Dossier

Piemonte & robot, una passione che punta al primato

Intervista a Paolo Dario

Dario Paolo Docente di Robotica Biomedica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Paolo Dario si occupa principalmente di biorobotica e di robotica per la chirurgia, microendoscopia e riabilitazione. Su questi temi ha pubblicato oltre 140 articoli sulle più autorevoli riviste scientifiche internazionali; è inoltre titolare di circa 20 brevetti internazionali. È stato ed è coordinatore di numerosi progetti di ricerca nazionali e transnazionali, tra cui «Neurobotics», uno studio volto a sfruttare le conoscenze neuroscientifiche per la realizzazione di sistemi robotici dotati di capacità senso-motorie e cognitive simili a quelle dell’uomo, e «VECTOR» (Versatile Endoscopic Capsule for gatrointestinal Tumor recOgnition and Therapy), che di recente ha ricevuto il Well-tech Award 2007 per la realizzazione della capsula EMILOC (Endoscopic MIcrocapsule LOcomotion), ingeribile con un bicchiere d’acqua e capace di muoversi autonomamente nell’intestino. Il professore toscano ha ricevuto alcuni tra i più prestigiosi premi internazionali in robotica, tra cui il «Joseph Engelberger Award», che gli è stato assegnato nel 1996 negli Usa.

actroid-derProfessor Dario, il convegno «Passion for robots» ha dato grande spazio ai robot umanoidi: a che punto siamo?

Stiamo facendo progressi importanti. L’obiettivo di un robot umanoide pienamente funzionante e affidabile non è ancora stato raggiunto, e ci vorranno alcuni anni perché questo avvenga, ma anche l'automobile o il frigorifero, quando furono presentati, erano lontani dall’essere perfetti. Sono ottimista perché ho assistito a progressi davvero notevoli, soprattutto nella parte meccanica, nel controllo e nella sicurezza. Sulla parte cognitiva ci sono ancora grandi difficoltà nel trasferimento delle abilità umane ai robot, anche se è tutto molto relativo. Personalmente, infatti, non credo sia necessario avere a casa una cameriera-robot o un maggiordomo-robot intelligentissimi. Ciò che conta davvero è che facciano bene il loro lavoro. Penso inoltre che a molta gente darebbero quasi fastidio “collaboratori” domestici troppo intelligenti. Dunque non è detto che la ricerca della super-intelligenza sia poi così giustificata dal punto di vista pratico, anche se lo è sicuramente dal punto di vista scientifico. Insomma, credo che anche da questo punto di vista non siamo lontanissimi dall'avere dei robot davvero funzionali. D'altronde le stime di mercato per i robot umanoidi sembrano allettanti.

Questo tanto più in Italia dove, come in Giappone, c'è una forte componente della popolazione in età avanzata...

Sì, e questo è un aspetto che va sottolineato in modo deciso. In Italia il problema dell’invecchiamento della popolazione è noto, ma non si discute abbastanza su come affrontarlo. Io mi chiedo spesso, invece, quali soluzioni realistiche, valide nel lungo periodo ed eticamente accettabili vi siano per affrontare la questione dell’assistenza agli anziani. Consentire l'immigrazione di “badanti”, per esempio, non può essere una proposta sostenibile, soprattutto nel lungo termine. Perché le donne ucraine o rumene, una volta raggiunto uno standard di vita decoroso nel loro Paese, dovrebbero continuare a venire a prendersi cura dei nostri vecchi anziché, per esempio, restare ad accudire i propri figli nel loro Paese d’origine? In passato la famiglia patriarcale si prendeva cura degli anziani, ma oggi una famiglia così non esiste più: credo che l’utilizzo di sistemi robotica possa rappresentare una soluzione realistica. Non sostengo certamente che i robot possano, né debbano, sostituire l’assistenza umana (anzi, spero ardentemente che saremo capaci di mantenere e accrescere la nostra capacità di dare valore alle relazioni familiari e sociali); tuttavia, nel prossimo futuro, alcuni semplici compiti potranno essere svolti dalle macchine. Dunque da un lato, in prospettiva, si svilupperà una forte domanda da parte del mercato; dall'altro ci sarà una valida offerta, grazie a una tecnologia che si sta sviluppando rapidamente, e che lo farà ancora più velocemente se gli investimenti e la collaborazione internazionale daranno il sostegno adeguato. La prospettiva (realistica) è che questo tipo di robot diventi il prodotto principale di una nuova industria, che offrirà un sistema di servizi alternativo/integrativo a quelli già presenti sul mercato.

A questo riguardo la ricerca italiana a che punto è, ad esempio, rispetto a quella giapponese?

Da oltre venti anni il mio laboratorio ha una fitta rete di relazioni con colleghi e centri di robotica in Giappone. La Scuola Superiore Sant’Anna ha creato a Tokyo, con il supporto del Ministero per gli Affari esteri, un laboratorio congiunto con la prestigiosa Waseda University, che si chiama «RoboCasa»; e la Waseda (estremamente soddisfatta dei risultati ottenuti) ne ha creato uno analogo, che si chiama «Robot-An», presso il centro ARTS della Scuola Superiore Sant’Anna a Pontedera. Ma vi sono altri esempi significativi di collaborazione fra Italia e Giappone nel settore della robotica. La differenza davvero macroscopica fra noi e Giappone è nell'entità degli investimenti di ricerca: come è noto, nel nostro Paese essi sono scarsi sia da parte del settore pubblico che da parte dell'industria privata. Per molto tempo nessuno ha creduto nella robotica di servizio, per cui oggi, come spesso accade, l’industria tricolore è in ritardo. Anche perché le concorrenti giapponesi nel frattempo hanno registrato una quantità sterminata di brevetti, così ora non solo sono molto più avanti, ma hanno anche chiuso molte strade ai concorrenti ritardatari. Possiamo provare a seguire le loro orme, ma non sarà facile.

prima autoPrendendo spunto dalla relazione di Aude Billard, quali chance abbiamo di trasmettere ai robot le competenze umane?

Trovo molto interessante e condivido l'idea della professoressa Aude Billard di “insegnare” ai robot molti dei compiti da svolgere. Questo approccio potrebbe adattarsi bene al caso di un futuro robot di servizio in ambito domestico. Alcuni ricorderanno che in passato esistevano in Italia le scuole per discipline “femminili” e, soprattutto, c'era una materia che si chiamava "educazione domestica". Si potrebbe pensare, scherzosamente ma non del tutto, di fare seguire dei “corsi di educazione domestica” ai robot destinati al servizio casalingo. Se l’obiettivo che ci poniamo per i robot di servizio non è quello di farli diventare super-intelligenti, ma quello di insegnare loro a svolgere alcune operazioni semplici, l’approccio dell’addestramento per imitazione può essere quello giusto. Nel futuro, i robot domestici potrebbero dunque essere programmati attraverso una fase di training di base, in fabbrica, nella quale si insegnerebbero loro le abilità di base (es. cucire, spolverare, lavare i pavimenti, cucinare..), alla quale farebbe seguito una fase di addestramento nella loro vera casa, nel corso della quale verrebbero illustrati gli ambienti nei quali lavoreranno, compresi i pericoli reali o potenziali ai quali andranno incontro (es. pestare accidentalmente il gatto...). Joseph Engelberger, definito “il padre della robotica”, dice spesso: «Ma perché a un robot non dovete dire dov'è il bagno? Perché voi ricercatori dovete metterlo in mezzo a un corridoio e lui deve capire da solo dove si trova, senza che nessuno gli spieghi nulla?». Ha perfettamente ragione. Sono dell'avviso che questa semplificazione potrebbe consentire tra poco alcune applicazioni reali. Basta appunto non pensare che un automa debba per forza fare tutto. Vorrei comunque chiarire un fatto importante: semplificare non significa sottovalutare le difficoltà notevoli che si incontrerebbero nell’insegnare a un robot operazioni apparentemente molto semplici. Spesso noi uomini sottostimiamo grossolanamente la complessità di azioni che a noi sembrano facili. Afferrare un oggetto o camminare sono compiti che eseguiamo con naturalezza, ma abbiamo fatto una grande fatica ad impararli, a pochi mesi di età. Le automobili, d’altronde, hanno iniziato a girare per il mondo all'inizio del Novecento, quando non c'erano ancora né le strade né i distributori di carburante; le auto stesse erano sistemi primitivi, MA hanno iniziato comunque a circolare e le loro prestazioni sono gradualmente progredite, con le industrie e gli ingegneri che imparavano “sul campo”, insieme agli utenti. Per analogia, pur con le molte differenze che vi sono fra gli inizi del secolo scorso e oggi in termini di aspettative e di norme di sicurezza, potremmo pensare che robot con una intelligenza “limitata” potrebbero giungere presto sul mercato, purché siano, appunto, sicuri, ragionevolmente affidabili e ricevano una solida “istruzione” iniziale (prima in fabbrica e poi a casa).

braccio umano e roboticoChe ruolo ha in tutto ciò la roboetica?

Se per roboetica si intende definire regole di comportamento per un robot pensando che esso possa dire: «Io voglio fare questo» o «Io decido quest’altro», allora il problema è certamente mal posto, nel senso che questa ipotesi è infondata e lo sarà per molto tempo, perché nessuna macchina possiede l’intelligenza per agire autonomamente. Se, invece, ci si riferisce alla realizzazione di robot che possono nuocere all’uomo, allora si tratta più di deontologia professionale che di morale. Vale ancora l'esempio dell'automobile: il costruttore non è responsabile se essa viene usata in modo avventato, ma è responsabile del fatto che l’auto immessa sul mercato sia affidabile e sicura secondo i migliori standard della tecnologia del momento. Anche nel caso del robot il costruttore dovrà impegnarsi essenzialmente a realizzare una macchina fatta bene, che funziona correttamente, che non si rompe e che non danneggia né l’utente né le persone o le cose con cui entra in contatto: non è un problema di etica, ma di deontologia professionale. E' comunque interessante e importante considerare la dimensione etica, perché la questione dell’uso della tecnologia robotica in contesti “sensibili”, come quello militare o quello dei “giocattoli sessuali”, comincia a porsi, e va affrontato con strumenti metodologici e di analisi simili a quelli che sono stati introdotti anni fa per la “bioetica”. Un settore in cui la "robo-" (o, più in generale, la "tecno-") etica è importante è quello della sostituzione di parti umane (per es. mediante protesi d’arto bioniche) o dell’impianto di interfacce neurali per la comunicazione cervello-macchina. Questo, in linea di principio, potrebbe già oggi dare luogo a problemi reali, come quelli derivanti dalla possibilità (peraltro già dimostrata sugli animali) di inviare impulsi elettrici al sistema nervoso di un individuo al fine di condizionarne/controllarne la volontà. Questi sono scenari effettivamente plausibili, anche se ancora di là da venire.

predatorQuali saranno nell’immediato futuro le applicazioni più diffuse della robotica di servizio?

Secondo me ci sono due tipi di applicazione che, a breve, diventeranno davvero importanti a livello economico, seppure pochi ci avessero pensato seriamente. La prima è la robotica militare. Gli Stati Uniti hanno destinato 127 miliardi di dollari, il più grande investimento di tutta la storia della ricerca militare, in un progetto che punta a modernizzare la US Army. Secondo tale piano entro il 2010 un terzo di tutte le operazioni militari americane dovrà essere compiuto da robot. Si parla di aerei privi di pilota a bordo (UCAV), carri armati robotizzati e veicoli terrestri teleguidati mandati in avanscoperta. A dire la verità, le forze armate di tutto il mondo hanno cambiato radicalmente atteggiamento nei confronti della robotica solo con l’avvento del «Predator», il primo aereo senza uomini a bordo, sperimentato durante l’ultima guerra in Iraq. In precedenza nessun militare, per lo meno negli alti gradi, credeva seriamente che la robotica applicata al settore bellico servisse a qualcosa.

androide ishiguro 2E il secondo settore di maggior sviluppo?

È la robotica "sessuale". Hiroshi Ishiguro, collega di Minoru Asada all’Università di Osaka, ha creato una società (ma non è il primo) che costruisce robot umanoidi, non intelligenti, destinati all'intrattenimento di uomini e donne. E credo che, se davvero vogliamo parlare di etica, dovremmo pensare a questi ambiti. Perché ciò che potrebbe accadere è che molte persone si comprino veri schiavi sessuali, ad alte “prestazioni” e non necessariamente intelligenti. Anzi, meno saranno intelligenti, meglio sarà, almeno per molti. Si potrebbe pensare, nel peggiore dei casi, a una “pedofilia robotica” e a varie perversioni ottenibili con “super-bambole/i”. La gente potrebbe costruirsi una vita sentimentale fittizia, proprio come in «Second Life» (anche se là è tutto virtuale e si ha a che fare con degli avatar, mentre la robotica appartiene al mondo reale). La storia della pornografia insegna che questo potrebbe diventare un mercato enorme e dare luogo a comportamenti diffusi, e dal mio punto di vista, pericolosi e insidiosi, perché la gente si alienerebbe sempre di più. Abbiamo assistito tutti allo sviluppo di comportamenti di isolamento sociale derivanti dall’abuso del Web: è facile immaginare cosa potrebbe succedere se fossero disponibili robot amichevoli e consenzienti. Insomma il cosiddetto "robot personale" potrebbe essere molto di più che un portaborse…

D'altronde sia il settore delle armi che l'industria del sesso possono contare su finanziamenti esorbitanti e dunque potrebbero sostenere qualunque tipo di ricerca...

E sicuramente non si fermeranno davanti a implicazioni di tipo etico. Purtroppo, mentre l'idea del robot che dice «Io» o commette volontariamente del male è una speculazione teorica e tecnicamente non realistica (almeno allo stato attuale), le ipotesi sul mercato bellico e su quello del sesso mi paiono del tutto plausibili e temo proprio che si realizzeranno. Con tutti i problemi che ne deriveranno. Attualmente la ricerca sui robot umanoidi segue due strade: una mira alla realizzazione di robot di fattezze antropomorfe, ma chiaramente non umane; la seconda mira alla realizzazione di umanoidi di fattezze dichiaratamente umane, cioè gli “androidi”. A quest’ultimo obiettivo sta lavorando lo stesso Minoru Asada. I suoi robot, come quelli di Ishiguro, sono creature con pelle ed espressioni facciali che imitano quelle umane. Al punto che chi le osserva scivola nella cosiddetta "uncanny valley", una situazione di disagio derivante dal fatto di sapere solo fino a un certo punto che l'androide che abbiamo davanti è una macchina e non è un uomo. Ishiguro, ad esempio, ha clonato la moglie, la figlia e se stesso: la maschera facciale della bambina è impressionante. Dinanzi ad androidi simili si può creare un disorientamento a livello cognitivo. Tanto che se uno valuta il "gaze", cioè analizza dove si fissa lo sguardo dell’osservatore, constata che il soggetto osserva con preoccupazione e ansia l’androide, chiedendosi se si tratti di un essere umano “vero” o “falso”. Ma, una volta che l'individuo ha capito con chi o con che cosa ha a che fare, il problema è risolto. Un robot “compagno” dunque potrebbe benissimo essere così.

Lei è coordinatore del progetto «Neurobotics», che è partito nel 2004 e terminerà nel 2008. A che punto siete?

Direi ottimo. Il progetto ha focalizzato i propri obiettivi nel corso del tempo, partendo dall'idea che per costruire nuovi robot fosse importante creare una diversa comunità di lavoro, fortemente interdisciplinare, e costituita da studiosi di robotica e da neuroscienziati che lavorino davvero e profondamente insieme. Infatti, da un lato robotici e bioingegneri da soli potrebbero avere difficoltà a generare innovazioni radicali (tutte le comunità tendono a produrre novità "incrementali") basate su modelli complessi dei sistemi biologici, dall'altro i neuroscienziati sarebbero portati culturalmente a non occuparsi di settori applicativi. Abbiamo dunque creato nel tempo (e, non le nascondo, con molta fatica) un gruppo che interagisce molto bene e che ha identificato una serie di problemi di forte interesse neuroscientifico (per realizzare sistemi “neurobotici” infatti c'è bisogno di modelli neuroscientifici molto avanzati) e con una doppia valenza: produrre nuova conoscenza, e allo stesso tempo, sviluppare soluzioni che possono condurre a applicazioni profondamente innovative. Non vi è contraddizione fra questi due obiettivi: nella tecnologia avanzata non esiste più la divisione fra ricerca di base e la ricerca applicata; c’è solo la ricerca di qualità.

lampreda pesce Questi sono tra i risultati più importanti del nostro progetto, assieme a una serie di importanti lavori scientifici congiunti e a numerose soluzioni già coperte da brevetto. Stiamo inoltre facendo molta formazione: abbiamo ormai una cinquantina di giovani dottorandi attivi a livello europeo, ma collaboriamo anche con Giappone e Stati Uniti. Abbiamo praticamente pronti numerosi prototipi: produrremo almeno una decina di differenti piattaforme, che vanno dai robot pensati per comportarsi esattamente come il braccio umano, quindi con capacità di compliance e dolcezza di movimento; a esoscheletri per il controllo e la riabilitazione fine; a protesi di mano comandate dal cervello (e non più collegate ai muscoli come avviene nei sistemi mioelettrici); a modelli di pesci lampreda; a bracci che possono essere impiegati in ausilio ai due che già si possiedono. Dunque non abbiamo un dimostratore unico, ma una vasta gamma di dimostratori, sviluppati grazie a un forte lavoro di gruppo. Il progetto era nato proprio per creare questa comunità interdisciplinare di studiosi: ora si tratta di valorizzare le conoscenze acquisite e, soprattutto, di utilizzare questo metodo di lavoro in una serie di applicazioni diverse.

Ha accennato a protesi comandate dal cervello: in questo caso ci sono problemi di ordine etico?

Sì. E noi, ovviamente, stiamo molto attenti. Lavoriamo con medici altamente qualificati presso l’Università Campus Biomedico di Roma, che condividono la nostra preoccupazione ad agire sempre e soltanto “per” il paziente. Non vogliamo, né potremmo, fare “esperimenti” sulle persone: dobbiamo essere in grado di offrire soluzioni che siano sicuramente migliorative del loro stato. Questo è quanto ci impongono sia l'etica che la deontologia professionale. Ormai da diversi mesi siamo in una fase di analisi attenta su come procedere. Abbiamo già trovato tre volontari. Il grande problema è stabilire se una mano bionica, che consenta ad esempio di ottenere alcune semplici informazioni durante il contatto, sia veramente un vantaggio rispetto a una protesi tradizionale. La risposta è sì, in linea di principio. Ma se poi veramente non fosse così? È chiaro che dovremmo poter fare un esperimento. E questo è un problema molto serio in Italia e in Europa, meno negli Stati Uniti. Ma supereremo l'ostacolo molto presto.

mano bionicaQuali sono i dubbi principali?

Il problema fondamentale per rendere una mano “bionica” davvero utile e quindi accettabile (più delle protesi oggi disponibili, che peraltro vanno benissimo) non è solo quello di comandare le dita, ma di fornire all’amputato degli stimoli di ritorno. A questo riguardo abbiamo definito una serie di protocolli sperimentali con i volontari che prevedono di compiere analisi dettagliate della corteccia cerebrale (attraverso risonanza magnetica funzionale, EEG, MEG...) per verificare quali modificazioni (supponiamo positive in termini di recupero di funzionalità) si possono verificare nel cervello durante l'uso di queste protesi. Ma c’è un problema: con la tecnologia attuale non possiamo impiantare una mano per anni; la protesi sperimentale e l’impianto possono funzionare, al momento, per un periodo limitato. È un tempo sufficiente per un esperimento? Senza contare le conseguenze psicologiche sui pazienti derivanti dal fatto di non avere più un certo tipo di protesi a cui avevano progressivamente fatto l'abitudine. Comunque stiamo lavorando con passione: è appena partito un progetto finanziato dal Ministero dell'Università e della Ricerca (MUR), e coordinato dalla collega Maria Chiara Carrozza della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che mira a sviluppare un’elettronica impiantabile in grado di oltrepassare questo limite.

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