Dossier

Il grande cuore di Torino

Un ponte attraverso l'Atlantico

Mayo Clinic Tra i fiori all’occhiello della Cardiologia delle Molinette c’è l’organizzazione di un confronto annuale con i massimi esperti italiani ed europei e i cardiologi della Mayo Clinic (Rochester, Usa), uno dei centri internazionali più importanti e all’avanguardia nell’ambito delle malattie cardiovascolari. La terza edizione del «Joint meeting with the Mayo Clinic», svoltasi dal 15 al 17 novembre 2007, ha affrontato un tema molto complesso e attuale: «Il trattamento del paziente ad alto rischio». Gli oltre 300 cardiologi partecipanti hanno discusso di sindrome coronarica acuta, ma anche di cardiopatia valvolare mitralica e aortica, scompenso cardiaco refrattario e nuove prospettive in termini di terapia medica, elettrofisiologica, chirurgica e cellulare. In parallelo, 200 infermieri hanno seguito un corso di formazione sulle problematiche di assistenza ai cardiopatici.

«I pazienti ad alto rischio sono sempre più numerosi sia per l’innalzamento dell’età media della popolazione sia per il progresso tecnico e scientifico delle terapie», ha esordito Sebastiano Marra, direttore di Cardiologia 2 alle Molinette e presidente del Congresso. «Abbiamo dunque a che fare con malati che fino a pochi anni fa erano condannati a non avere alcuna prospettiva di cura. Il nostro obiettivo deve essere migliorare la loro qualità di vita».

La prima tappa, su cui tutti i convenuti hanno concordato, è la creazione di centri altamente specialistici collegati al resto della rete ospedaliera: lì andranno dirottati tutti i pazienti cardiopatici, ai quali occorre comunque garantire una prima diagnosi precisa e rapida. Il professor Hartzell Schaff (Rochester), tra i più stimati cardiochirurghi negli Stati Uniti, ha ammesso che «il netto miglioramento registrato tra gli anni Ottanta e Novanta non è dovuto a una superiore abilità nelle tecniche operatorie, ma al più affinato trattamento post-intervento». E purtroppo, ha aggiunto, «sono migliorati i sintomi, non la sopravvivenza dei pazienti». In particolare, per quanto riguarda le valvole artificiali, Schaff ha dichiarato che «il loro design è rimasto sostanzialmente immutato, mentre è migliorata la qualità dei materiali e la tecnica di produzione».

valvola artificiale Alla Mayo Clinic, ha riferito, si impiantano 1.200 valvole all’anno (36% meccaniche e 64% tissutali): la sopravvivenza dei pazienti a 15 anni dall’impianto è del 79% nel caso delle valvole meccaniche e del 66% per quelle tissutali (i rischi di emorragia e sanguinamento sono però maggiori per le protesi meccaniche); a 20 anni dall’impianto la sopravvivenza scende rispettivamente al 23% e al 6%. «La nostra speranza è che le valvole attuali possano durare più a lungo di quelle della generazione precedente, a cui si riferiscono queste percentuali». In linea di massima, secondo l’esperto, la mortalità resterà comunque superiore con le valvole tissutali, che dunque sono indicate soprattutto per pazienti “giovani” che possano affrontare in futuro la sostituzione dell’impianto. Fondamentale per tutti i malati è la buona gestione della terapia post-impianto: «Alla Mayo abbiamo impostato un programma specifico volto a educare i pazienti a un corretto stile di vita e un attento uso dei farmaci anticoagulanti quando tornano a casa: il rischio di complicanze si è dimezzato».

L’impiego di stent medicati, altro argomento delicato, è stato al centro dell’intervento del dottor Corrado Tamburino (Catania), che ha puntualizzato come, nonostante l’allarme lanciato lo scorso anno sulla loro pericolosità, «gli stent medicati hanno ormai superato quelli metallici (sono impiantati nel 55% per cento dei pazienti), riducendo di riflesso il numero di interventi by-pass e abbattendo del 37% la necessità di una rivascolarizzazione successiva». Dunque, ha aggiunto, «sono particolarmente indicati per i pazienti ad alto rischio, purché assumano contemporaneamente farmaci antitrombotici».

Il dottor Antonio Marzocchi (Bologna), grande esperto di valvuloplastica, ha introdotto uno dei temi più innovativi del congresso: l’impianto di valvole per via percutanea, praticato finora solo su 19 pazienti italiani (età media 77 anni) in quattro centri (Catania, Pisa, Padova e Brescia), a cui da gennaio 2008 si aggiungono le Molinette di Torino. «Il primo intervento di questo tipo risale al 2002, ma fino all’estate 2007 la metodica era ancora sperimentale e incerta. Oggi possiamo contare su basi applicative solide». La tecnica standard di impianto, che attualmente richiede in media 57 minuti, è «retrograda percutanea femorale», vale a dire che la valvola compressa viene infilata con un catetere nell’arteria femorale e da qui, attraverso le arterie iliache e l’aorta, è portata fino al cuore. La valvola viene compressa poco prima dell’intervento con un procedimento a bassa temperatura. Il sito di impianto viene predilatato con una angioplastica. «Il problema principale sta nella selezione dei pazienti», ha spiegato Marzocchi. «Si tratta per lo più di malati ad alto rischio e, diversamente, inoperabili. Il successo procedurale è dell’89%, ma la mortalità a 30 giorni è ancora piuttosto alta, pari al 14%, per via anche della gravità delle condizioni originali dei pazienti».

operazione cardiologia1 Per i soggetti che hanno problemi di restringimento delle arterie iliache, si procede all’«accesso transapicale», cioè si effettua una mini-toracotomia a cuore battente e si infila il catetere con la valvola compressa direttamente nell’aorta: la collaborazione tra cardiologo e cardiochirurgo è dunque estremamente importante. «È ragionevole pensare che le valvole percutanee garantiscano un risultato terapeutico più duraturo rispetto a interventi più tradizionali come la valvuloplastica, che continua comunque a dare ottimi esiti, oltre a costitutire una base di allenamento essenziale per il chirurgo».

Altrettanto interessante il dibattito sull’impiego di cellule staminali in ambito cardiovascolare. Gli studi conclusi nell’ultimo anno hanno portato a risultati diametralmente opposti. Alla base dei risultati contradditori ci sono numerosi fattori. Anzitutto, è stato ricordato, la cosiddetta “terapia rigenerativa” è un campo di ricerca relativamente giovane: il primo studio in cui sono state utilizzate cellule staminali per riparare il cuore è del 1999, e sette anni per un campo di ricerca sono pochi, nonostante la straordinaria proliferazione scientifica che si è registrata in seguito. Siamo dunque ancora nella fase sperimentale, in cui occorre identificare il tipo ideale di cellule staminali da utilizzare, il sistema migliore per espanderle (cioè farle aumentare di numero), la modalità di trasferimento nel cuore, il sito in cui iniettarle ma, soprattutto, il meccanismo attraverso cui si realizzerebbe il miglioramento della funzione cardiaca: «transdifferenziazione» (cioè trasformazione di cellule staminali in cardiomiociti) o «fusione cellulare» o, come si pensa attualmente, attraverso un meccanismo di tipo simil-ormonale in cui le cellule staminali iniettate nel cuore liberano fattori di crescita che influenzano in vario modo le cellule cardiache circostanti? Altro punto su cui concordano gli esperti è che lo stato infiammatorio che si associa all’infarto miocardico acuto è probabilmente un fattore chiave nell’attirare le staminali e dunque nella risposta terapeutica.

La sperimentazione che verrà avviata alle Molinette nella seconda metà del 2008 arriva dopo quella condotta nel 2005 su otto pazienti colpiti da infarto al miocardio e sottoposti ad angioplastica e, successivamente, a una cura a base di citochine (sostanze che stimolano la produzione di alcune staminali del midollo). «I test del 2005 avevano dato risultati positivi, facendo registrare una buona percentuale di riparazione nelle lesioni cardiache», ha spiegato Marra. «Tuttavia nell’ultimo anno altre sperimentazioni hanno portato a risultati contrastanti. Il punto fondamentale è capire cosa fa divergere tanto gli studi tra loro e dunque stabilire: 1) quali cellule usare (sappiamo, ad esempio, che se sono purificate ed espanse il risultato è migliore); 2) a quali pazienti somministrale (si è visto, tra l’altro, che se iniettate in pazienti con una frazione di eiezione inferiore al 50% si ottengono risultati più buoni); 3) dove iniettarle; 4) quando somministrale (uno studio tedesco ha stabilito che è meglio procedere almeno quattro giorni dopo l’infarto)». La nuova sperimentazione coinvolgerà otto ospedali piemontesi, tra cui l’infantile Regina Margherita, dove la dottoressa Franca Fagioli il 29 novembre 2007 ha inaugurato un innovativo laboratorio per la terapia cellulare. «Il protocollo per la nuova sperimentazione segue la direttiva europea del 2004 che assimila le staminali ai farmaci e dunque impone precisi adeguamenti procedurali». Lo studio prevede due gruppi sperimentali di pazienti: nel primo le cellule staminali saranno prelevate dal midollo, selezionate e reiniettate in sede coronarica il giorno successivo all’infarto; nel secondo gruppo le staminali saranno prelevate il secondo giorno, ma reiniettate (previa selezione ed espansione) solo il nono giorno. «Le cellule staminali», ha spiegato l’esperta, «dovranno essere vitali almeno nel 98% dei casi, non dovranno aver subito danni durante la manipolazione ed essere sterili». Il monitoraggio dei pazienti durerà un anno.

angiografia Un ultimo cenno alle tecniche diagnostiche, che hanno destato grande interesse tra gli esperti riuniti a Torino. L’imaging cardiaco, ha spiegato il dottor Eugenio Martuscelli (Roma), ha raggiunto livelli di risoluzione spaziale e temporale che permettono di analizzare dettagli finora visibili solo sul tavolo operatorio. La tomografia coronarica, ad esempio, consente di acquisire immagini tridimensionali delle coronarie in soli 6 secondi (con la Tac a 64 strati) e di individuare casi di stenosi coronarica anche là dove l’esame ecocardiografico bidimensionale tradizionale esclude placche aterosclerotiche. Le nuove tecnologie, tuttavia, presentano anche grandi limiti: la nefrotossicità del mezzo di contrasto, la pericolosità in caso di instabilità della frequenza cardiaca, la scarsa utilità in caso di forti calcificazioni, la difficoltà applicativa in pazienti incapaci di stare in apnea per alcuni secondi, l’esposizione a radiazioni ma, soprattutto, l’assenza di cardiologi e radiologi capaci di interpretare le nuove immagini tridimensionali. Limiti importanti, ma comunque superabili in breve tempo secondo Martuscelli, purché vi sia una buona collaborazione tra le varie figure professionali coinvolte.

Suggerimenti