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Te lo dico con parole tue

L'esperienza di un grande giornalista condensata in un volume prodigo di consigli preziosi

«Questo libro può essere pericoloso perché insegna a spiegare meglio anche le cose sbagliate»: è l’ironica «avvertenza» con cui Piero Bianucci, tra i più stimati giornalisti scientifici italiani, apre il suo ultimo libro «Te lo dico con parole tue. La scienza di scrivere per farsi capire» (ed. Zanichelli, 2007, pp. 204, 9.8 euro). Un avviso che, dopo il sorriso iniziale, induce a riflettere sul fatto che spesso l’informazione è “interessata” o, comunque, parziale. E infatti l’intento di Bianucci, che per vent’anni ha diretto il supplemento «TuttoScienze» de «la Stampa», è dare consigli per comunicare meglio, ma anche «aiutare una lettura critica di giornali e telegiornali, inducendo un atteggiamento attivo anziché passivo di fronte al potere dei grandi media».

L’informazione scientifica, scrive, costituisce solo una piccola parte delle notizie pubblicate dai quotidiani italiani (appena l’1,6 per cento del totale, contro il 20 dedicato alla politica interna e il 10 dello sport), ma non rappresenta un genere giornalistico autonomo: in linea di massima segue criteri e tecniche propri della professione tout court. E «c’è una sola regola nel buon giornalismo: farsi capire». Altra norma aurea riguarda la proprietà fondamentale della notizia, che deve «violare qualche consuetudine, rappresentare cioè una trasgressione rispetto alla normalità». In altre parole: non fa notizia che tutti vadano a lavorare, ma gli scioperi finiscono in pagina. Più in generale, la notizia scientifica segue, come le altre, la regola delle «cinque W». Perciò «una scoperta sarà tanto più importante quanto più cambia la visione del mondo preesistente (what e why), ma anche se la fa un ricercatore che si presta a essere o a diventare un personaggio (who), se è avvenuta in un laboratorio non lontano dal lettore (where) e se è stata annunciata poche ore prima (when)».

Se questa è la teoria, avverte Bianucci, la pratica di redazione segue spesso altre strade: «Nessuna regola stabilisce che cosa meriti realmente la pubblicazione. A complicare le cose vengono i condizionamenti politici dei proprietari dei giornali e il regime di concorrenza fra le testate». E aggiunge: «La prepotenza della tv ha portato un ulteriore condizionamento nella selezione degli argomenti», per cui «è notizia ciò che va in tv»: un fenomeno che in Italia «assume connotati patologici per la libertà e l’intelligenza». Secondo l’esperto c’è un solo modo per uscire dal vicolo cieco del “giornalismo debole” del nostro Paese: «concepire la notizia come una pagina di storia del presente. La storia non tramanda tutto, seleziona (pur con errori e condizionamenti) ciò che è significativo. Lo storico non accumula fatti a caso, individua quelli che disegnano il senso degli avvenimenti». Così, «se il giornalista di fronte a una notizia provasse a usare come filtro la categoria “storia del presente”, molti titoli si ridimensionerebbero, alcuni sparirebbero del tutto e altri ancora arriverebbero in pagina». I grandi giornalisti come Indro Montanelli si sono distinti proprio come “storici del presente”.

braccio di ferro La notizia scientifica, per quanto espressione del giornalismo tout court, ha anche una sua diversità che è importante riconoscere. Più precisamente, spiega Bianucci, possiede due caratteristiche distintive: «la durata nel tempo del suo messaggio e un fascino intrinseco tutto speciale, dovuto agli scenari inconsueti aperti dalla ricerca e al carattere investigativo del lavoro dello scienziato». La validità temporale, in particolare, è una pericolosa arma a doppio taglio, perché l’informazione lascia una traccia indelebile nella mente del lettore anche quando è falsa. Un esempio tra tutti? «Intorno al 1895 un ricercatore americano analizzò il contenuto delle foglie di spinaci e la sua segretaria nel ricopiare gli appunti sbagliò la posizione della virgola, facendo salire il contenuto di ferro da 3 a 30 milligrammi ogni 100 grammi di ortaggio. Da allora si è diffusa la credenza che gli spinaci siano ricchi di ferro; invece ne contengono una quantità del tutto simile ad altre verdure».

Non esistono metodi infallibili per evitare le bufale più o meno volontarie. Però, suggerisce l’autore, ci sono criteri di valutazione che aiutano a riconoscerle: diffidare delle scoperte che contravvengono a leggi scientifiche fondamentali (es. fusione fredda), dubitare di annunci dati in conferenza stampa prima che su riviste sottoposte a referee (cioè al controllo di altri scienziati), verificare le notizie clamorose con esperti del settore esterni al gruppo che ha dato l’annuncio, ricostruire il curriculum scientifico di chi comunica qualche novità mirabolante (es. attraverso Internet), usare sempre buon senso e scetticismo.

Altrettanto preziosi i consigli per scrivere meglio. La «legge fondamentale del buon divulgatore» è sapere dieci se vuole essere certo di spiegare bene uno. «È lì», afferma Bianucci, «che si giocano la scioltezza del discorso, la sicurezza nel tralasciare particolari superflui, l’abilità nell’estrarre dai fatti scientifici il senso profondo e nel comunicare l’emozione della scoperta». Il linguaggio, infine, dovrà essere misurato sul destinatario, altrimenti lo sforzo sarà inutile. Semplicità, comunque, non significa semplicismo: «Il lettore deve provare il piacere di capire, e non c’è piacere senza un minimo sforzo».

La verità, in generale, sarà un limite teorico a cui tendere, ma in concreto il giornalista agisce in un «pragmatico relativismo»: tra notizia e verità c’è sovrapposizione imperfetta e l’articolo è «il punto di equilibrio (talvolta un compromesso) tra dati di realtà, personalità del giornalista, linea editoriale, contesto sociale e difficoltà dell’argomento trattato». Una buona guida ai dilemmi etici e deontologici è l’originale rivisitazione dell’imperativo categorico di Kant («Critica della ragion pratica»): «Considera sempre il lettore come un fine e non come un mezzo». Alla luce di ciò ben si comprendono le parole di biasimo rivolte alla crescente commistione tra informazione e pubblicità, che «sta raggiungendo il limite di guardia, oltre il quale il lettore perderà ogni fiducia negli organi di stampa».

ricercatore dna Una fiducia che negli ultimi vent’anni si è molto assottigliata in tutti i Paesi, ma soprattutto in Italia, dove «l’atteggiamento antiscientifico, il sogno di un ritorno alla natura e di una fuga dalla tecnica» è «tanto radicale ed esteso da paralizzare lo sviluppo». Alla base della crisi, secondo Bianucci, c’è non solo un’informazione scientifica «scarsa e scadente», ma anche un profondo cambiamento nel mondo della ricerca, dove la convalida delle scoperte sfugge sempre più spesso alla peer review (confronto tra i pari) e la competizione per la conquista dei finanziamenti è una guerra senza esclusione di colpi.

Qualunque sia la causa del deterioramento d’immagine della scienza, la conclusione amara è «che di fronte alle decisioni tecnico-scientifiche la nostra società è bloccata». E, purtroppo, «non decidere è la peggiore delle decisioni. Ce lo insegna in Italia la storia del problema dell’energia. Presto altre lezioni potrebbero venirci dal sistema dei trasporti, dalle biotecnologie e dalle nanotecnologie, sulle quali sta già allungandosi l’ombra del sospetto prima ancora che siano uscite dai laboratori». In tutto ciò, come s’è accennato, l’informazione imprecisa e superficiale ha le sue colpe: «Nei prossimi anni la missione del giornalista scientifico sarà quella di segnare una svolta». Come? «Te lo dico con parole tue»...

In copertina


Piero Bianucci
Zanichelli
2007
204
978-8808-19530-2

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