Ricci: esperienza ventennale in ambito clinico, didattico e di ricerca
«Il portatore di piaghe è il "lebbroso" della società contemporanea». L’affermazione di Elia Ricci, tra i massimi esperti italiani in materia, lascia esterrefatti. «Le ulcere e le piaghe croniche», spiega, «sono storicamente associate a malattie oggetto di forte stigma sociale come lebbra, colera o peste, perciò chi ne è affetto è da sempre vittima di ghettizzazione, senza diritti o quasi». Past president dell’Associazione italiana ulcere cutanee (Aiuc), Ricci vanta un’esperienza ventennale in ambito clinico, didattico e di ricerca, in collaborazione con i principali centri specialistici inglesi e francesi. È autore e coautore di 212 pubblicazioni scientifiche, nonché direttore scientifico della rivista «Acta vulnologica» (ed. Minerva medica). Svolge la propria attività professionale presso la clinica «San Luca» a Torino, dove è responsabile dell’Unità operativa di vulnologia, di cui egli stesso è stato promotore.
Professor Ricci, cominciamo dalle definizioni. Cosa si intende per «vulnologia»?
Il termine è stato ripreso dall'antica medicina romana. Ai tempi di Ippocrate, infatti, lavorava a Roma un medico greco di nome Arcagato. Si distinse come chirurgo vulnerarius (curatore di ferite) conquistando fama e prestigio sociale. A un certo punto, tuttavia, esagerò nell’uso del bisturi e del cauterio, tanto da meritarsi l’appellativo di carnifex e il generale disprezzo per lui e la categoria dei medici. A parte gli aneddoti storici, in realtà non esiste in Italia una vera e propria specialità in vulnologia. Il termine, da me introdotto circa otto anni fa, intende dare adeguata dignità a questo tipo di problematiche: finché non hanno un nome, non hanno neppure un'identità. Abbiamo anche fatto richiesta ufficiale affinché la parola venga introdotta nel vocabolario della lingua italiana.
Di cosa si occupa la vulnologia?
Come suggerisce il termine stesso, che è un misto di vocaboli latini e greci (vulnus=ferita e logos=studio), la vulnologia si occupa delle ferite cutanee in generale. Attualmente esistono parecchi centri specializzati nelle lesioni traumatiche, che sono anche definite «ferite acute» sia per la rapidità con cui si instaura la lesione sia per la concomitante assenza di malattie che arrestano il processo cicatriziale; l’agente che determina la comparsa della lesione è esterno e la sua durata limitata nel tempo. È il caso, ad esempio, delle ferite da taglio e chirurgiche, o dovute ad abrasione, ustione, congelamento, agenti chimici e radioattivi; se ne occupano, tra gli altri, i centri traumatologici o quelli per i grandi ustionati. Più rari sono, invece, i centri come il nostro specializzati nelle cosiddette «ferite croniche», dove per ferita cronica si intende una lesione tessutale che interessa, a seconda dei casi, la cute, il derma e gli strati sottocutanei, fino a raggiungere negli stadi più gravi i muscoli e le ossa, e che per qualche ragione (malattie sottostanti, infezioni locali, difetti di cura...) non guarisce. Il vulnologo, in questo caso, cerca di scoprire i fattori che determinano la lesione (es. attrito, frizione, malnutrizione, malattia, ridotta mobilità...), cura la ferita e ne favorisce la guarigione.
Cosa si intende, nello specifico, per piaga e per ulcera cutanee?
In entrambi i casi si tratta di lesioni della pelle che stentano a guarire. Più propriamente le piaghe tendono alla remissione, le ulcere alla cronicità. L’Aiuc non a caso si occupa di queste ultime. La distinzione, comunque, è molto labile e soggetta a continui aggiustamenti nel tempo, perché le conoscenze e le terapie evolvono a velocità impressionante. In questo momento c'è una grande discussione anche a livello internazionale sull’opportunità di introdurre una definizione più malleabile di «ferite difficili», perché ormai esistono diversi livelli di trattamento, più o meno dispendiosi, più o meno risolutivi. Chi tenta di stare aggiornato, d’altronde, butta via tutte le conoscenze acquisite in media ogni 5 anni. Alla definizione di cronicità concorrono sempre due fattori: da un lato la ricerca scientifica, secondo la quale in una ferita aperta da 6-8 settimane, e cioè in tessuti che normalmente non sono esposti all'aria, inizia un invecchiamento che cambia completamente la modalità di riparazione e tende a non farla guarire; dall'altro lato c'è il diritto pubblico, per cui in teoria chi ha una malattia cronica deve essere assistito dal Servizio sanitario nazionale. Ma in Italia questo diritto è garantito solo in Piemonte, l'unica Regione che rimborsa i materiali di medicazione a tutti i portatori di lesioni croniche e che ha una commissione permanente per la revisione e l’aggiornamento degli elenchi. Per il resto della Penisola vale la legge n° 332 del 1999 che rimborsa le spese solo agli invalidi, per un numero molto limitato di farmaci (iodrocolloidi, idrogel e alginati) e fino a un massimo di 30 euro al mese: una cifra ridicola rispetto a quanto sborsato mediamente dai malati (secondo un’indagine di FederAnziani il 36 per cento spende tra i 100 e i 250 euro al mese, il 13 per cento supera i 250 euro). Eppure uno dei nostri ultimi studi, condotto in sei Regioni italiane tra il 1999 e il 2003, ha evidenziato come la rimborsabilità porti a una riduzione dei ricoveri ospedalieri: in quei cinque anni il Piemonte ha abbattuto i ricoveri dello 0,11 per cento, mentre a livello nazionale si è registrato un incremento del 13,8 per cento.
L’ulcera va sempre considerata come una malattia cronica?
Di fatto, pur essendo una ferita che non guarisce e dunque cronica, non dovrebbe mai essere affrontata come una malattia, ma come un sintomo, esattamente come il naso che cola per il raffreddore. Se c'è una ferita che non guarisce, sotto c'è una causa. A volte non è facile da capire: si parla ormai di circa 140-150 differenti malattie che, arrestando la cicatrizzazione, portano alla formazione delle ulcere. Inoltre, nella maggioranza dei casi, si presentano in pazienti anziani con più patologie contemporaneamente, sicché una diagnosi corretta è a volte molto difficile.
Il trattamento delle ferite è probabilmente il primo problema medico affrontato dall’uomo nel corso della sua storia, ma delle piaghe e delle ulcere ci si occupa solo dagli anni Quaranta del Novecento. Perché questo lungo oblio?
Primo perché, come dicevo sopra, i pazienti erano ghettizzati. Secondo perché ogni branca della scienza ha un suo fondatore e quella infermieristica moderna ha la sua capostipite in Florence Nightingale (1820-1910), che definiva le piaghe da decubito come la «vergogna degli infermieri». La cura infermieristica di questa patologia è dunque associata storicamente a un concetto negativo. Per quanto riguarda i medici, uno dei primi a occuparsi di piaghe e ulcere fu Jean Martin Charcot (1825-1893), padre della neurologia francese, la cui fama attirò all’ospedale Salpètriere di Parigi numerosi professionisti da tutta Europa. Charcot, non riuscendo a trovare la «necrotossina», cioè la causa ematica che secondo lui era alla base delle piaghe, dichiarò che si trattava di un «problema degradante per l'arte medica» e che quindi se ne dovevano occupare i «cerusici» (che, a quei tempi, erano i barbieri) e il personale di assistenza sanitaria. Solo molto più tardi, con il progresso della professione infermieristica, piaghe e ulcere sono state affrontate in modo più attento e adeguato. E questo è stato un grande cavallo di battaglia per gli infermieri, tanto che ancora oggi in parte si discute su chi debba fare cosa.
La negazione prolungata del problema ha alla base anche fattori culturali più generali?
Certo. La piaga decubito è spesso intesa come un segnale pre-morte e dunque tralasciata o, comunque, tollerata perché nel “normale” ordine delle cose. La storia evolutiva dell’uomo ha fatto sì che sulle nostre prominenze ossee non si sviluppassero muscoli: in questo modo la posizione supina non ne comporta la lesione; ma se siamo costretti a giacere a lungo su un materasso, quello stesso vantaggio evolutivo diventa devastante. Nei primi anni in cui mi occupavo di piaghe da decubito, il fatto che volessimo tentare di curare queste ferite negli anziani era considerato spesso un accanimento terapeutico. Ora, per fortuna, le cose iniziano a cambiare.
Se le malattie alla base delle ulcere sono 150 , significa che tali lesioni non colpiscono solo le persone anziane...
Esatto. Se è vero, infatti, che nel 75 per cento dei casi le ulcere croniche colpiscono gli ultrasettantenni, resta sempre un consistente 25 per cento di pazienti più giovani. L'attore Christopher Reeve, divenuto famoso per aver interpretato «Superman» e rimasto tetraplegico per molti anni in seguito a una caduta da cavallo, è morto a causa di una "banale" piaga da decubito, nonostante l'ingente somma di denaro che aveva speso per vivere al meglio la sua condizione fisica. In Italia non si è saputo, ma in giro per il mondo la notizia ha avuto un grande riscontro, tanto che è nata anche un'associazione a nome suo per sensibilizzare il pubblico su questi temi.
Quali sono le patologie che causano piaghe e ulcere croniche nei più giovani?
Nella maggioranza dei casi si tratta di patologie genetiche e danni nervosi. Più in generale, si distinguono quattro grandi famiglie di problemi alla base di tali lesioni. La prima è il decubito, che viene a chiunque, giovane o anziano, sia immobilizzato in un letto, per un danno neurologico o semplicemente perché finisce in rianimazione. In questi casi spesso (non sempre) l'immobilità, associata a un fisico indebolito e a un materasso di scarsa qualità, può portare alle piaghe e alle ulcere. Va detto che ci sono materassi in grado di scongiurare qualunque tipo di lesione da decubito: prevenirle costerebbe, peraltro, molto meno che curarle a posteriori. In media le piaghe colpiscono un paziente su quattro tra quelli ricoverati in istituto. La seconda grande famiglia è rappresentata dal cosiddetto «piede diabetico». In Italia abbiamo 1-2 milioni di malati di diabete, di cui il 15 per cento ha una ferita ai piedi. Anche in questo caso la lesione è spesso prevenibile con scarpe idonee (ma l'assoluto in medicina non esiste). La terza grande famiglia comprende le ulcere dell'arto inferiore, che a loro volta sono dovute in gran parte alle vene varicose o a difetti circolatori. La quarta categoria è un mare magnum: raggruppa vasculiti, forme genetiche e manifestazioni cancerose. Alcuni tumori della pelle (es. basaliomi) provocano ulcerazioni terribili. Per dare un'idea della loro incidenza, si consideri che nel nostro reparto passano 800-1.000 pazienti all'anno: di questi circa 30 hanno un tumore; non è quindi una percentuale irrisoria.
Come vengono seguiti, in genere, i pazienti?
Qui al San Luca curiamo prevalentemente in regime di ricovero o in ambulatorio; l’uso del day hospital è limitato. Reputo, d’altronde, poco etico che una persona di 70-80 anni, che ha già problemi a spostarsi, sia costretta ad andare e venire dall'ospedale tutti i giorni, magari accompagnata da qualche parente che perde così intere giornate di lavoro. Per fortuna reparti ospedalieri specializzati stanno nascendo in tutta Italia: noi, ad esempio, abbiamo due chirurghi, un internista, quattro geriatri, un infettivologo, uno psicologo e un chirurgo plastico. Alla base c'è l'idea della condivisione: i pazienti sentono di avere un problema in comune, solidarizzano tra loro, fanno amicizia, sdrammatizzano la situazione... Purtroppo gli ultimi «Livelli essenziali di assistenza» (Lea) stabiliscono che le amputazioni delle dita del piede vanno fatte in ambulatorio e non più in regime di ricovero ospedaliero. Ma il concetto di amputazione è in sé gravoso, perché comporta un'alterazione, seppure minima, del proprio schema corporeo. Se ciò avviene a casa o in ambulatorio, il paziente resta solo e disorientato; se è in ospedale, può parlare con il vicino che ha lo stesso problema o con l'infermiere e il medico che lo aiutano a superare il trauma. Discorso diverso per le grandi necrosi, che non possono chiaramente essere rimosse in ambulatorio, dato che spesso richiedono l’asportazione di pezzi d'osso, tendini, muscoli...
Come arrivano da voi i pazienti?
Con il passa-parola o attraverso i colleghi che ci conoscono. In media giungono nel nostro reparto dopo un anno e otto mesi dalla comparsa della lesione. Il ritardo è dovuto all'attesa che guarisca naturalmente, alla mancata diagnosi o, comunque, all'inefficacia di interventi precedenti. I pazienti, in genere, girano finché non trovano chi ha l'intuizione giusta e riesce a farli guarire. Ma non è facile. Purtroppo prima dei prossimi 10-15 anni non avremo raccolto tutte le casistiche necessarie a definire un approccio standard più sicuro e definito. Solo dieci anni fa, d'altronde, parlare di centri specializzati in ulcere era follia. La presenza di poli come il nostro, che seguono un numero consistente di pazienti e ne analizzano tutti i dati confrontandoli con quelli degli altri, permette di stabilire quali sono gli interventi più efficaci e definire linee guida di riferimento generale. Attualmente ci sono strutture di questo tipo a Pisa, Modena, Firenze, Milano, Roma e Napoli. Anche i congressi sono occasioni preziose di scambio e raffronto.
A Torino vi occupate solo voi di queste problematiche?
No. Ci sono anche altri centri. Al Cto, ad esempio, seguono le ferite post-ustione, le ulcere del piede diabetico e i casi di fascite necrotizzante (infezione rara dei tessuti molli che, in genere, inizia con un trauma innocuo come un taglio di rasoio o il morso di un insetto: la diagnosi e la terapia devono essere tempestive, in quanto l’infezione si diffonde rapidamente e dà luogo a shock settico, la cui conseguenza è un collasso sistemico generalizzato; il tasso di mortalità si aggira intorno al 73 per cento). Anche a Venaria c’è un polo per la cura del piede diabetico. Al Crf e nelle chirurgie plastiche si seguono i decubiti e, nelle chirurgie vascolari, le ulcere di tipo circolatorio. Qui al San Luca trattiamo invece un po’ tutte le tipologie.
Quali sono i principali fattori di rischio per lo sviluppo delle ulcere croniche?
Prevalentemente sono: uno stato debilitato per patologie acute o croniche, la senescenza, la malnutrizione, la ridotta mobilità o l’immobilità. Ad esempio, certe forme di Alzheimer nella fase iniziale, alcune demenze e altre patologie psichiatriche fanno stare i malati immobili in piedi invece di costringerli a letto, e dunque li espongono al rischio di ulcere nelle gambe. Anche le vene varicose possono portare a queste conseguenze. Spesso non causano dolore, così uno se le trascina per anni, finché un giorno una zanzara o un piccolo incidente provoca una ferita anche lieve in un punto “vulnerabile”, dove il tessuto sottostante è tanto rovinato che si sviluppa presto una piaga (in questi casi una volta si parlava di «fontanelle»).
Cosa intende per malnutrizione?
Mi riferisco alle carenze dovute a cattive abitudini alimentari. L'anziano, ad esempio, non mangia la carne perché non riesce a masticare, ma anche perché tende a semplificare: cucinare una fettina è più laborioso che aprire una scatoletta o tagliare un pezzo di formaggio. E poi c'è il problema relativamente nuovo dei prodotti “light”: se si mangiano solo cibi "magri" (gli anziani temono il colesterolo più dei giovani), si corre il rischio di non introdurre elementi nutritivi importanti. Nella comunità scientifica sono in corso studi e discussioni per portare la malnutrizione a livello di causa scatenante delle lesioni croniche: è presente, d’altronde, nel 70 per cento delle piaghe da decubito. Per quanto riguarda le ulcere dell'arto inferiore (abbiamo iniziato da poco uno studio su 200 pazienti), la malnutrizione si registra nel 24 per cento dei casi: si pensi, tra le altre, alle persone obese, che giungono ai nostri centri sempre più di frequente. Anche in questo campo, insomma, una dieta variata, una buona attività fisica e un sano stile di vita sono alla base della prevenzione.
Ma c'è anche un fattore legato all'invecchiamento...
Sicuramente. Nelle persone più anziane, in genere, si rileva una diminuzione del grasso sottocutaneo, una minore risposta immunitaria mediata dalle cellule, un microcircolo meno efficiente, una sensibilità inferiore e una ridotta elasticità. La vecchiaia, tuttavia, non è di per sé un ostacolo alla guarigione delle piaghe: è solo un rallentante. La paziente meno giovane che abbiamo seguito aveva 117 anni: la piaga si chiuse come a una quarantenne. Molto dipende da come hai vissuto e da quanto hai investito in salute.
Infatti in letteratura si legge che gran parte delle lesioni possono essere evitate con la prevenzione...
Verissimo. Le statistiche indicano tra 500 mila e 1,5 milioni i cittadini italiani con ulcere aperte, e ben il 5 per cento degli ottantenni ne è colpito. A fronte di numeri tanto elevati è triste constatare che per prevenire il decubito spesso basterebbe un buon materasso; per scongiurare il 60 per cento delle ulcere dell'arto inferiore basterebbe indossare calze elastiche; per evitare il piede diabetico basterebbero scarpe adeguate. L’assoluto in medicina non esiste, ma con semplici accorgimenti si potrebbe prevenire, mal contato, l'80 per cento delle lesioni.
Una fase importante della terapia di piaghe e ulcere è la
Per molto tempo le ferite croniche venivano trattate solo localmente, con l’applicazione di bende e garze imbevute di antisettici, alcol, nitrati... La terapia era molto dolorosa, donde il detto che «il medico pietoso fa la piaga cancrenosa». Alla base c'era il concetto di nascondere, far sparire la lesione. Si è poi passati alle medicazioni avanzate, che creano micro-ambienti «isotonici», che cioè si mettono in rapporto con il fondo della ferita e i tessuti fatti di acqua. Risultato: si è riusciti a calmare il dolore e a ridurre le ferite. Poi ci si è resi conto che l’approccio non era del tutto efficace poiché i medicamenti e le tecnologie erano testati, in realtà, sulle lesioni acute, anche per questioni di praticità e accessibilità nei modelli animali sperimentali (le ferite croniche sono molto più complesse da ottenere). Da qualche anno sono in corso studi specifici sull'uomo, dai quali è nato l’approccio «Time». L’acronimo deriva dalle iniziali delle quattro aree cliniche che occorre valutare: «Tessuto non vitale-necrosi» (le cellule non vitali impediscono la guarigione, occorre pertanto ripristinare il fondo della ferita attraverso il
E che ruolo ha la chirurgia?
Può avere una funzione demolitiva, perché è volta a rimuovere tutti i tessuti morti, gli accessi, il pus; e/o funzione ricostruttiva, con innesti di tessuto cutaneo o interventi di chirurgia plastica. Nel caso delle ulcere del piede diabetico è spesso indispensabile asportare tutto il materiale necrotico, dita e ossa comprese, per arrivare sul buono e salvare il salvabile. Perché anche solo un pezzo di piede permette di camminare. Ricorderò sempre l’episodio di una ragazza diabetica molto giovane a cui avremmo dovuto tagliare una gamba. Mi disse: «Dottore, vuole mettere la differenza tra andare a letto alla sera e sfilare una scarpa piuttosto che togliersi una gamba finta?». Ci lavorammo un anno, ma oggi ha ancora il suo piede.
Quando sono indicati gli interventi ricostruttivi?
Molto dipende dall'età del paziente. Ma anche qui abbiamo nuove prospettive. In linea di massima, dopo aver preparato il letto della ferita, si valutano le condizioni complessive del malato. Se ha buone risorse, può guarire per «seconda intenzione» e dunque sarà trattato con medicazioni avanzate, in modo che non abbia male e guarisca da solo nel tempo. Se, invece, è in una situazione più compromessa o è troppo anziano, per cui la guarigione rischia di metterci troppo tempo o di non avvenire affatto, allora si può intervenire chirurgicamente con plastiche ricostruttive, con l’innesto di derma artificiale, con l’applicazione di pelle coltivata da cellule dello stesso malato (trapianto autologo) o di pelle da donatore (trapianto eterologo)...
Il problema delle piaghe e delle ulcere è presente solo nei Paesi più sviluppati?
No. Se infatti in Occidente siamo alle prese con una popolazione sempre più anziana e con malattie tipiche del benessere (come obesità e diabete), in Paesi come India e Brasile è molto diffusa la lebbra e con essa le ulcere dell'arto inferiore; in Africa ci sono le ulcere infettive causate dalla leishmania e le piaghe di buruli... Ma c’è un elemento che accomuna i malati di ogni latitudine ed è la povertà: chi vive al di sotto della media economica del proprio Paese ha un incremento di rischio statisticamente significativo. Un collega americano sostiene, a ragione, che per curare un'ulcera ci vogliono «impacchi di dollari». E io aggiungo che occorre anche una famiglia. Purtroppo nella nostra società si fanno sempre meno figli e si vive in grandi agglomerati urbani, perciò si è spesso soli e alienati. Un pensionato con una minima di 500 euro, l'affitto da pagare e il rincaro dei prezzi dei beni alimentari non ha certo la possibilità di pagarsi le medicazioni avanzate o macchinari da 200 euro al giorno per abbassare la pressione della ferita. Un’indagine condotta tra i nostri pazienti più anziani ha rivelato che oltre il 90 per cento vive al di sotto della media nazionale.
Prima lei ha ricordato che il Piemonte è l’unica Regione a garantire il rimborso di farmaci e medicamenti e che ciò ha consentito di ridurre i ricoveri e le amputazioni. In che modo?
Il fatto di mettere a disposizione di medici e infermieri un Prontuario che comprende quasi tutto quanto c'è sul mercato permette agli operatori stessi di scegliere la soluzione più efficace, che magari non è la migliore in assoluto per il paziente, ma è quella che il sanitario sa gestire meglio e gli consente di ottenere risultati positivi. A livello nazionale si è stabilito che in ospedale si possono usare solo cinque categorie di medicamenti (schiume, idrocolloidi, alginati, gel e medicazioni in argento), mentre noi come Aiuc avevamo proposto al Ministero ben 86 categorie base. A tutto ciò si aggiunge il problema collegato all'art. 1 della Finanziaria in corso, che ha fissato i «prezzi di riferimento» valutando i costi di prodotti differenti e rinviando a quello più basso. Questo indurrà molti produttori a spostare le proprie aziende in Paesi come Cina o India, dove la manodopera è a buon mercato ma la qualità produttiva lascia alquanto a desiderare. Se poi la valutazione della bontà di un prodotto è affidata all’autocertificazione delle stesse aziende, si apre un conflitto di interessi enorme con conseguenze (almeno potenziali) spaventose. Si pensi solo allo scandalo delle valvole cardiache prodotte in Brasile... Azzerare i costi, inoltre, implica spesso abolire le spese per la ricerca di prodotti innovativi.
Qualcosa però pare stia muovendosi a livello di aziende farmaceutiche e anche di Cnr, dove sono allo studio prodotti a base di Nerve growt factor (Ngf), la molecola scoperta da Rita Levi Montalcini...
Vero, anche perché il bacino potenziale di beneficiari si sta allargando e dunque l'investimento in ricerca presto pagherà. Gli studi sui fattori di crescita Ngf in effetti sono molto promettenti, ma grazie alla Montalcini, che è di per sé un personaggio capace di attirare ingenti finanziamenti. Purtroppo per ora lo spray sperimentale a base di Ngf è carissimo e dunque inaccessibile. I fattori di crescita, d’altronde, sono come lettere di un nuovo alfabeto e noi non siamo ancora capaci di utilizzarle per comporre parole sensate. Nel frattempo è bene ricorrere a soluzioni che costano meno e sappiamo già maneggiare bene. Ci sono, tra le altre, medicazioni molto efficaci che disattivano le «metallo-proteasi», gli enzimi responsabili della distruzione del letto di ferita.
Ci sono strumenti diagnostici che consentono di stabilire se tali enzimi sono attivi in una certa ferita?
Sì, ma costa di più la diagnosi che la cura. E purtroppo non è facile trovare finanziamenti per ricerche in tal senso, né per le indagini epidemiologiche. La Regione Lazio di recente ha finanziato uno studio Aiuc durato un anno. La sperimentazione prevedeva l’esborso di un milione di euro per l’affitto di macchinari che creano una pressione sottovuoto (
Ma a cosa si deve la gran parte delle uscite?
Sicuramente la principale voce di spesa è il personale. Il 95 per cento dei costi è rappresentato da medici, infermieri e farmaci. Anche la medicazione più tecnologica e avanzata, infatti, non incide nella terapia dell’ulcera più del 5 per cento. In generale la «medicazione avanzata» si caratterizza per la specificità di applicazione rispetto allo stadio e alle condizioni della ferita e per il suo costo superiore rispetto alle medicazioni tradizionali. Ma presenta il vantaggio del minore tasso di sostituzione: in media ogni due giorni contro uno. Da un’indagine dell’Istituto superiore di sanità condotta lo scorso anno è emerso che la «medicazione standard» (vale a dire garze imbevute di soluzioni antisettiche e/o creme con differenti principi attivi) costa poco meno di 15 euro, quella avanzata (es. alginati, idrogel, film semipermeabili, schiume di poliuretano...) 20,63 euro. Però, se si considera un mese di trattamento, il rapporto si inverte: con le medicazioni avanzate il costo medio è 237 euro, con quelle tradizionali sale a 324. E l’effetto forbice aumenta tanto più è ampia la durata della cura. Se, infine, si aggiunge la maggiore efficacia dei nuovi prodotti, la scelta terapeutica dovrebbe essere quasi obbligata.
Si fanno investimenti in formazione?
In questo momento, in Italia come in Europa, dedicare denaro a questo fine pare pura follia. Già nel 2003, invece, gli Stati Uniti investirono 5 milioni di dollari in un progetto di formazione del personale medico e infermieristico, con l’obiettivo di ridurre del 5 per cento l'incidenza delle piaghe da decubito. Diversamente da noi, gli Usa hanno un sistema che permette di fare i conti e trarre un bilancio con estrema precisione: Oltreoceano le piaghe e le ulcere rappresentano la seconda voce di spesa sanitaria dopo i tumori. E si tratta di una popolazione molto più giovane della nostra. In Canada ci sono aree in cui le piaghe sono addirittura al primo posto nella classifica degli esborsi sanitari, poiché gli indiani delle riserve sono al 98 per cento diabetici e con problemi enormi di ulcere ai piedi e agli arti inferiori.
Lei è presidente uscente e socio fondatore dell’Associazione italiana ulcere cutanee (Aiuc). Quando è nata l’associazione e perché?
L’abbiamo fondata a Roma nel 1999. All’inizio eravamo in 11, adesso contiamo 2.700-2.800 soci e siamo al secondo-terzo posto in Europa per numero di associati. Siamo diventati una delle più grandi organizzazioni a livello nazionale. L’Aiuc intende essere sede di incontro e di riferimento per coloro che ogni giorno affrontano la problematica delle ulcere cutanee. Uno degli obiettivi prioritari è diffondere la conoscenza e favorire la crescita culturale in questo campo, affermando anzitutto i diritti dei malati.
A che punto siamo oggi?
Abbiamo fatto grandi passi avanti, ma ci sono ancora lacune enormi, anche a livello di preparazione universitaria. Basti pensare che, tra le migliaia di pagine che un aspirante medico deve studiare, quelle dedicate alle lesioni cutanee croniche sono meno di dieci. Non c'è un insegnamento specifico: dal 2000 al 2004 ho tenuto l’unico corso universitario esistente in Italia, in qualità di professore a contratto della Facoltà di Medicina a Torino. Lo scorso anno, assieme all'Università di Torino e al Corep, l’Aiuc ha organizzato la prima edizione del Master post-laurea in vulnologia (ce ne sono solo quattro in tutto il Paese). Il corso, di durata biennale, prevede 440 ore di didattica e 350 ore di progetto applicativo presso strutture sanitarie regionali (es. Asl 4, San Luca, ospedale Molinette, Centro traumatologico ortopedico...). Sono ammessi al massimo 35 iscritti tra laureati in Medicina e infermieri professionali. Nella passata edizione, a fronte di 30 posti, abbiamo ricevuto 150 domande, segno di grande interesse per l’argomento.
Il 10-11 ottobre 2008 si sono celebrati per la prima volta gli «Ulcer days»: qual è l’obiettivo?
Anzitutto sensibilizzare i decison makers, e cioè i politici e i manager della Sanità pubblica, ma anche la popolazione in generale. A volte i malati convivono con ulcere e piaghe per decenni perché pensano che non ci siano soluzioni e di non avere diritto di cura. Più o meno cinque anni fa abbiamo guarito una donna ebrea che nel 1940, in un campo di concentramento nazista, aveva subito un’ustione che le aveva provocato un’ulcera cronica. È stata una delle più grandi soddisfazioni della mia vita professionale, perché quando abbiamo tolto le garze e le abbiamo detto che era dimessa, cioè guarita, ci disse: «Finalmente, dopo 60 anni, non devo più ricordare quella giornata terribile». È morta per cause naturali lo scorso anno.
Quindi un malato può convivere con una ferita di questo tipo anche per decenni...
Sì. Il caso più estremo che mi è capitato è l’ulcera di un uomo che da ragazzo, nel 1917, al confine del Carso, era stato travolto dall’esplosione di una mina. Si era fratturato l’osso e aveva frammenti dell’ordigno piantati nel corpo. Giunse da noi una decina di anni fa, dopo una vita di convivenza con la ferita, che si apriva e si chiudeva periodicamente. In sala operatoria abbiamo scoperto che aveva ancora le schegge della mina nell’osso. La ferita si è chiusa poco tempo dopo averle rimosse.