Dossier

Piero Fogliati Poeta della luce

Le macchine emotive di Piero Fogliati. Un laboratorio per i sensi e per l'intelletto

LE MACCHINE EMOTIVE DI PIERO FOGLIATI

Un laboratorio per i sensi e per la mente

La visita all’atélier di Piero Fogliati è qualcosa di indimenticabile. Un piccolo ingresso, tre stanze semibuie dove ci si muove a fatica in un groviglio di cavi, attrezzi e marchingegni misteriosi. Un incrocio chimerico tra il garage di un elettrauto, un’officina di lavorazioni meccaniche, un negozio di ferramenta e una cantina ingombra di relitti tecnologici. Ma basta ruotare un interruttore, muovere una levetta, e le macchine si animano, si accendono luci, sfarfallano colori, ti investono soffi e suoni provenienti da direzioni indistinte, la penombra diventa lo scenario nel quale agiscono i fantasmi di una straordinaria avventura emotiva, nella quale l’immaginazione dell’artista ti trascina agendo con le armi della sorpresa e di insolite esperienze sensoriali, spesso fondate su inganni che, come tutti gli inganni, a un occhio attento risultano sottilmente rivelatori. Qui è impossibile non ritornare alla fonte etimologica della parola che indica la filosofia dell’arte, l’estetica, dal greco “aisthetikòs”, letteralmente “che ha la facoltà di sentire”.

Questa mostra riassume quarant’anni di ricerca di un artista tra i più atipici e inclassificabili. Autodidatta, dopo un esordio nella pittura dalle connotazioni esplorative che lo portano a compiere incursioni nel figurativo, nell’astratto e nell’informale, Piero Fogliati, sotto lo stimolo del lavoro in fabbrica, è attratto dall’atto della “costruzione”: non gli basta più disporre colori su una tela per parlare allo sguardo con spazi bidimensionali, sente l’esigenza di una manualità più totale, che approdi a macchine per generare sensazioni pervasive che la semplice pittura non può dare.

Sono gli anni (tra i Cinquanta e i Sessanta) nei quali sorge ad Alba il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista (MIBI), con Piero Simondo, Asger Jorn e Pinot Gallizio, e anche sotto quegli influssi nel 1962 Fogliati aderisce al neonato Centro di Cooperazione per un Istituto internazionale di Ricerche Artistiche, il CIRA, dove ritroviamo Simondo in veste di coordinatore. L’approfondimento dei rapporti tra arte, scienza e tecnologia è uno dei filoni fondamentali di entrambi i gruppi, ma il CIRA è caratterizzato da una speciale apertura a tutti i contibuti culturali e sociali, non soltanto di orientamento artistico. E’ un movimento per l’epoca di assoluta novità (evito la parola avanguardia perché sarebbe fuorviante), con un programma che per certi versi può far pensare a un futurismo rivisitato, come suggerisce anche la collaborazione che intorno al 1968 si stabilisce con il torinese Arrigo Lora-Totino, per il quale Fogliati costruisce oggetti che Lora-Totino usa nella declamazione delle sue poesie: l’Idromegafono per la “poesia liquida” poi evolutosi nel più complesso Liquimofono, il “Tritaparole” e il “Mozzaparole”.

Si realizza così quel desiderio di Fogliati che possiamo riassumere come l’”uscire dal quadro”: cioè l’abbandono delle due dimensioni a cui la pittura è vincolata per la tridimensionalità degli oggetti (che non sono, tuttavia, sculture), la conquista della fisicità, l’affermazione della manualità costruttiva per dar vita a macchine il cui fine immediato è inizialmente quello di stimolare l’immaginazione e la fantasia, ma per condurre, in un secondo tempo, a una più razionale presa di coscienza delle nostre percezioni.

A questo punto Piero Fogliati è maturo per iniziare il suo cammino in totale autonomia. Un cammino coraggioso e sacrificato, come sempre sono i cammini solitari, che per di più non ricalcano strade esistenti, sia pure poco frequentate, ma ne aprono di nuove. D’ora in poi ogni lavoro, opera d’arte o macchina di Fogliati (in questo caso i termini sono intercambiabili), sarà una tappa nell’esplorazione delle nostre facoltà percettive. E allora quell’atélier enigmatico al pian terreno di un palazzo in fondo a corso Vittorio Emanuele a Torino, si rivela per ciò che realmente è: una laboratorio dove si fanno esperimenti su come il nostro cervello costruisce la propria immagine del mondo attraverso la vista, l’udito, il tatto e in generale le nostre risorse sensoriali: Fogliati usa la tecnologia per generare emozioni che – analizzate – rivelano meccanismi della mente e quindi diventano scienza.

La vista è ovviamente il senso più indagato dall’artista per la più ricca casistica di fenomeni percettivi che offre: dalla persistenza delle immagini sulla retina alla tavolozza ottenibile sommando e sottraendo i tre colori fondamentali o combinandoli con altri, dalla fisiologia dell’adattamento alla luminosità dell’ambiente ai giochi di contrasto tra immagine e sfondo, dalle reazioni oculari al trascorrere di luci e oggetti ai movimenti saccadici del nostro occhio con i quali inconsciamente esploriamo le immagini, fino al vasto repertorio delle illusioni ottiche e dei paradossi della visione che nascono quando la percezione sensoriale mette in crisi i nostri consolidati automatismi cognitivi.

In parte, è una storia che viene da lontano. Il cinema si fonda sulla persistenza delle immagini sulla retina e nasce come strumento scientifico utile a indagare da un lato la percezione visiva e dall’altro fenomeni naturali. Un impulso decisivo alla nascita della tecnica cinematografica venne infatti dagli studi ottocenteschi sul movimento degli animali, e in particolare del cavallo al trotto e al galoppo. Convenzionalmente, tra le tante date di nascita del cinema sostenibili con buoni argomenti, si potrebbe scegliere il 26 settembre 1881. Quel giorno era un lunedì (buon auspicio: è il giorno in cui molte sale cinematografiche fanno uno sconto sul biglietto d’ingresso) e nella casa del fisiologo Etienne-Jules Marey, a Parigi, vicino al Trocadero, un gruppetto di scienziati assistette a una proiezione organizzata dal fotografo inglese Eadweard Muybridge. Il film - se così lo si può chiamare - riguardava appunto il modo con cui un cavallo in corsa muove le zampe, questione sulla quale non c’era accordo tra fisiologi, zoologi e pittori per il semplice fatto che il moto è troppo veloce perché l’occhio umano riesca a coglierlo. Con finanziamenti del mecenate americano Leland Stanford, Muybridge aveva sistemato strategicamente 12 macchine fotografiche lungo una pista di equitazione e, tramite un ingegnoso sistema di fili azionati dal cavallo stesso nel suo passaggio, venivano fatti scattare gli otturatori. Quel «film», curiosamente, venne già girato in California: non esattamente a Hollywood ma un po’ più a nord, a Palo Alto, vicino a San Francisco. Dodici fotogrammi erano «interpretati» dal cavallo «Occident» al trotto e altri 12 dalla giumenta «Sallte Gardner» lanciata al galoppo. Il pubblico di quella proiezione di lunedì 26 settembre 1881 era ristretto ma scelto: tra gli spettatori c’erano Hermann von Helmholtz (illustre fisiologo, fisico e chimico), Gabriel Lippmann (che riceverà il premio Nobel nel 1908 per l’invenzione della fotografia a colori), Gaston Tissandier (che realizzerà il primo dirigibile spinto da un motore elettrico) e il fisiologo Edward Brown-Séquard.

Anche Fogliati ha sondato la persistenza delle immagini e l’ha messa a frutto nelle sue installazioni, ma l’ha utilizzata in modo molto più complesso, incrociandola con i fenomeni annessi alla percezione dei colori (si pensi alla sua “luce sintetica” e al fenomeno dell’”aura cromatica”, dove si addentra in territori ancora enigmatici anche per fisiologi di frontiera, come il premio Nobel americano David H. Hubel e il biologo inglese Semir Zeki). E vi ha aggiunto le componenti sensoriali costituite dai suoni e dalle sollecitazioni tattili eccitate da spostamenti d’aria.

Il sogno globale di Fogliati è un intervento urbano-ambientale: la costruzione di una “Città Immaginaria” nella quale le macchine che ha ideato manovrino luci, colori, suoni e vento in una grande esperienza estetica collettiva. E’ chiaro che già a priori un’arte di questo tipo si chiama fuori dal mercato: è concepibile soltanto con un committente pubblico intelligente e sensibile, che voglia offrire ai cittadini una insolita e avvolgente occasione culturale.

Nel visionario mondo di Fogliati si incontrano “auditorium a rumore”, “boomerang acustici”, “anemofoni” ed “ermeneuti” che sotto l’apparenza di due ricurvi tubi di alpacca catturano i rumori ambientali trasformandoli in un suono continuo dalle mille variazioni; “sculture di vento” generate con “filtri eolici”; congegni per “suonare la terra” e trasmettere messaggi infrasonici; macchine per produrre fantasmi e generare una sorta di materia immateriale; sculture sonanti come il “Fleximofono”, un risuonatore nel quale molle di acciaio armonico entrano in risonanza tra loro, generando anche suggestivi effetti luminosi; cinetiche “sculture di luce” e “pitture mobili”, anch’esse dipinte solo con luci colorate; macchine come “Champ autonome” che visualizzano l’orlo del caos, quel margine elusivo nel quale minime cause producono imprevedibilmente grandi conseguenze.

Questi lavori di Fogliati, sempre provvisori, sempre in evoluzione, esposti alla Villette di Parigi, alla Biennale di Venezia, in gallerie di Firenze e di Roma, in mostre organizzate a Francoforte, Reims, Milano, Bologna, Napoli e Torino (anche “Next”, la mostra del Progetto Science Center), nascono per parlare ai sensi, per muovere le corde delle emozioni e dei sentimenti. Guardiamole, quindi, almeno all’inizio, senza pensieri, lasciandoci trascinare nella loro aura fantastica. Ma poi possiamo – dobbiamo - vedere le macchine di Fogliati anche come esperimenti di psicologia cognitiva, che – al pari di illusioni ottiche come la “Stanza di Ames” e le scale impossibili di Echer - sondano i meccanismi della mente, indagando i percorsi segreti attraverso i quali giungiamo a formarci l’immagine della realtà. Affioreranno così, anche dentro di noi, le due anime dell’opera di Fogliati: una unione profonda di razionale e irrazionale, materiale e immateriale, utopico e concreto.

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