Dossier

Il bello della scoperta

Gli ologrammi e la relatività di Einstein

La natura della luce, ossia se la luce sia fatta di particelle o se sia un’onda, è stata una delle più affascinanti questioni scientifiche dei secoli XVII e XVIII. Young, con le sue figure di interferenza, alla lunga aveva convinto molti scienziati della validità dell’ipotesi ondulatoria. Ma agli inizi del XX secolo furono osservati fenomeni che non erano in accordo con questo schema. Il più noto è l’effetto fotoelettrico, che si manifesta quando una sostanza colpita dalla luce emette elettroni. Einstein lo spiegò ipotizzando che la luce sia fatta di quantità elementari non divisibili: “quanti” di luce, battezzati fotoni. La meccanica quantistica negli anni ’20 e ’30 stabilirà che la natura materiale dei fotoni convive con quella di onda.

Oggi per mostrare l’interferenza della luce si usa il laser, che permette di ottenere facilmente il tipo di luce adatta. L’interferenza realizzata con i laser viene usata per produrre gli ologrammi, come quelli che compaiono sulle carte di credito e che danno l’immagine tridimensionale di un oggetto.

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Si basano sull’interferenza della luce anche gli interferometri, strumenti che misurano con precisione lunghezze o variazioni di lunghezza. Se il percorso del raggio luminoso cambia, l’interferometro lo rileva, anche su grandi distanze, perché si modificano le figure di interferenza. Dispositivi basati su questo principio vengono utilizzati per seguire i movimenti delle placche geologiche sulla superficie terrestre.

L’interferometro di Michelson e Morley è stato utilizzato nel 1887 per dimostrare che l’etere, il “supporto materiale” in cui avrebbe dovuto viaggiare la luce, non esiste. Questo esperimento ha avuto un’influenza capitale sulla teoria della relatività di Einstein, in particolare sull’ipotesi che la velocità della luce nel vuoto sia costante.

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