Glossario

Vitalismo

Il vitalismo affermava che la vita ed il suo svolgersi erano espressione del flusso vitale, dal cui accentuarsi o dal suo affievolirsi dipendevano le malattie. Nato in Germania nel Settecento ad opera di G. Stahl, e rilanciato da John Brown in Gran Bretagna, il vitalismo si diffuse rapidamente in Francia, e poi in tutta Europa.

Stahl, professore all’Università di Halle, aveva proposto che alla base della vita stesse il movimento, sollecitato da una speciale entità che egli chiamò “motor tonicus”. Dalle modulazioni di questo inafferrabile flusso vitale sarebbero dipesi i vari avvenimenti propri della vita, ed anche le malattie, interpretate come una esagerazione ed un affievolimento del flusso stesso.

L’opera di Stahl passò relativamente poco osservata, finché la sua dottrina venne riproposta, con poche varianti, dallo scozzese Brown. Egli non parò di “motor tonicus”, ma di “flusso vitale”. Divise le malattie in ipersteniche ed iposteniche, a seconda che fossero dovute ad un eccesso o ad una diminuzione del flusso vitale. Alla base delle risposte organiche egli mise l’eccitabilità, che poteva variare in condizioni patologiche. Principio fondamentale della terapia divenne la contrapposizione al carattere della malattia. Ove l’eccitabilità fosse aumentata per eccesso di flusso vitale, occorreva deprimerla con opportuni trattamenti, quali il salasso, il sanguisugio, la somministrazione di purganti, emetici e clisteri.

La dottrina di Brown, detta “vitalismo”, dilagò presto in tutta Europa, e venne da alcuni anche detta “brownismo”. In Francia uno dei principali cultori ne fu il Broussais, che chiamò la sua dottrina “Nouvelle Doctrine Médicale Française” e che passò alla storia come il “più sanguinario” dei medici francese per il continuo e cospicuo ricorso ai salassi.

In Italia il vitalismo giunse con Giovanni Rasori, che elaborò, nel quadro generale, la sua teoria dello stimolo e del controstimolo. Ad uno stimolo patogeno capace di modificare in più o in meno il flusso vitale, si doveva rispondere con un controstimolo capace di combattere la deviazione. Rasori sottolineò come l’infiammazione costituisse un fenomeno comune di quasi tutte le malattie, ove esprimesse un eccesso di flusso vitale. Essa si doveva perciò combattere con salassi, purganti, clisteri, emetici, cioè con procedure capaci di ridurre la massa sanguigna circolante. Altro epigono del vitalismo fu Giacomo Tommasini, per il quale ogni malattia era un’angioite diffusa. Mentre queste dottrine ebbero scarso impatto sullo sviluppo della Chirurgia, la Medicina ne fu invece ampiamente penalizzata.

In Italia, il vitalismo divenne istituzione soprattutto al tempo di Napoleone, grazie al medico parmense Giovanni Rasori, che lo apprese in Francia e ritornò coi francesi, divenendo un importante seguace di Napoleone, che lo mise alla testa della Sanità cisalpina. Rasori introdusse la sua dottrina “dello stimolo e del controstimolo”, che non si discostava di molto dal puro brownismo. Ritenne che alla base della maggior parte delle malattie ci fosse l’infiammazione, che occorreva combattere con controstimoli come i salassi, il sanguisugio, ecc. Al momento della Restaurazione, Rasori pagò con la prigione le sue simpatie politiche. Le sue idee furono amplificate e diffuse da un altro parmense non compromesso con la politica, Giacomo Tommasini, che credeva che alla base della maggior parte delle malattie stesse un’infiammazione diffusa dei vasi, cioè un’angoite diffusa. I suoi principi vennero definiti “Nuova Dottrina Medica italiana”, in contrapposizione di nome, ma non di sostanza, con quella francese del Broussais.

A metà del Secolo, la stragrande maggioranza dei medici italiani era vitalista. Ogni malattia veniva immessa in uno schema vitalistico, al di là del quale stava l’eresia. Era soprattutto il vitalismo tommasiniano a trionfare, invano contrastato da pochi sostenitori dell’importanza dell’osservazione dell’ammalato, per giungere ad una diagnosi e ad una terapia basata sui principi di Ippocrate. Tra questi, il più famoso è il cesenate, Maurizio Bufalini, titolare della cattedra di Medicina nell’Istituto Superiore di Firenze. I suoi libri “Patologia analitica” e “Cicalate” sono i massimi monumenti dell’opposizione al vitalismo trionfante. Fuori Torino, fu il padovano Giacomini uno dei massimi epigoni del vitalismo. Giunse sino a negare l’esistenza dei globuli rossi. Per i vitalisti, l’esperimento non contava e non era necessario. Ciò che era importante era la dottrina, da cui discendeva la terapia: sempre la solita, in qualunque tipo di malattia, e cioè salassi, sanguisugio, emetici, purganti. Questa terapia veniva praticata persino nel colera, considerato anch’esso una malattia di tipo flogistico, da curare di conseguenza. In Accademia di Medicina a Torino, il Borelli, un dottore aggregato, riferì un fatto strano: un coleroso assetato aveva chiesto dell’acqua; lui gliel’aveva data, ed il coleroso era guarito. Fu subissato da un coro di proteste e di tentativi di interpretazione che mantenessero il caso entro lo schema vitalistico, e il Borelli non insisté. A Torino, qualche critica al sistema vitalistico ed alla conseguente terapia venne soprattutto dai medici pratici. Uno di essi, Alessandro Sella di Biella, cugino primo del più famoso Quintino, si distinse, in Accademia, con i discorsi e gli scritti, contro la volontà di inquadrare ogni malattia, ed ogni ammalato, in schemi preconcetti. Egli si richiamava al sano empirismo ippocratico, battendosi anche contro l’eccessivo uso dei salassi. Non era legato né all’Università, né agli Ospedali, ed era perciò libero di esporre la sua opinione. Nonostante il suo impegno, non riuscì però a scalfire le opinioni dei suoi colleghi vitalisti; del resto, era nato vitalista egli stesso, e non era aperto alle novità, neanche quelle che venivano dall’estero, soprattutto in forma di scoperte della chimica.

In Germania erano infatti avvenute, in questo settore, scoperte importanti. Il Vöhler era riuscito ad ottenere in laboratorio la sintesi dell’urea a partire da sostanze inorganiche: si frantumava quindi la concezione che il mondo inorganico e quello organico fossero nettamente separati. Per di più, Justus Liebig, che pure era vitalista, mise le basi per lo studio delle trasformazioni biologiche delle sostanze, organiche e inorganiche, con particolare riguardo all’agricoltura. Egli mise quindi le basi per lo studio del metabolismo e della chimica biologica. Si creò su queste basi una nuova dottrina, il chemio-organicismo, che si tentò di applicare anche alla Medicina. Questa dottrina, anche se non negava il vitalismo formalmente, metteva le basi per l’apertura alla sperimentazione ed al positivismo.

Il positivismo si faceva strada sulla via aperta dal chemio-organicismo, dapprima in Francia, e poi in Germania, come una nuova dottrina filosofica. In Francia, ne era stato epigono Auguste Comte. In Germania essa assunse presto la “facies” del materialismo, per opera di Carl Ludwig Feuerbach. Il positivismo insegnava la netta separazione fra la metafisica e la Scienza, e propugnava lo sviluppo della Scienza attraverso l’osservazione e l’esperimento. Il motto “Credi solo a ciò che puoi dimostrare” costituiva la linea fondamentale per ciascuno scienziato. Occorreva quindi sperimentare, e dimostrare sulla base dell’esperimento. Non si doveva confondere la Religione, che apparteneva alla metafisica, dalla Scienza, che apparteneva al mondo.La visione radicale di Feuerbach, che venne detta materialismo, sosteneva addirittura che Dio è una creazione dell’Uomo, e che non era vero il contrario. L’opera fondamentale di Feuerbach, “L’essenza del Cristianesimo”, è tutta rivolta alla dimostrazione di questa tesi.

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