Dossier

Chimica da Nobel a Torino

«Should’ve»: scienza ed etica in scena

«Should’ve» di Roald Hoffmann ruota attorno al suicidio di Friedrich Wertheim, un chimico che (proprio come l’autore) è nato in Europa da una famiglia ebrea all’epoca del nazismo ed è poi emigrato negli Usa. Guilt Friedrich non ha retto il senso di colpa derivante dal fatto di aver creato una neurotossina che è stata usata da un gruppo di terroristi per compiere una strage di innocenti. Le circostanze e le ragioni della sua morte turbano profondamente tre persone che gli erano vicine: la figlia Katie (lei stessa ricercatrice, biologa molecolare, convinta che gli scienziati non abbiano alcuna responsabilità sui possibili usi illeciti delle loro scoperte e che la scienza sia sempre nel giusto), il fidanzato di Katie, Stefan (un artista concettuale, convinto anche lui, che l’arte debba esprimersi nella massima libertà, senza lasciarsi condizionare dalle possibili conseguenze negative delle proprie produzioni), e la seconda moglie di Friedrich, Julia, da cui era separato da tempo (in lei, più che in ogni altro, si rispecchia il pensiero di Hoffmann).

Le vite di queste persone vengono sconvolte dal suicidio di Friedrich. Le ragioni del suo atto non sono semplici come sembra: emerge, tra l’altro, una storia legata alla sopravvivenza dei suoi genitori nella Germania nazista. Nelle 26 agili scene del dramma la diversità di vedute tra Katie e suo padre emerge in tutta chiarezza. E nascono anche domande sulla responsabilità sociale degli artisti: Stefan ha più di uno scheletro nell’armadio...

«Should’ve» è un invito a riflettere sulle norme etiche e morali che dovrebbero illuminare il cammino della scienza e dell’arte, ma è anche una riuscita rappresentazione dell’enorme potere di trasformazione della morte. I tre personaggi in scena appaiono tanto più impotenti quanto più sono divisi dai ricordi e dal passato che emerge dal suicidio del loro congiunto. Eppure, proprio dalla morte di Friedrich, prenderà forma un diverso legame tra di loro.

reazione chimica Roald Hoffmann spiega così la sua vicinanza al personaggio di Julia, al di là delle differenze di genere e di professione: «Entrambi cerchiamo e diamo valore a ciò che sta “nel mezzo”, tendiamo a evitare gli eccessi». E chiarisce ulteriormente il proprio pensiero nel testo «This I Believe» (pubblicato dalla rivista «Chemistry International» di maggio-giugno 2007): «Io credo che “nel mezzo” ci sia tensione e lo trovo interessante proprio per questo. Può darsi che non sia ciò che il mondo vuole, per lo meno ciò che i giornalisti vogliono: opinioni forti, perché gli estremi costruiscono una buona storia. D’altronde… per chi lo sostiene l’estremo è un rifugio, un porto quieto. (…) Perché allora a me piace “il mezzo”, dove c’è tensione? Perché sono fatto così e, forse, perché sono un chimico».

«(…) Sono nato nel 1937 nella Polonia sud-orientale, l’attuale Ucraina. La mia allegra famiglia ebrea è rimasta intrappolata nella distruttiva macchina nazista dell’anti-semitismo. Molti di noi sono morti. Mia madre ed io siamo sopravvissuti, nascosti per gli ultimi 15 mesi di guerra da una insegnante ucraina, Mikola Dyuk. (…) Triste a dirsi: gran parte della popolazione ucraina si comportò molto male in quei giorni terribili. In molti aiutarono i nazisti a sterminarci. Eppure, eppure, alcuni ci salvarono, a rischio della loro stessa vita. Allora non ne ero del tutto consapevole, ma sapevo dalla nostra esperienza che le persone non sono semplicemente buone o cattive. Sono potenzialmente l’una e l’altra cosa».

«Giunto in America, diventai un chimico. La chimica (…) è una scienza “nel mezzo”, in molti sensi. Non si occupa di quarks o galassie, ma di molecole, che stanno appunto nel mezzo. E restano sospese tra diverse polarità: benefiche/dannose, pure/impure, naturali/artificiali, isolabili/mescolabili. Pensiamo ad esempio alla morfina. Chiunque abbia subito un’operazione chirurgica sa quanto sia benefica. Eppure è una droga mortale, che crea dipendenza. Consideriamo ancora l’ozono: in alto, nell’atmosfera, uno strato di esso ci protegge dalle pericolose radiazioni ultraviolette del Sole; a livello del mare, invece, è un prodotto dell’inquinamento fotochimico, attacca i pneumatici delle auto e i polmoni degli uomini. E non è un’altra molecola, ma la stessa identica molecola».

bilancia «Un principio fondamentale della chimica è l’equilibrio, che non significa stare immobili, in quiete. La chimica si occupa principalmente di cambiamento, di A+B che diventano C+D. E all’inverso. Nel punto di equilibrio ci sono un po’ di A e B, un po’ di C e D. Sembra solo quieto, quel “mezzo”. Ma è un mezzo dinamico, pronto al cambiamento. Volete che la reazione vada in un modo o in un altro? Potete sempre alterare l’equilibrio. Il mezzo (il mio mezzo “psicologico”, così come l’equilibrio chimico) non è statico. Il mezzo ha il potenziale, io ho il potenziale, voi avete la possibilità di andare in una direzione o nell’altra. E questo mi piace».

«Certo, ricerco anche la stabilità. Ma credo che le posizioni estreme (tutti reagenti, tutti prodotti, tutta la gente A cattiva, tutta la gente B buona, nessuna tassa, tasse fino alla morte…) siano poco pratiche, innaturali, noiose, il rifugio delle persone che non vogliono cambiare mai. Il mondo non è semplice, anche se gli slogan politici (di ogni colore) pretendono che sia tale. A me piace la tensione del mezzo, e sono grato per questo mondo che mi offre la possibilità di cambiare».

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