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Quando la genetica fa discutere

Il professore Bruno Dallapiccola commenta le ultime notizie provenienti dai laboratori di ricerca

Bruno Dallapiccola Bruno Dallapiccola, è ordinario di Genetica medica all’Università «La Sapienza» di Roma, nonché direttore scientifico dell’Istituto Mendel di Roma. Dal 1985 coordina il censimento dei laboratori di diagnosi genetica in Italia, per conto della Società di genetica medica e umana. È autore di 520 pubblicazioni su riviste internazionali.

Professor Dallapiccola, i casi su cui riflettere nelle ultime settimane non sono mancati. L'ultima provocazione, in ordine di tempo, è quella di James Watson, premio Nobel nel 1962 per la scoperta della struttura del dna. Il 16 ottobre ha dichiarato che i neri sono meno intelligenti a causa del loro patrimonio genetico. Che fondamento scientifico ha una simile affermazione?

Nessuno. È una dichiarazione che va contro tutte le evidenze prodotte dalla ricerca sul genoma umano: è ormai dimostrato che non esistono le razze, ma solo le etnie, cioè gruppi di popolazione che possono avere caratteristiche somatiche (come colore della pelle o forma del cranio) un po' diverse, ma ciò non ha nulla a che fare con il cervello. Nella fattispecie, è stato dimostrato che le differenze genetiche tra una persona bianca e una nera sono minori rispetto alle quelle che a volte ci sono tra persone che vivono al Nord e al Sud di uno stesso Paese (es. un siciliano e un valdostano). La ricerca genetica ha chiarito una volta per tutte che il termine razzismo va bandito. Ciò che ha detto Watson è una "licenza poetica" legata all'età avanzata: anche i premi Nobel, quando arrivano a 90-95 anni, sono rintronati come noi che non abbiamo vinto il Nobel.

genoma umanoIl genetistaCraigVenter ha conquistato fama internazionale quando, nel 2001, ha completato il sequenziamento del genoma umano. All’epoca si parlò della «più grande scoperta dell’umanità». È così?

È stato un risultato importante soprattutto per la ricerca, certo non perché abbia cambiato in modo radicale le nostre vite. Se è vero, infatti, che negli ultimi 50 anni la vita media si è allungata di 25-30 anni, è pure vero che noi non abbiamo toccato un solo gene. Questo progresso straordinario, infatti, non si deve a manipolazioni genetiche, ma a cambiamenti nell’ambiente, nell’alimentazione, nella terapia farmacologica. In realtà il più importante trasferimento della genetica nella vita di tutti i giorni (di cui pochi parlano, nonostante i grandi interessi economici in ballo) sono i test genetici, cioè «l'analisi dei cromosomi, di un gene, del suo prodotto o della sua funzione, per identificare o escludere una modificazione che può essere associata a una malattia genetica» (Harper, 1997). Nel nostro Paese la domanda di questo tipo di test (a fini diagnostici, presintomatici, predittivi, di farmacogenomica, per l’attività forense…) registra un incremento annuo del 30 per cento. Il fatto è che ognuno di noi porta nel proprio genoma una decina di geni fasulli e mutati, che non si esprimono, di cui perciò è "portatore sano". Pochi ne sono consapevoli, perciò è indispensabile l’intervento di un esperto che aiuti a gestire bene le informazioni derivanti da un eventuale test genetico, che inevitabilmente rileverà le imperfezioni “congenite”.

In caso contrario quali rischi si corrono?

Più di dieci anni fa Jonsen, biologo canadese, disse che in seguito alla caratterizzazione del profilo genetico individuale sarebbero arrivati gli «unpatient», cioè persone che in base ai test sulla suscettibilità hanno la probabilità di sviluppare una determinata malattia, scrutano quindi ogni possibile sintomo e organizzano la loro vita attivando programmi di monitoraggio continuo: alcuni diventeranno “malati immaginari”. Altra conseguenza è che non accettiamo più il rischio di avere figli “imperfetti”: si dimentica, però, che quand'anche si eseguissero mille diversi test prenatali, ognuno di noi ha sempre tre probabilità su cento di avere un figlio handicappato. E la percentuale non può essere azzerata, proprio perché abbiamo tutti un patrimonio genetico imperfetto. Codificare il genoma di un individuo, d’altronde, è ormai alla portata di tutti (tra 5-10 anni costerà meno di mille euro). Il problema allora è: come gestiremo le informazioni derivanti da tale analisi?

mammografiaTempo fa una ragazza inglese, dopo aver scoperto attraverso un test genetico di essere predisposta al tumore alla mammella e avendo alle spalle una storia familiare negativa, ha deciso di farsi asportare il seno, pur essendo perfettamente sana…

Queste sono le estremizzazioni di una cattiva gestione della genetica. Una persona che ha un gene di suscettibilità al tumore della mammella ha 65-70 probabilità su cento di sviluppare la malattia nel corso della vita, quindi non ha un destino scritto al 100 per cento. Peraltro il carcinoma della mammella, se preso per tempo, è controllabile con una serie di interventi che hanno grande successo. Ritengo che il caso della ragazza inglese, privata di uno dei simboli della femminilità, sia una follia. Ripeto: il test genetico va gestito correttamente e il fine ultimo di non può certo essere l'asportazione preventiva della parte potenzialmente interessata. Purtroppo uno studio condotto nel 2005 dalla mia équipe ha dimostrato che su tutti i test genetici fatti in Italia (centinaia di migliaia ogni anno) appena il 13-14% è accompagnato da un’adeguata informazione. Torniamo al caso del cancro alla mammella: oggi conosciamo diversi geni coinvolti nella sua attivazione; se una donna risulta negativa a uno o anche a tutti questi, non significa che non svilupperà mai il cancro; c’è tutta una serie di concause di cui occorrerebbe tenere conto, sicché la negatività a un test genetico non mette nessuno al sicuro. A questo punto diventa evidente quanto sia drammatico il fatto che si possano vendere questi test via Internet, senza alcuna consulenza.

Recentemente un altro biologo, Stephen Minger, ha destato aspre polemiche per via delle sue ricerche sugli “embrioni chimera” (creati a partire da ovociti animali, svuotati del proprio patrimonio genetico e in cui è inserito dna umano). Che utilità hanno simili studi? Sono leciti?

Nel nostro Paese non sono ammissibili. Ma il divieto interessa in generale tutti gli Stati europei che hanno ratificato la Convenzione di Oviedo: ci sono regole di etica a livello internazionale (oltre che nazionale, come in Italia) che pongono delle barriere alla possibilità di fare esperimenti di questo tipo. Non sono convinto peraltro che tali ricerche possano avere una finalità terapeutica perché, per definizione, nessuno può ottenere cellule utili all'uomo usando citoplasma non umano: non c’è compatibilità. È la stessa ragione per cui il trapianto di fegato da altra specie si può usare solo come palliativo temporaneo, per poche ore o giorni, perché i tessuti delle due specie non sono compatibili. Gli esperimenti di Minger dunque hanno una valenza solo dal punto di vista speculativo (es. studi sulla regolazione della cellula, la sua divisione...). La creazione di una struttura mostruosa, non umana e non animale, desta comunque raccapriccio e si scontra inevitabilmente con il dibattito etico.

ricercatriceLa ricerca scientifica deve avere dei limiti? E, se sì, chi deve imporli?

Penso che i limiti se li dovrebbe porre il ricercatore, ma so anche che questa è un'utopia. Allora dico: la ricerca è fondamentalmente libera, ma quando tocca l'uomo e rischia di danneggiarlo, si deve fermare. Questo è il mio punto di vista. So che non è condiviso da tanti altri. Perciò la risposta alla sua domanda è che, se i limiti dovranno darseli i ricercatori, solo alcuni lo faranno. Forse ci vorrebbero regole super partes, ma effettivamente potrebbero finire con il limitare il lavoro del ricercatore. Penso che la cultura, il buon senso, il dibattito, la formazione e il confronto dovrebbero convincere le persone su ciò che è opportuno e ciò che non lo è.

Lo scorso 12 settembre Sir David King, capo consulente scientifico del governo inglese, ha proposto un «Codice etico universale» per i ricercatori. È una buona idea?

Si può dibattere e valutare il contenuto del Codice, ma soprattutto occorre stabilire chi dovrebbe farlo rispettare. Imporre dei limiti è inutile se poi non c’è chi li fa rispettare.

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