Dossier

Dalla stalla alla tavola, prevenire è meglio che curare: visita all'Istituto Zooprofilattico

“Mucca pazza” è rinsavita? A colloquio con Maria Caramelli, massima esperta italiana

È sicuramente il più importante episodio di crisi alimentare che si è verificato in Europa negli ultimi dieci anni. In Italia l’informazione al pubblico è stata disastrosa. In un primo tempo i ministeri dell’allora Sanità e dell’’Agricoltura hanno cercato di ignorare il problema, sostenendo che le carni made in Italy non erano coinvolte. Poi, quando tutta l’Europa è stata investita dalla crisi, le autorità sanitarie hanno corretto il tiro e si sono adeguate ai controlli decisi in sede europea. Ancora oggi vengono fatte analisi su tutti i bovini con più di 30 mesi destinati alla macellazione. Solo in Italia nel 2006 sono stati testati 650.000 capi riscontrando 7 positività (erano 50 nel 2001). Nel 2007 sono stati testati 623.095 capi, con due sole positività.

Lo scandalo ha avuto come risvolto positivo l’adozione della tracciabilità obbligatoria per le carni bovine, che si è poi estesa ai polli, alle uova e al latte. Il metodo, attraverso un codice attribuito a ogni animale o a ogni partita, permette di ricostruire l’intera filiera del prodotto in vendita.

L’Italia è riuscita ad arrestare l’epidemia di BSE, ma secondo Neuroprion (organismo che raccoglie 52 centri di eccellenza europei del settore) in Europa non si deve abbassare il livello di guardia, perché il rischio di una nuova crisi di BSE non è definitivamente scongiurato.

Caramelli Maria Maria Caramelli è responsabile del Centro di referenza nazionale per le encefalopatie animali (CEA) dell’IZS del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, membro della rete Neuroprion. Ai tempi dell’emergenza “mucca pazza” il suo viso è rimbalzato sui principali media nazionali.

Dall’analisi della diffusione BSE in Italia (2001-2007) emergono due dati vistosi: il primo è il calo drastico di casi (da 50 nel 2001 a 2 nel 2007): cosa è cambiato tra le due rilevazioni?

L’origine di questo percorso favorevole è da ricercarsi nelle misure che sono state applicate globalmente. L’analisi epidemiologica dei dati mostra in maniera evidente la corrispondenza temporale tra l’introduzione di tali provvedimenti e la drastica riduzione dell’epidemia. Un esempio tra tanti? L'applicazione efficace dei divieti all'utilizzo di mangimi animali contenenti carne e ossa. D’altronde, con una malattia come la BSE che ha tempi di incubazione di 4-5 anni, qualunque evidenza di efficacia prodotta da una misura correttiva si può apprezzare solo alcuni anni dopo. Ufficialmente i divieti all'impiego di questi mangimi erano stati introdotti in Italia già nel 1994, però nei primi anni non sono stati completamente osservati. Successivamente i controlli sono stati avviati con maggior rigore, ma ancora nel 1996-1997 appuravamo che c'era una positività del 35 quindi un mangime su tre era contaminato. Oggi, per fortuna, trovarne qualcuno positivo è un riscontro eccezionale. Un'altra misura efficace è stata il divieto di utilizzare, per un certo tempo, il materiale “a rischio”, cioè il sistema nervoso centrale dei bovini oltre una certa età. È stato un provvedimento poco gradito dagli amanti della bistecca fiorentina (tolta dal mercato perché poteva contenere porzioni terminali di tessuto nervoso), ma è stato coerente con quanto si sapeva e ha avuto un effetto molto positivo. La caduta libera e costante del numero di casi di BSE in Italia riflette quanto accade nel resto d'Europa. Purtroppo non altrettanto si può dire per i Paesi di nuova entrata nell'Ue, che si stanno adeguando alle normative comunitarie in tempi scaglionati e stanno adottando solo ora le misure che noi abbiamo introdotto qualche anno fa. Lì, e in particolare in Polonia, i casi di BSE sono addirittura in crescita. E poi c'è tutto il resto del mondo, di cui sappiamo pochissimo, a parte il fatto che la BSE è comparsa anche negli Usa, in Canada e in Giappone, quindi c'è dappertutto.

Il secondo dato che balza agli occhi è che, sul totale cumulativo dei casi italiani (141 in sei anni), ben 91 interessano la frisona, 25 la bruna e 10 la pezzata rossa, mentre le altre razze parrebbero meno toccate dal morbo: perché?

A quel che sappiamo non c'è una predisposizione genetica, anche se va sospettata. L’unica spiegazione basata su evidenze scientifiche per ora è legata al tipo di allevamento e di alimentazione: in genere le frisone hanno vita più lunga perché non sono allevate per produrre carne (e dunque macellate a 12-24 mesi come altre razze), ma soprattutto per la produzione di latte. Quindi sono sottoposte a un'alimentazione tipica dell'allevamento intensivo, a base di mangimi molto proteici e molto spinti. Questa è anche la prova ulteriore che il principale veicolo della BSE è rappresentato proprio dai mangimi. Inoltre incide molto il fattore età: le frisone e, in genere, le razze da latte raggiungono i 5-8 anni e sono mandate alla macellazione solo a "fine carriera", dunque hanno tutto il tempo di arrivare all'età in cui la BSE si manifesta, perché come ho detto è una malattia che richiede qualche anno di incubazione. Anche questo dato conferma l'ipotesi epidemiologica.

controllo al macello2Le stesse statistiche indicano che BSE in Italia è più frequente al Nord che al Sud: c’è forse una diversa applicazione dei controlli sul territorio?

No, i controlli sono coordinati da Torino e sono uguali in tutto il Paese. È importante sottolinearlo perché per la prima volta in tanti anni, non solo in Italia ma in tutta Europa, le metodiche diagnostiche e le misure di sorveglianza epidemiologica sono omogenee su tutto il territorio. Il CEA, peraltro, è responsabile delle verifiche a livello nazionale: gli animali che arrivano sulle tavole italiane (dall'aprile 2005 tutti quelli sopra i 30 mesi, prima il riferimento era sopra i 24 mesi) sono controllati con un test standard che garantisce le stesse performance e risultati in tutto il Paese. Dunque non c'è disparità di controllo tra le Regioni italiane e neppure tra i Paesi europei. La differenza statistica tra Nord e Sud è legata a quanto dicevamo prima, cioè al diverso tipo di allevamento: al Sud è, in genere, meno intensivo perché si tratta di animali destinati soprattutto alla produzione di latte.

Cosa sappiamo oggi sulla causa della BSE? In particolare, cosa determina il cambiamento della proteina prionica?

Negli ultimi anni non ci sono state grandi modifiche dell'ipotesi generale secondo cui l'agente scatenante sia una proteina alterata, il prione appunto, e dunque non uno degli agenti patogeni più comuni e noti da tempo, come virus e batteri. L'ipotesi fu tanto originale e dirompente da meritare il Nobel a Stanley B. Prusiner, che per primo individuò il nuovo agente infettivo privo di informazione genetica: il prione è una proteina malevola che scatena lesioni ed è infettiva. Diversi esperimenti in tutto il mondo hanno confermato l’ipotesi eziologica secondo cui il prione innesca la produzione di altre proteine patologiche determinando la tipica «spongiosi» (cioè i buchi nel cervello), da cui il nome di «encefalopatie spongiformi». Dunque, riguardo alla ricerca, direi che la "notizia" è nella conferma costante dell'ipotesi “prionica”. Al momento stiamo lavorando molto sulla rilevazione di ceppi diversi, cioè su forme della malattia mai identificate prima: a Torino ne abbiamo scoperta una in particolare, detta BASE (da Bovine amyloid spongiform encephalopathy), tipica dei bovini anziani, originata da un prione probabilmente più aggressivo e virulento di quello della BSE. Negli ultimi anni non sono stati fatti grandissimi passi avanti né sul fronte delle terapie né della diagnostica in vivo (sul soggetto ancora in vita) che è quella da sempre perseguita.

E tra i test diagnostici post mortem ci sono novità?

Sì, ne escono continuamente di nuovi e sono sempre più rapidi, performanti, sensibili e specifici. Purtroppo sono applicabili solo post mortem.

Quali dati sono emersi dalle sue ricerche sperimentali sui bovini?

mucche al pascolo Come accennavo prima, il risultato principale è stato scoprire la nuova variante della BSE. Di mezzo c'è sempre un prione, che però causa lesioni diverse rispetto a quelle della malattia classica, perché comporta l'accumulo di sostanza amiloide (si chiama BASE proprio per l'aggiunta di Amyloid nella sigla BSE) tipico, invece, di altre patologie neurodegenerative tra cui l’Alzheimer. La BASE, inoltre, colpisce animali più anziani. Al momento stiamo verificando l’ipotesi che possa trattarsi di una forma sporadica, dunque non veicolata da mangimi, simile alla Creutzfeldt-Jacob umana che ha appunto comparsa casuale. Abbiamo anche condotto uno studio con l’Istituto Besta di Milano per verificare l'ipotesi che la BASE possa essere all'origine della stessa epidemia di BSE, dunque casi di forma sporadica e non direttamente infettiva che siano finiti nelle farine amplificate dei mangimi e, attraverso questi, si siano trasmessi ad altri animali. In ogni caso, il risultato più importante è che, dopo la nostra scoperta della nuova variante, anche altri Paesi hanno iniziato cercarla e oggi sappiamo che c’è dappertutto. Anche negli Stati Uniti, da dove è appena tornata una nostra collaboratrice: il governo Usa, infatti, finanzia un progetto del CEA volto a mettere a punto metodiche diagnostiche specifiche per la forma atipica. La nostra ricercatrice era andata là proprio per insegnare ai tecnici locali come applicare la nuova metodica: credo non sia frequente, soprattutto in ambito scientifico, che esperti italiani siano pagati per formare i colleghi statunitensi. Al momento stiamo valutando se e come la BASE possa trasmettersi ad animali di specie diversa: gli esperimenti sui bovini e sui topi transgenici (i più usati in laboratorio perché, essendo modificati con geni dell’uomo, permettono di valutare come si comporterebbe la malattia nella nostra specie, senza dover ricorrere per ovvi motivi a cavie umane) indicano che può passare anche a specie diverse e più in fretta della BSE tipica. Dunque è in grado di fare un salto di specie.

Dobbiamo preoccuparci?

Di fatto l'andamento dell'epidemia di BSE classica è talmente rassicurante che il rischio per l'uomo è ormai minimo: l'attenzione continua a essere elevata. Le misure preventive, come ho detto prima, sono applicate in modo rigoroso e sistematico: se un bovino risulta positivo alla BSE, è immediatamente eliminato dalla catena alimentare. Insomma la sicurezza per questo genere di malattie è altissima.

Negli ultimi anni sono stati individuati altri ceppi “atipici” del prione bovino?

Sì, dopo la BASE, ne sono stati trovati altri due, che si distinguono per il diverso peso molecolare della proteina prionica. Tante di più, invece, sono le forme atipiche nelle pecore.

Lei ha condotto anche uno studio sulla «valutazione e caratterizzazione dell’esposizione della popolazione italiana alla BSE». In cosa è consistito e quali dati sono emersi?

Era uno studio molto articolato e complesso. L'obiettivo principale era valutare l'entità dell'esposizione degli italiani, includendo anche le forme di BSE atipica, in relazione ai consumi alimentari: la difficoltà principale è stata recuperare i dati relativi all'importazione di carne e mangimi dal resto d'Europa, perché fino ad alcuni anni fa le registrazioni erano imprecise. La conclusione è che il rischio legato all'assunzione di alimenti contaminati sia stato massimo a metà degli anni Novanta. Non a caso l'unico episodio di contagio umano in Italia risale proprio a quegli anni.

Elica di DNAAl convegno «Genetica molecolare, nuove prospettive in medicina veterinaria», organizzato all’IZS di Torino (il 4-5 ottobre 2007), l’americano Jurgen A. Richt ha spiegato come è riuscito a creare il primo bovino resistente alla BSE. Di che si tratta?

Il principio di base è che questa malattia parte da una proteina normalmente presente sia nell'uomo che nei bovini. Si può, dunque, pensare di rimuovere il gene che codifica per la proteina normale ed eliminare così alla radice il pericolo che possa assumere una forma anomala e patologica. Richt ha provato a farlo con i bovini appurando, tra l’altro, che la rimozione di quel gene non comporta conseguenze diverse: non abbiamo ancora capito, d’altronde, a cosa serva la proteina anche nella sua forma normale. Lo studio di Richt ha dimostrato non solo che senza quel gene l'animale vive senza problemi, ma soprattutto che non si ammala più, perché non c'è la matrice prionica. Secondo lo studioso americano l'approccio è interessante non tanto per la produzione di carne “sicura” (l'opinione pubblica ha un rifiuto categorico nei confronti degli animali geneticamente modificati) quanto piuttosto per la produzione di farmaci, cosmetici, vaccini...

Juan Maria Torres (ricercatore Neuroprion del Centro de Investigacionen sanidad animal di Madrid), in uno studio pubblicato su «Future Medicine» del 2006, ha dichiarato che esiste la possibilità che la BSE dei bovini possa trasmettersi alle capre e alle pecore: è vero?

Sì. È una possibilità che esiste dal punto di vista teorico e si è concretizzata finora in un solo caso accertato (una capra in Francia che ha preso la BSE) mentre altri casi restano sospetti. Questo perché anche agli ovicaprini sono stati dati i mangimi a base di farine animali e, dunque, sono stati esposti alla BSE. Sappiamo che l’agente infettivo salta con facilità da una specie all'altra: è passato all'uomo, al gatto, a tigri e leoni, quindi anche alle capre. Il problema grave è che negli ovicaprini si distribuisce in modo diverso: mentre nel bovino rimane confinato nel cervello e nel midollo spinale, in capre e pecore si diffonde ovunque attraverso il sistema linfatico. Quindi tutto l'animale rimane infettivo. Proprio per questo stiamo effettuando test sistematici per il rilevamento dell’encefalopatia spongiforme anche tra gli ovicaprini (la malattia prende il nome di scrapie o TSE degli ovicaprini). Chiaramente l’allarme è minore perché il numero di capre e pecore è ridotto rispetto a quello dei bovini, e gli allevamenti sono concentrati in poche Regioni. La scrapie comunque c'è, soprattutto al Centro e nelle isole, perché lì c'è il maggior numero di allevamenti ovicaprini.

I controlli vengono fatti su tutti i capi?

Sì, anche se la tendenza ormai è di ridurli. La BSE fa scuola: dinanzi al calo drastico dei casi registrati e alla cessata emergenza, l'obiettivo è abbattere i costi riducendo il numero dei test. A Bruxelles è in atto un'ampia discussione, a cui anche noi partecipiamo, perché si intende per lo meno alzare l'età degli animali da sottoporre obbligatoriamente a test. Ad oggi non si registrano quasi più casi di BSE in bovini al di sotto dei 4-5 anni. Per questo la proposta di fare meno test è, tutto sommato, logica: i costi sono ormai insostenibili. D'altronde se tutti si attengono al divieto di usare mangimi composti con farine animali, il pericolo di trasmissione è scongiurato. Certo occorre tenere sempre alta l'attenzione, perché il comparto bovino non reggerebbe più una seconda epidemia di BSE. E neppure i consumatori: tutti ormai si aspettano che certi controlli e certi divieti rimangano a garanzia della salute pubblica. L’Italia, a questo proposito, ha un atteggiamento molto severo.

Ci sono potenziali fonti di pericolo?

A parte il caso dei Paesi di nuova entrata nell'Unione europea, che si stanno lentamente allineando alle direttive comunitarie, stiamo assistendo dappertutto alla progressiva reintroduzione delle farine animali nell'alimentazione dei pesci e, forse, presto anche in quella dei suini e di altre specie apparentemente non sensibili alla BSE. C'è un progressivo ammorbidimento delle misure: è normale, perché è impensabile reggere determinati costi nel lungo periodo, quando l'emergenza è passata. Tuttavia occorre stare attenti.

Passiamo alla TSE degli ovicaprini (scrapie): in Italia nel 2006 la prevalenza (n° di casi positivi ogni 10.000 test effettuati) era del 6,6% tra gli ovini e del 3,8% tra i caprini regolarmente macellati; le percentuali salgono rispettivamente al 35,6% e al 6,7% tra gli animali trovati morti. Come siamo messi rispetto al resto d’Europa?

gregge pecore Siamo poco sopra la media: in Europa (escludendo Cipro, dove il numero di animali infetti è elevatissimo) la prevalenza media, tra i regolarmente macellati, è del 6,9% per gli ovini e dell’1,3% per i caprini. Adesso la scrapie in Italia è stabile, ma resta endemica. La sua presenza è costante anche perché non è direttamente legata all'alimentazione come la BSE, su cui infatti abbiamo potuto incidere in modo risolutivo. La scrapie passa di madre in figlio attraverso la placenta, resta nel terreno, quindi è più difficile da eradicare. L'Italia, d'altronde, ha una popolazione ovicaprina piuttosto elevata rispetto ad altri Paesi e questo spiega in parte la diversa incidenza del rischio. Un discorso diverso va fatto per gli animali trovati morti, quelli cioè non portati al macello per passare nella catena alimentare. Il problema della sorveglianza, in questo caso, è piuttosto complesso. L'animale trovato morto infatti è generalmente in condizioni pessime: viene spesso recuperato negli alpeggi o nelle rive dei campi, è in stato di avanzata decomposizione e, dunque, fare i test di controllo è difficile, quando non impossibile. Non stupisce perciò che, confrontando l'elenco degli animali registrati all'anagrafe con quello degli animali testati, una quota vicina al 90% sfugga alla sorveglianza: una grande quantità di animali trovati morti non viene testata. In ogni caso, quelli regolarmente macellati e destinati alla catena alimentare vengono tutti testati: il problema degli scarsi controlli si pone solo per i capi trovati morti, come abbiamo specificato in un rapporto ufficiale inviato al Ministero. Stiamo cercando di porvi rimedio perché, sebbene non comporti un rischio alimentare (sono animali che in ogni caso non arrivano sulle nostre tavole), rende impossibile valutare l'effettiva situazione epidemiologica.

Il piano di selezione genetica degli ovini finalizzato all’eradicazione della scrapie è una buona strategia?

È una delle strategie possibili ed è anche quella prescelta dall'Unione europea per la lotta a questa malattia. È molto praticata e il criterio su cui si basa è coerente, poiché in effetti è possibile distinguere tra animali suscettibili, animali che lo sono mediamente e altri che non lo sono affatto. La tendenza è eliminare quelli ad altissima sensibilità. Il problema negli interventi di questo tipo è che, alla fine, si “salvano” animali che in futuro potrebbero risultare sensibili a ceppi attualmente non conosciuti di scrapie: il lavoro di selezione, infatti, si fa sulla base dei ceppi prionici noti. Insomma c’è un rischio biologico-ecologico consistente. Inoltre in Italia il problema ulteriore è che razze particolarmente diffuse, come la biellese in Piemonte, hanno genotipi molto sensibili ai ceppi di TSE sinora individuati, quindi se andassimo a selezionare geneticamente i capi più vulnerabili, dovremmo procedere ad abbattimenti massicci e avremmo poi serie difficoltà a trovare montoni riproduttori. Sembra, infine, che gli animali più resistenti alla scrapie siano anche più scadenti dal punto di vista produttivo e riproduttivo, quindi gli allevatori oppongono una certa resistenza alla selezione mirata contro la TSE, anche perché di norma la scelta delle linee da allevare viene fatta proprio sulla base di criteri opposti (bellezza esemplari, capacità riproduttiva...). Insomma è una strada difficile da percorrere.

Prima lei accennava al fatto che per i bovini non è mai stata riscontrata una predisposizione genetica a sviluppare la BSE...

No, eppure sono anni che tentiamo di capire se ci sono caratteristiche genetiche predisponenti, come accade nelle capre e nelle pecore. La sensazione è che anche nei bovini ci sia qualcosa, ma non riusciamo a trovare i polimorfismi, riscontrati, invece, da tempo tra gli ovicaprini.

Perché i consumatori sono più spaventati dal morbo della "mucca pazza" che non, ad esempio, da anabolizzanti e antibiotici, presenti in grande quantità nella carne che mangiamo?

pericolo veleno - cartello In genere il consumatore relativizza il rischio in base alla sua percezione personale. Una malattia come quella della “mucca pazza”, che è mortale, colpisce il cervello, si contrae mangiando un alimento, è relativamente nuova ha, ovviamente, un impatto emotivo diverso rispetto ai contaminanti chimici che (secondo varie indagini di psicologia sociale) inducono minor paura perché sono più progressivi e non hanno un nesso causale diretto, incontrovertibile con una determinata malattia. Ovviamente la conseguenza non si ha solo sui consumi, ma anche sui finanziamenti alla ricerca e alla lotta contro le alterazioni alimentari, tanto più in Italia, dove si vive perennemente sulle emergenze, la politica è debole e tende ad assecondare le paure della gente. La presenza di contaminanti chimici nella carne è comunque una sfida cruciale.

Una sfida che avete raccolto di recente proponendo un nuovo programma per la ricerca di anabolizzanti negli animali inviati al macello. Di che si tratta?

Assieme a Regione Piemonte e Università di Torino stiamo lavorando alla messa a punto e applicazione di tecniche per il rilevamento di residui chimici negli animali inviati al macello: a breve questi test rientreranno nel Piano nazionale dei controlli previsti per gli animali destinati alla catena alimentare. Il metodo di rilevamento che abbiamo perfezionato è di tipo istologico e cioè va a rilevare le lesioni fisiche causate dall'impiego di anabolizzanti, dove per anabolizzanti si intendono tutti i trattamenti farmacologici volti a favorire l'accrescimento ponderale degli animali (spaziano dai cortisonici agli ormoni sessuali). Per il momento i test saranno eseguiti sui bovini, ma puntiamo a estenderli anche ad altre specie.

In cosa consiste il metodo di controllo anti-anabolizzanti?

In pratica in fase di macellazione vengono prelevati campioni da determinati organi target (es. timo e ghiandole sessuali); successivamente, in laboratorio, si controlla l’eventuale presenza di lesioni attraverso l'esame al microscopio istologico. Al momento, in verità, stiamo finendo di mettere a punto il metodo, che dovrà garantire risultati inoppugnabili e distinguere senza ombra di dubbio le lesioni causate dai farmaci rispetto a quelle eventualmente prodotte da agenti “naturali”. È un problema che si presenta anche nei test anti-doping applicati agli uomini: l'obiezione sollevata più di frequente è che l'anomalia rilevata dal test non è stata causata dall'uso di sostanze proibite, ma è spontanea. Insomma è indispensabile poter arrivare a risultati certi. A tal fine abbiamo anche preparato schede tecniche dettagliate sulla nuova metodica di indagine bovina e stiamo procedendo alla formazione accurata del personale di laboratorio in tutta Italia. La lotta è disperante perché, purtroppo, non si combatte mai contro una sola molecola, ma contro un cocktail, e ne vengono immessi sempre di nuovi sul mercato: prima che un laboratorio predisponga un metodo per il rilevamento chimico di una determinata sostanza, ne sono già uscite di nuove. Inoltre i cocktail sono composti da molecole diverse, che prese singolarmente restano nei limiti di legge o comunque al di sotto dei livelli rilevabili con metodo chimico: così, alla fine, l'anabolizzante viene usato, ma non è rilevabile in laboratorio. Il metodo basato sulla valutazione del danno dovrebbe superare i limiti intrinseci del metodo chimico, che resta comunque insostituibile. L’analisi istologica può essere usata preliminarmente per individuare gli allevamenti in cui è presente il problema; successivamente si procederà a ricerche chimiche mirate. D'altro canto le analisi chimiche richiedono tempi spesso non compatibili con la necessità di immettere la carne sul mercato prima che si deteriori. Inoltre non riescono a rilevare le sostanze proibite se la somministrazione è stata fatta seguire da adeguati tempi di sospensione. L'esame istologico, invece, rileva la lesione in ogni caso, perché questa permane anche quando cessi la somministrazione dei farmaci. È chiaro che adottare una strategia che si avvalga di più strumenti assieme è quanto mai auspicabile.

microscopio esameQuando e come sarà adottato questo nuovo metodo?

A partire da quest'anno, come ho accennato, sarà applicato a livello nazionale su un numero ristretto di campioni: l’obiettivo, d’altronde, non è comminare sanzioni agli allevamenti di animali che risultassero positivi alle analisi (anche perché per ora il metodo non ha la stessa precisione e inoppugnabilità dell'analisi chimica), ma farsi un'idea della dimensione del problema e capire quanto sia diffuso l'uso di anabolizzanti negli allevamenti di bovini. L'informazione deducibile da un numero ridotto di analisi, infatti, ha solo valore indicativo, non rientra nella sorveglianza epidemiologica vera e propria. È un piccolo passo, dunque, ma molto importante per la soluzione di un problema rimasto finora aperto.

In effetti, anche in mancanza di controlli diretti sugli animali, le conseguenze per la salute umana sono evidenti a tutti: valga per tutti il caso dell'antibiotico-resistenza, che non è certo dovuta al solo fatto che la gente prende troppi farmaci (i medici “con la prescrizione facile” non ci sono più)...

È vero che molto spesso mangiando la carne ci riempiamo di farmaci. Tuttavia è difficile stimare in quale percentuale l’antibiotico-resistenza sempre pià diffusa sia legata agli alimenti. Certo incidono. Anche perché gli antibiotici utilizzati per la zootecnia finiscono comunque nell'acqua. Il problema dei residui di farmaci zootecnici nell'ambiente è in crescita: e se gli antibiotici contaminano acqua e terreno, inevitabilmente passano nella catena alimentare, attraverso l'insalata oltre che la carne e il latte. D'altronde un animale che non si ammala mai e che diventa grande il doppio dello standard rende moltissimo dal punto di vista economico. Dal canto loro gli allevatori hanno buon gioco a dire che i farmaci sono indispensabili a scopo preventivo, perché le condizioni di allevamento intensivo, in cui gli animali stanno appiccicati gli uni agli altri e vengono supernutriti, alzano molto i rischi sanitari.

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