Dossier

Il grande cuore di Torino

Sebastiano Marra: «L’obiettivo è dare una speranza a tutti i malati»

Dirige la divisione di Cardiologia 2 delle Molinette da cinque anni, ma ne fa parte da oltre trenta. In quest’arco di tempo Sebastiano Marra ha manifestato un’indubbia predisposizione a cogliere le sfide che promettevano migliori cure per i pazienti: nel 1977 è stato co-fondatore del primo laboratorio piemontese per la Valutazione funzionale del paziente infartuato, nel 1981 ha avviato il laboratorio di Cardiologia nucleare, nel 1986 ha eseguito la prima angioplastica coronarica della Regione, nel 1992 ha applicato i primi stent endocoronarici, nel 2005 ha coordinato uno studio pionieristico sulle cellule staminali. Inaugura nel 2008 gli innovativi impianti percutanei di valvole cardiache per proseguire  con una seconda sperimentazione sulle staminali che coinvolge altre sei cardiologie cittadine, l’ospedale Regina Margherita di Torino e l’Istituto Mario Negri di Milano.

Marra SebastianoDottor Marra, iniziamo dai nuovi impianti percutanei di valvole cardiache…

Nella prima fase (“sperimentale” solo per modo di dire, perché la nuova metodica ha già ricevuto l'autorizzazione all’uso clinico) la problematica più grande è la selezione dei pazienti. La tecnica percutanea di impianto della valvola aortica è abbastanza complessa, richiede adeguate capacità e competenze, quindi non è di libera pratica: l’introduzione in un ristretto numero di centri serve anche a definire linee-guida standard che possano essere successivamente estese ad altri ospedali. In generale i pazienti per cui è indicata questa metodica sono quelli più in cattive condizioni: quelli, per intenderci, rifiutati dal cardiochirurgo e, dunque, condannati a morte dalla loro malattia. È chiaro che iniziare con soggetti così difficili, che hanno già in sé un elevato rischio di esito infausto, non è incoraggiante per una tecnica nuova. Al momento ci stiamo orientando su pazienti rifiutati dal cardiochirurgo che, però, abbiano ancora una buona funzionalità epatica e respiratoria, abbiano un buon accesso vascolare e presentino una curvatura dell'aorta sufficiente a far passare la valvola compressa. Finora abbiamo individuato quattro malati con queste caratteristiche. Una volta ottenuto il benestare del comitato europeo deputato a giudicarne l'idoneità, si parte. Questa, a grandi linee, la tempistica.

Lei stesso ha sollevato in passato un’obiezione provocatoria: gli interventi su questi pazienti sono una forma di accanimento terapeutico?

La percezione diffusa è che i medici facciano di tutto perché i pazienti non muoiano mai. Questo atteggiamento può essere letto in due modi: uno negativo, per cui vi si ravvisa l'accanimento terapeutico; l'altro positivo (e onesto), per cui si parte dal presupposto che il medico da sempre cerca di garantire una vita più lunga ai propri pazienti. Ovviamente fare qualcosa di più costa caro, non solo in termini di denaro, ma soprattutto di impegno e capacità di persuasione nei confronti del paziente, perché occorre convincerlo a sottoporsi a procedure nuove o sperimentali. Per carattere, per etica professionale e per convinzione morale noi medici tendiamo a fare questi tentativi. Qualcuno può pensare che sia meglio lasciar morire "in pace" certi pazienti. Tuttavia, se si trattasse di un mio congiunto, tenterei di farlo vivere più a lungo possibile. I malati stessi e i loro familiari, d'altronde, si aggrappano alla vita nella maniera più disperata e i nostri tentativi alla fine vanno incontro alle loro stesse aspettative.

operazione cardiologia2 Partendo dalla constatazione che, in genere, occorre maneggiare con molta cura le valvole tradizionali prima e durante l'operazione perché ciò può compromettere la loro funzionalità nel lungo periodo,  cosa possa accadere con le valvole impiantate per via percutanea, dal momento che per collocarle in sito occorre accartocciarle. Insomma, che affidabilità tecnologica hanno i nuovi impianti?

La valvola impiantabile per via percutanea è composta da due parti distinte. Una è un cestello fatto di un materiale metallico estremamente elastico, che permette l'autoespansione della valvola nel sito preventivamente dilatato per ospitarla. L’altra parte è cucita all'interno ed è composta da una serie di lembi realizzati con pericardio di maiale, lo stesso materiale di cui sono composte le protesi tradizionali. Di fatto non esiste un'esperienza a lungo termine che possa dire quanto la compressione possa essere lesiva della funzionalità delle valvole. Però, mediamente, la compressione viene effettuata solo qualche secondo prima dell'impianto (le valvole infatti sono prodotte e conservate come impianti aperti e distesi), avviene con metodo meccanico molto semplice e razionale, dura in tutto 10-15 minuti. Teoricamente, quindi, non dovrebbe comportare un deterioramento, anche perché nelle valvole tradizionali il danno è legato alla manipolazione vera e propria, cioè al fatto che il chirurgo prende in mano il dispositivo, lo posiziona e lo fissa con vari punti di sutura e fili. Credo che questo maneggiamento tradizionale del chirurgo abbia un traumatismo tutto sommato assimilabile a quello della compressione per le valvole percutanee. Ma voglio essere onesto fino in fondo: le valvole impiantate con la nuova tecnica hanno solo un anno di vita e non sembra diano problemi. Chiaramente si potrà dare una risposta definitiva e fondata solo tra qualche anno. Comunque sia, in genere noi medici ci basiamo su una valutazione “banale”: se un intervento dà qualche anno di vita in più a pazienti che altrimenti avrebbero davanti solo alcune settimane o mesi, è un ottimo risultato, almeno dal punto di vista etico. Per il momento le nuove valvole non promettono risultati di sopravvivenza a lungo termine (nell’ordine di 10 o 15 anni). Ma non è escluso che, nel tempo, la tecnica prenda a funzionare e si arrivi a esiti migliori. Sono convinto che, se i risultati saranno confermati, questa metodica sarà estesa anche a situazioni meno drammatiche.

Passiamo alle cellule staminali, altra strategia terapeutica di cui si fa un gran parlare e in cui tanti ripongono molte speranze, nonostante i risultati per ora siano incerti: alle Molinette è stato avviato un nuovo studio. Di che si tratta?

È una procedura molto complessa. I dati sperimentali osservati sugli animali, infatti, non sempre si sposano con quanto riscontrato sull'uomo; altri studi sull'uomo sembrano abbastanza rassicuranti in alcuni gruppi di pazienti ma assolutamente negativi in altri; ricerche condotte in modo diverso hanno creato ulteriore confusione... Attualmente gli sforzi sono volti a stabilire con quale tipo di malati sia meglio procedere e perché la tecnica sia fallita in alcuni casi e in altri no. Da queste risposte sarà possibile trarre indicazioni più precise. Siamo veramente in una fase pionieristica, in cui si sta imparando a "camminare". Ecco perché tante difficoltà, tanti dubbi e incertezze. Nel nostro studio, in particolare, abbiamo deciso di estrapolare le indicazioni migliori emerse dalle ricerche condotte nel resto del mondo e condensarle in un programma al momento unico in Italia. Ma è impresa di una durezza e complessità davvero rare.

Detto in parole povere, cosa cercate di dimostrare?

Cerchiamo di valutare se l’iniezione di cellule staminali arricchite permette di recuperare il danno registrato in alcuni pazienti colpiti da infarto esteso e che evolvono rapidamente verso lo scompenso. L'inoculazione viene fatta il 9° giorno successivo all'infarto miocardico acuto. I presupposti sembrano interessanti, ma vanno dimostrati con un gruppo di controllo, che non viene trattato. In questo modo è possibile fare un confronto serio e stabilire se c'è un beneficio e, soprattutto, se è autentico e non casuale, cioè derivante da selezione impropria dei pazienti.

Le cellule staminali vengono prese dallo stesso paziente?

cellule staminali Sì. Sono prelevate dalla cresta iliaca (il midollo) del paziente infartuato e poi trasferite nella «cell factory» (fabbrica delle cellule). In Italia queste “fabbriche” specializzate sono pochissime: a Torino ne ha realizzata una, unica in Piemonte, la professoressa Franca Fagioli all'ospedale Regina Margherita. Estrarre le staminali dal midollo, infatti, è relativamente facile, ma elaborarle, selezionarle e moltiplicarle richiede competenze e strutture molto complesse, alla portata di pochi. Le procedure di “arricchimento”, d’altronde, sono indispensabili per arrivare a quantità adeguate a colonizzare la zona infartuata. Dei miliardi di cellule iniettate in una coronaria, infatti, solo pochi milioni riescono veramente a impiantarsi nel muscolo cardiaco. Ad oggi non abbiamo alternative, ma pare che questa metodica funzioni.

Negli ultimi tempi l’efficacia degli stent medicati è stata messa sotto accusa: a che punto siamo? Possiamo fidarci?

La critica agli stent medicati, sollevata al Congresso europeo di Barcellona del 2006, è servita a moderare alcuni entusiasmi forse eccessivi. In pratica, si è scoperto che gli stent medicati aumentano il rischio di trombosi acuta, perché a volte l’impianto non aderisce perfettamente alla parete e non è ricoperto dall'endotelio: l'esposizione del metallo al circolo ematico può allora portare a un episodio trombotico. Gli stent medicati, dunque, non hanno risolto tutti i problemi delle coronarie (come alcuni ritenevano fino al 2006), ma ne hanno creati di nuovi, perché i pazienti sono obbligati a seguire una terapia antiaggregante in modo piuttosto vincolante e, se hanno bisogno di sottoporsi a qualsiasi intervento anche “banale”, hanno serie difficoltà. Negli stent tradizionali (non medicati) il rischio è legato soprattutto alla riproliferazione della placca aterosclerotica (ristenosi). Ora, se si vanno a valutare le percentuali dell'una e dell'altra problematica, emerge una profonda differenza: il rischio di ristenosi con gli stent non medicati è molto più elevato (colpisce mediamente il 20-30 per cento degli impianti), quello di trombosi con gli stent medicati è ben più basso (colpisce lo 0,5-0,6 per cento dei pazienti all'anno). Seppure piccolo, è un problema che prima era sconosciuto. D'altronde non è possibile avere un follow up adeguato relativo a una nuova tecnica, se non dopo alcuni anni dall’introduzione: i primi stent medicati sono stati impiantati nel 2002 e solo adesso, dopo 5 anni, possiamo valutare davvero la loro efficacia e utilità. Oggi, per fortuna, non c'è più la caccia alle streghe del 2006 e sappiamo ormai tutti che gli stent medicati non fanno certo morire, ma vanno applicati al meglio possibile. Abbiamo imparato, tra l’altro, che un certo tipo di pazienti, che sembravano idonei all’impianto di stent medicati, in realtà non lo sono, quindi la selezione accurata è fondamentale. Così, ad esempio, al signor Rossi che ha disturbi alla prostata e dovrà presto essere operato, non si impianta uno stent medicato, ma quello metallico semplice: Rossi rischierà la ristenosi, ma potrà sottoporsi all’intervento di prostata senza ulteriori complicazioni. È una valutazione che prima non si faceva. In definitiva, negli ultimi mesi c'è stata una piccola flessione percentuale nell'uso di stent medicati, ma saggia e ponderata.

In cosa consiste il rapporto tra le Molinette e la Mayo Clinic?

Anzitutto nell'organizzazione di un congresso altamente specialistico, che permette di discutere i temi più attuali con i colleghi d’Oltreoceano, da sempre all’avanguardia in ambito cardiologico e chirurgico. Negli Usa la corsa alle nuove metodiche è ben più pressante di quella che c'è in Italia; inoltre c’è un rigore per noi inimmaginabile: se si avvia una ricerca, la si porta a termine a ogni costo. La collaborazione con la Mayo permette, inoltre, di confrontarci durante tutto l’anno per discutere i casi clinici più difficili. Infine, consente di mandare i nostri ragazzi più promettenti a Rochester per fare stage di approfondimento altamente qualificanti.

Cosa ci dice per quanto riguarda l'allarme specifico sulle donne...

donna anziana Uno dei colleghi americani, Amir Lerman è uno dei più grandi esperti al mondo dell'endotelio femminile. L'endotelio è la parte interna della parete dell'arteria; non è un semplice rivestimento, ma un elemento attivissimo: determina la costrizione, la dilatazione, le condizioni che conducono alla trombosi...  Il punto è che la donna ha caratteristiche biologiche molto diverse dall'uomo. È un aspetto che non è mai stato valutato a fondo, tranne che in alcuni centri particolarmente lungimiranti. Dunque è vero, come hanno dichiarato i colleghi della SIC, che dobbiamo studiarlo di più.

Ma la SIC ha sottolineato anche che le donne sono state di fatto curate in modo non adeguato. È così?

Il punto è che sono sempre state “trattate” come l'uomo: è come mettere insieme cani e gatti, che hanno esigenze e caratteristiche diverse. Ciò però non vuol dire che abbiamo fatto morire più le donne degli uomini. Certo è che gli interventi e le terapie possono essere più efficaci se sono più mirati. Le terapie dovrebbero essere diverse, esattamente come si fa distinguendo tra bambini e adulti. È una sensibilità che sta maturando.

E come mai finora le donne sono state più "discriminate" dando per scontato che la loro biologia fosse simile a quella degli uomini?

Semplicemente si ignorava esistesse una differenza. Solo gradatamente si è preso coscienza del fatto che certe patologie, tipiche degli uomini, colpivano le donne esclusivamente o prevalentemente quando entravano in menopausa. Piano piano si è capito che alla base c'è una diversa risposta dell'endotelio: le donne hanno un’incidenza maggiore di spasmi coronarici, sono esposte a rischi di fenomeni dinamici piuttosto che a depositi statici come capita agli uomini, perciò manifestano episodi più acuti e concentrati nel tempo, mentre l'aterosclerosi che colpisce prevalentemente i maschi è un processo più lento e prolungato. Sono osservazioni che, forse, erano note da tempo, ma non se ne capiva la causa e non si faceva molto per ricercarla. Quindi quello della SIC non è un allarme vero e proprio: è una nuova sfida, un nuovo orizzonte di ricerca volto ad approfondire un aspetto finora poco indagato.

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