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Atlante occidentale

La convergenza di due traiettorie e di due cammini esistenziali, convergenza che si concretizza nell'amicizia fra Ira Epstein, uno scrittore sulla sessantina in odore di Premio Nobel, e Pietro Brahe, un giovane fisico italiano, coinvolto nel primo esperimento all'acceleratore di particelle di 30 km di diametro del CERN di Ginevra.

“All'inizio del campo d'erba provò il timone; poi, dondolando le ali, cominciò a rullare. Il volantino gli spingeva i gomiti vicini ai fianchi e la coda bassa dell'aereo gli spostava il viso in avanti, spartendo la visuale tra gli orologi del cruscotto e gli alberi lontani, come une lente bifocale (…). E solo dopo si staccò da terra.

Ci fu un lampo sulla destra, qualcosa che schizzava fuori dagli alberi, pura velocità contro di lui. L'altro aereo veniva sbieco, così vicino e così basso che immaginò il cupolino tranciato dall'elica. Si chinò di lato, spingendo in giù la cloche e togliendo motore, e sentì insieme il campanello dello stallo e il colpo degli ammortizzatori arrivati a fine corsa. La pancia bianca gli passò sopra: intima, avvolgente e fragorosa come uno schiaffo.

Era di nuovo a terra (...)”.

Il gioco narrativo di Atlante occidentale, di Daniele Del Giudice, nasce dalla convergenza di due traiettorie e di due cammini esistenziali, convergenza che si concretizza nell'amicizia fra Ira Epstein, uno scrittore sulla sessantina in odore di Premio Nobel, e Pietro Brahe, un giovane fisico italiano, coinvolto nel primo esperimento all'acceleratore di particelle di 30 km di diametro del CERN di Ginevra. "La giostra", come viene chiamato. Il rapporto tra Epstein e Brahe si sviluppa attraverso continui rimandi tra la vita e i pensieri dell’uno e i pensieri e la vita dell’altro, ed è narrato sullo sfondo della progressiva polverizzazione in atto delle cose del mondo e sulla velocità del fenomeno. Ed è proprio questa comune esperienza che unisce i due personaggi, così diversi fra loro, se non altro per motivi anagrafici.

Da una parte, infatti, lo scrittore ha rinunciato a scrivere, perché ora è in grado di sentire in un unico istante le storie che un tempo avrebbe narrato parola dopo parola, disponendole nel tempo: “Storie perfettamente realizzate, finite come un lavoro finito, che nascono da quello che vedo e muoiono quando smetto di vederlo, senza che abbia bisogno di spiegarlo (…)”. Non esistono più romanzi da scrivere, da comporre, da strutturare secondo regole sintattiche, grammaticali o lessicali. Esistono invece pure sensazioni, che non chiedono di essere comunicate. Eppure “non aver bisogno di raccontare è l'unica cosa che incrina la felicità di vedere oltre la forma”, riflette Epstein senza dolersene.

Percorso analogo e analogo destino è quello di Pietro Brahe, che studia la scomposizione della materia in particelle elementari: “È strano,” vorrebbe dire Epstein al giovane amico, “lei guardando riesce ancora a vedere le cose, proprio lei che lavora nell'assoluta scomparsa delle cose! (…) non vede come le cose che cominciano ad esserci, che ci saranno, sono pura energia, pura luce, pure immaginazione?”

Del Giudice, che dà voce intima ai due personaggi, non lascia mai l’osservatorio privilegiato dello scrittore: sono soprattutto i pensieri di Epstein a tessere la trama del romanzo, tesi nel desiderio morbido, quasi inerziale, mai compulsivo, di imparare, di voler comprendere il linguaggio dell’amico scienziato. Accade così che i due si intendano sempre meglio, e che il modo di leggere il mondo in immagini si assomigli sempre di più. Brahe visualizza su uno schermo i risultati dell’esperimento in forme luminose, geometrie che non sembrano avere una natura, una caratterizzazione diversa dalle apparizioni che sono proprie dell’artista: “dal buio si formava sul monitor prima una cornice col numero della serie, il tempo, la sigla dell’esperimento, poi da destra e da sinistra entravano linee rapidissime, alcune collidenti al centro dove l’impatto generava altre linee continue o tratteggiate, curve e parabole e ellissi e piccoli vortici attorcigliati su se stessi. Tutto restava così per qualche istante, bloccato, accaduto; poi tutto spariva di nuovo.”Fuochi d'artificio In modo simile Epstein descrive le sue visioni di fuochi d’artificio: “Linee traccianti, entravano dal basso nel riquadro del cielo buio, esplodevano in alto con un boato perforante, si divaricavano in un punto dove la materia diventava luce.”

Epstein che rifiuta il meccanismo artificiale della scrittura e che si abbandona a una frammentazione della realtà prossima all’impressionismo informale del tardo Monet, esprime l’esigenza di Del Giudice di accordarsi a una visione del mondo coerente con i progressi e le scoperte scientifiche, attraverso un linguaggio, un uso delle immagini e delle parole mai scontato. Scardinare la lingua, forzare le parole alla descrizione precisa (l'auspicata esattezza delle Lezioni americane di Italo Calvino): parole che sono sempre strumento di conoscenza dell’ignoto, in grado di penetrare la parete impenetrabile, di forzare la porta chiusa, di infrangere il vetro di separazione. In questo caso tra fisica delle particelle e vita.

Così la narrazione procede per descrizioni precise del mondo della fisica sperimentale: “Passarono velocemente tra gli scaffali di ricami per il vuoto spinto, con tubi isolanti, giunti in lega, giunti ruotanti, labirinti, sbarramenti gassosi, valvole di regolazione criogenetica per temperature dell’elio liquido; attraversarono la vasta offerta di lamine per i magneti di focalizzazione e i magneti di curvatura; superarono anche i ripiani con i tubi di potenza e i klystrons e le piastre di niobium per le cavità supercondutttrici (…)”.

Del Giudice sembra dunque voler indicare, di fronte alla frantumazione del mondo in saperi e individualismi, la necessità di tracciare la mappa linguistica e concettuale della scienza, attività umana che ha segnato, da Galileo in avanti, il progresso dell’Occidente evoluto. E sembra voler dire che le parole per narrare la scienza non possono conoscere intermediari: il mondo deve essere catturato con le parole che lo descrivono, senza scorciatoie, senza inganni.

Ma se aver elevato i tecnicismi a necessità, nella narrazione avvicina i due personaggi e permette loro di comunicare, predispone anche il lettore ad accordare una preferenza del sentire ad Epstein piuttosto che a Brahe: la descrizione dei pensieri, degli stati d'animo del giovane scienziato appare filtrata dai tecnicismi. Osservando Brahe al lavoro, si ha la sensazione di quella di guardare un film senza sonoro, di spiare trattenendo il fiato.

Atlante occidentale è un libro, un esperimento, tutto da leggere. E da pensare.

In copertina


Daniele Del Giudice
Einaudi
1985
174
88-06-14872-9

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