non sono poi in grado di contrarsi.
L’obiettivo di questo tipo di approccio consiste nel forzare le cellule staminali, che sono cellule totipotenti e quindi capaci anche di originare cellule cardiache, a trasformarsi in cardiomiociti ovvero in quelle cellule muscolari specifiche del cuore che ne permettono la contrazione.
Il problema è tuttora quello di far arrivare nel muscolo cardiaco le cellule staminali.
A Dusseldorf, in Germania, sono stati tentati due approcci per veicolare le cellule staminali nella zona del cuore colpita dall’infarto ed entrambi hanno fornito buoni risultati.
Un obiettivo simile è stato perseguito all’Università di Rostock (sempre in Germania), dove 20 pazienti colpiti da infarto sono stati trattati con cellule staminali direttamente iniettate all’interno dell’area infartuata del cuore.
I risultati sono stati interessanti anche se dopo questa terapia è stato comunque necessario ricorrere al tradizionale by-pass chirurgico per assicurare al cuore rigenerato un normale afflusso di sangue attraverso il vaso occluso.
Purtroppo però queste terapie sono ancora in fase sperimentale e ci vorrà ancora del tempo prima che l’impiego delle cellule staminali possa diventare routine.
Il problema principale con cui si confrontano gli scienziati verte sul come si possa guidare il differenziamento di queste cellule in modo da poterle usare tanto per originare le cellule cardiache quanto le cellule della parete dei vasi favorendo anche la ricostruzione dell’arteria coronaria occlusa.
Attualmente, la realtà è però che poco meno della metà dei soggetti che vengono colpiti da un infarto supera il primo mese dalla crisi cardiaca.
La stragrande maggioranza di queste persone muore, però, nelle primissime ore dall’inizio dei sintomi, prima ancora di raggiungere l’ospedale.
La storia cardiaca varia infatti in modo considerevole quando si interviene in tempo per ripristinare il flusso sanguigno lungo l’arteria coronaria ostruita e la mortalità si riduce sino a circa il 5%.
Come terapia si usa molto la trombolisi, il trattamento che ha modificato radicalmente la terapia dell’infarto acuto.
Effettuata nelle primissime ore dall’inizio dei sintomi consente ridurre la mortalità all’8% e si basa su iniezioni o flebo di sostanze capaci di trasformare la struttura di una proteina, il plasminogeno, rendendola capace di sciogliere la fibrina, la molecola che tiene insieme il trombo.
In questo modo il sangue riesce a tornare a circolare nell’arteria prima ostruita in poco meno di un’ora.
La trombosi può altrimenti venir riparata dall’interno del vaso mediante un intervento di angioplastica.
In questo caso si inserisce in un vaso arterioso, generalmente l’arteria femorale, una sottile sonda che al suo vertice possiede un palloncino gonfiabile.
Sotto controllo radiologico, questa sonda viene spinta fino al punto dove la circolazione del sangue è bloccata e qui il palloncino viene gonfiato esattamente in corrispondenza del trombo.
Con l’angioplastica d’urgenza si può reintegrare il flusso coronarico in una percentuale che varia tra il 91 e il 97% dei casi.
Il by-pass d’urgenza è un’ulteriore alternativa per alcuni casi selezionati.
Può venire effettuato, come l’angioplastica, anche a titolo preventivo se si riscontra un forte restringimento di una coronaria, ma subito dopo l’infarto si preferisce utilizzarlo solo nel caso in cui non siano praticabili la trombolisi o l’angioplastica.
Le più gravi complicazioni che seguono l’infarto sono le aritmie.
Queste colpiscono oltre il 90% degli infartuati e possono interessare varie zone del cuore.
Da sole costituiscono la prima causa di morte nei tre giorni immediatamente successivi alla crisi.
Tra loro la più temibile è la fibrillazione ventricolare che può provocare anche 300 contrazioni al minuto del ventricolo sinistro che quindi non riesce più a pompare il sangue all'esterno del cuore stesso.
Un'altra complicazione è rappresentata dalla rottura del cuore.
Questa costituisce un evento di per se stesso molto raro che determina un’improvvisa caduta della pressione arteriosa e si riscontra soprattutto nelle donne e negli anziani.
Più comunemente, in seguito a un infarto, si instaura un'insufficienza cardiaca.
Questa è molto comune e può comparire anche dopo anni dall’infarto stesso.
Il cuore in questo caso non riesce più a sopportare gli sforzi della vita quotidiana e si ingrossa sempre più. A questo punto la sua contrazione risulta meno efficace fino a determinare una situazione di scompenso cardiaco caratterizzato soprattutto da difficoltà respiratoria.
Come strumenti di diagnosi capaci di consentire che la situazione venga mantenuta sotto controllo la scienza medica si avvale soprattutto dell'elettrocardiogramma.
Questo registra gli impulsi elettrici delle cellule del muscolo cardiaco. Se sono malate, l’impulso che mandano disegna un tracciato anomalo riconoscibile.
Con l'ecocardiogramma, invece, i difetti del cuore vengono visualizzati su uno schermo grazie all’uso di ultrasuoni a loro volta trasformati in immagini.
Questo strumento è molto utile per giudicare la gravità delle alterazioni delle valvole cardiache e per valutare l’ampiezza della zona ischemica ovvero della zona infartuata che non riceve più sangue.
Un esame superspecialistico, la scintigrafia, sfrutta la capacità di alcune sostanze radioattive come il tallio di legarsi alle cellule del sangue.
Questo permette di seguire la circolazione del sangue all’interno del cuore sfruttando un rilevatore di radioattività collegato ad un computer capace di trasformare le informazioni in immagini.
La coronarografia invece è un esame radiografico che consente la valutazione dell’irrorazione del cuore mediante l'inserimento di un sottile catetere in un’arteria e l'iniezione di una sostanza radioopaca capace di creare un contrasto con il sangue circolante e quindi di disegnare l’intero albero coronarico evidenziandone gli eventuali restringimenti.