Recensioni

Un medico, un malato, un uomo

La storia toccante di un medico che scopre di essere colpito da un male incurabile e, dopo la prima reazione di rifiuto e disperazione, decide di continuare a vivere e battersi per i diritti dei malati come lui

È un libro che divori in un paio di ore. Ti avvince e ti emoziona ben più di un romanzo, perché è il racconto di una vita vera, con le sue grandezze e meschinità, le sue certezze e le sue paure, l’amore, la sofferenza, la malattia. E la morte, sempre in agguato. Un pugno nello stomaco che ti aiuta a crescere, come la confidenza di un amico vero che ha cara la tua sorte ed è spietato nella sua sincerità. Ma «Un medico, un malato, un uomo» di Mario Melazzini e Marco Piazza (ed. Lindau, 2007, pp. 130, 12 euro) è molto di più. È la storia dello stesso Melazzini, un medico di successo, con una bella casa, una famiglia serena, tre figli stupendi e una forma fisica da fare invidia. Il «Mela», come lo chiamano gli amici, è uno che non molla mai, quello sempre un passo avanti, con un’energia disarmante.

Il 7 febbraio 2002, a 44 anni, si sente un uomo realizzato, un vincente. Nel suo lavoro ha bruciato le tappe: ad appena 39 anni ha vinto il concorso da primario in Oncologia; all’Irccs di Pavia è stimato e rispettato da colleghi e pazienti. Ma quel giovedì si sente stanco, «una stanchezza strana, esagerata». Quando sale in bicicletta per il suo allenamento quotidiano capisce che qualcosa non va. Il piede sinistro non risponde, sembra addormentato. Cerca di far finta di niente e percorre qualche chilometro, ma suda più del solito, ha i crampi alle gambe. Fa marcia indietro: «È distrutto. Lascia la bicicletta in garage. Per sempre».

Inizia così il calvario della malattia, in un giorno qualunque della vita, quando meno te lo aspetti. Ci vuole un anno per avere la diagnosi: è Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una patologia degenerativa che mediamente porta alla morte in tre anni. Prima di giungere alla sentenza definitiva incontra parecchi medici. I più manifestano nei suoi confronti, come verso tutti gli altri malati, un atteggiamento glaciale, quando non brutale. Persino il suo amico neurologo Giovanni, quando sa degli accertamenti a cui Mario si è sottoposto, minimizza: «Cominci a essere un po’ stressato. Ho paura che ti stia suggestionando». La verità verrà a galla solo due anni dopo, quando si incontreranno casualmente a un congresso di neurologia: Giovanni lo abbraccerà con forza e gli confesserà tra le lacrime che aveva capito quasi subito che si trattava di Sla, ma non aveva avuto la forza di dirglielo, «aveva preferito che la diagnosi la facesse qualcun altro, anche se questa sua debolezza aveva probabilmente reso più lungo il calvario dell’amico». Purtroppo, riflette Mario, «noi medici abbiamo paura di condividere le emozioni dei nostri malati».

Il “Mela” passa dunque dall’«altra parte», diventa paziente e incontra sul suo cammino la sofferenza, il senso di impotenza, la depressione, la paura, il desiderio di farla finita prima di ridursi a un vegetale. Chi meglio di lui, medico, può sapere cosa l’attende? Si isola, allontana la moglie e i figli («Allora non avevo, o meglio credevo di non avere, bisogno di nessuno»); a casa trascorre pochissimo tempo, vive praticamente in ospedale. In pochi mesi perde 20 kg e non riesce quasi più a mangiare. Dopo mille ripensamenti, accetta di farsi mettere un sondino nello stomaco per nutrirsi artificialmente. «Mario», scrive l’amico giornalista Marco Piazza, «non è di quelli che danno libero sfogo alla rabbia, alle emozioni. Non dice mai “perché proprio a me?”. Ma ormai non ce la fa più a reagire. Si convince: “Non faccio nulla, lascio che succeda quel che deve succedere. Spero solo che accada nel più breve tempo possibile”».

disperazione Ma poi va oltre: contatta via posta elettronica una clinica svizzera che pratica il suicidio assistito che, dopo aver esaminato la sua cartella clinica, gli dà appuntamento per il mese successivo. All’incontro con la morte, però, Mario non va. Scappa, lascia la famiglia e per quattro mesi si rifugia in montagna, accompagnato da una badante. «All’epoca», racconta, «provavo due sentimenti prevalenti: paura e rassegnazione. Avevo paura della morte, prima di tutto. Sapevo che sarebbe arrivata presto, forse prestissimo. Ma non ero preparato ad affrontarla. E poi avevo paura della sofferenza che l’avrebbe preceduta. Anche questa, pensavo, sarà inevitabile. C’è la sofferenza fisica, che ti annienta e ti fa desiderare di andartene all’altro mondo il prima possibile. E la sofferenza dell’anima. Ancora più difficile da contenere e superare».

Tutto quel tempo passato da solo, però, lo aiuta a «elaborare il lutto»: «Così, come un fiore di montagna, che sboccia più tardi per via del freddo, il cuore di Mario si apre alla vita. Una vita nuova, piena. Che lo riconcilia con se stesso, con il lavoro di medico, con la sua famiglia. Dopo aver corso tanto, bruciato le tappe della carriera, dedicato la sua vita al “fare”, adesso comincia a sentire, a essere». «La scoperta», spiega Mario, «era che potevo vivere senza dover dimostrare niente a nessuno. Che non c’era niente di male a chiedere aiuto agli altri. Stavo riacquistando la mia dignità».

Come nel libro di Giobbe, che Silvano, l’amico sacerdote, gli aveva consigliato di leggere durante il ritiro in montagna, Mario «ha imparato a sopportare la sua malattia solo dopo averne conosciuto gli aspetti più terribili». Dopo aver provato su di sé una terapia sperimentale, «riprende a correre, a inseguire la sua missione. Ed è così che ad aprile 2006 viene eletto presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla)». Diventa un punto di riferimento per molti malati.

Entra in contatto con decine di persone fragili, che va a trovare a casa in tutta Italia, nonostante le evidenti difficoltà di movimento. E, in compagnia di un cantautore famoso suo grande amico, incomincia la sua battaglia più grande: quella contro la solitudine che spesso accompagna le patologie più gravi. «Ho sempre cercato di creare un rapporto umano con i miei pazienti. Anche quando stavo bene», racconta. «Ma ora è diverso, ora ho la fortuna, sì, la fortuna di provare sulla mia pelle cosa vuol dire essere malato. E ho aperto gli occhi. Ho visto l’abbandono nel quale sono lasciate le persone fragili. (...) Ecco, se prima mi occupavo di cercare di guarire, ora voglio curare. Sì, perché inguaribile non è sinonimo di incurabile. E anche se non posso guarire, voglio continuare a essere di aiuto agli altri, ai miei pazienti, ai miei compagni di malattia. (...) È questo il mio bisogno come medico. Come malato. E come uomo».

«Grazie alla Sla», prosegue, «ho potuto verificare come in certe condizioni la vita diventi indegna di essere vissuta e il malato e la persona con disabilità si possano sentire un peso sociale. Si tratta a mio modesto pare di un’offesa per tutti. (...) Il mio impegno attuale è focalizzato su questo: dobbiamo avere la certezza che tutti riceveranno trattamenti, cure e sostegni adeguati. (...) La vita è un dono (...): si deve valere sino al minuto in cui si muore e godere ogni minuto del miracolo di essere vivi».

malato Sla Non stupisce, allora, la reazione di Mario dinanzi al caso Welby: «Ci sono migliaia di persone che invocano il diritto a essere riconosciute invalide, a essere ammesse alle sperimentazioni, a essere prese in carico, ma nessuno se ne accorge. Poi c’è uno che evoca la morte come un diritto e non si parla di altro». Eppure, con gli strumenti giusti, sostiene Mario, si potrebbe avere una vita dignitosa, sempre e in qualsiasi posto. E poi bisogna considerare che l’esperienza della malattia ti cambia dentro, come è successo a lui, e che le certezze di oggi possono non essere più tali un domani. «Se quattro anni fa», spiega, «quando ero sano, mi avessero detto che un giorno sarei stato costretto a dipendere dalle macchine per vivere, avrei subito firmato un foglio in cui si stabiliva che quel giorno avrebbero dovuto staccare la spina. Invece oggi sono qui e affronto tutto questo».

E in tempi in cui si discute sempre più spesso di diritto alla morte, di eutanasia, di suicidio assistito, del principio di autodeterminazione del paziente, secondo Melazzini sarebbe invece importante «chiedersi con molta sincerità se proprio dalla mancanza sempre più evidente di assistenza qualificata, di supporto adeguato alla famiglia, di reti di servizi sociali e sanitari, di solidarietà e di coinvolgimento da parte dell’opinione pubblica, scaturiscano quelle condizioni di sofferenza e abbandono a causa dei quali alcuni malati chiedono di porre fine alla propria vita». E conclude: «La malattia non porta via le emozioni, i sentimenti e fa anzi capire che l’”essere” conta più del “fare”. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima».

(Il compenso degli autori è interamente devoluto all’Aisla)

In copertina


Mario Melazzini e Marco Piazza
Lindau
2007
130
9788871807034

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