Dossier

Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l'evoluzione di un'idea

Grandi lavori ignorati

Nonostante il clima che circondava il problema delle singolarità nella soluzione di Schwarzschild e quello del collasso gravitazionale, ci fu qualcuno che prese di petto la questione e provò ad affrontare il problema con uno sguardo meno pregiudizievole e più incline ad accettare l'esistenza di nuovi scenari scientifici. Il primo serio attacco all'incomprensibile divergenza che si presentava al raggio di Schwarzschild fu portato da un cosmologo e astrofisico belga, George Eduard Leimatre (1884-1966) nel 1933.

Alla fine degli anni venti, lo scienziato aveva portato a termine pionieristici studi sull'espansione dell'universo che, però, rimasero pressochè sconosciuti; solo con l'aiuto di Eddington, che dopo averli letti si adoperò per farli tradurre in inglese e divulgare, poterono essere studiati dalla comunità scientifica. Almeno in teoria, perchè, di certo, all'inizio, non ebbero grande successo.

Tra questi studi, all'interno di un lavoro particolarmente complesso e di difficile comprensione, Leimatre dimostrò che con un opportuno cambiamento di coordinate era possibile eliminare la singolarità che compariva nel punto r=2M nella soluzione trovata da Schwarzschild.

La metrica, con le nuove coordinate, non manifestava più alcun comportamento patologico ma, anzi, restituiva valori finiti:

"La singolarità del campo di Schwarzschild è dunque una singolarità fittizia"

(Leimatre, 1933)

Purtroppo il suo lavoro passò inosservato e rimase a languire tra i contributi alla cosmologia dimenticati; beffardo destino per un lavoro che anticipava la risoluzione del problema delle singolarità apparenti di quasi trenta anni.

Un ultimo fatto conferma l'avversione che la comunità scientifica aveva nei confronti di questo problema; il lavoro di Leimatre, infatti, attrasse miracolosamente l'attenzione di uno scienziato che molto avrebbe avuto da dire nel campo della cosmologia, Howard Percy Robertson (1903-1961). Questi osservò che sebbene una particella (un osservatore) avesse impiegato un tempo infinito per raggiungere la superficie delimitata dal raggio di Schwarzschild r=2M, almeno per quanto risultava a un osservatore lontano dal buco nero, il tempo proprio, ossia quello misurato da un ipotetico osservatore posto sulla particella durante il suo viaggio verso l'orizzonte degli eventi, sarebbe rimasto in realtà finito. In altre parole, il tempo scorreva normalmente per la particella (e il suo osservatore) che avesse attraversato l'orizzonte degli eventi.

Quello che appare essere una magia, dello stesso livello del cerchio magico di Eddington, è in realtà la base della relatività einsteniana: non esiste un tempo assoluto uguale per tutti, ma esistono tanti tempi "relativi" quanti sono gli osservatori. Così mentre un osservatore lontano, al riparo dalla forza d'attrazione del buco nero, vede un audace astronauta raggiungere l'orizzonte degli eventi in un tempo infinito, per lo stesso astronauta il tempo scorre normalmente fino al raggiungimento dell'orizzonte degli eventi.

Anticipando le conclusioni alle quali perverremo al termine di questo lavoro e di cui presto avremo il primo serio indizio, l'astronauta in questione non avrà alcun problema a superare questa fittizia barriera, salvo poi accorgersi che non potrà più tornare indietro. In un certo senso il cerchio magico di Eddington una barriera "fisica" la pone davvero, ma questo Robertson, Leimatre e tutti gli altri finora incontrati non potevano ancora saperlo.

Ma torniamo al lavoro di Robertson.

Nel 1939, presentò il suo contributo a una conferenza a Toronto, dove ebbe modo di incontrare Einstein. La circostanza era più che buona per mostrare al famoso scienziato le conclusioni alle quali era giunto.

Affascinato dalla questione, il padre della relatività non mancò di meditare sulla questione, ma non tardò a criticare il lavoro di Robertson, giungendo alle stesse conclusioni della maggioranza dei fisici del tempo:

"..la singolarità di Schwarzschild non può apparire perché la materia non può concentrarsi arbitrariamente" (Einstein, 1939)

E se lo diceva Einstein...

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