Dossier

Il grande cuore di Torino

Francesco Fedele: «In Italia il cuore delle donne è discriminato»

«In riferimento alle patologie cardiache, in Italia ci sono malati di serie A, di serie B e, addirittura, di serie C». Un’affermazione tanto più grave, se si considera che a formularla è stato il professore Francesco Fedele, presidente della Società Italiana di cardiologia (SIC), all’inaugurazione del 68° Congresso nazionale SIC (Roma, 15-18 dicembre 2007).

Fedele FrancescoProfessor Fedele, quali sono i malati di serie C?

Il malato di serie C, cioè il più penalizzato, è la donna anziana che vive al Sud. Tre i fattori di handicap a suo svantaggio: 1) essere donna, dal momento che sono gli uomini (specie giovani) ad avere la precedenza nella ricerca e nelle terapie; 2) essere anziana, perché le persone avanti negli anni rientrano meno nell’interesse dell’assistenza medica; 3) vivere al Sud, dove, come ha evidenziato una recente indagine del Censis, ci sono insufficienti strutture specializzate, minore cultura della prevenzione e un diffuso fatalismo.

E i malati di serie A e di serie B?

Nella serie d’eccellenza ci sono gli uomini e, in particolare, quelli giovani, cioè under 65 anni. In serie B le donne in genere e le persone anziane. I motivi? Le ricerche, in particolare quelle più avanzate, sia che si tratti di farmaci che di strumenti diagnostici, tengono conto soprattutto di coorti formate da uomini giovani. Si studia e si programma di meno nel caso delle donne e delle persone anziane. E questo anche perché tra la popolazione femminile i problemi dell’apparato cardiovascolare si evidenziano più tardi e con sintomi più silenziosi (sottovalutati dalle stesse pazienti). Nel loro caso, quindi, assistiamo a un grave ritardo nella diagnosi e nel ricorso a emodinamica e angioplastica. Un ritardo tanto più preoccupante, se si considera che le donne, in particolare quelle in menopausa (quando viene a cadere la protezione degli estrogeni), hanno ormai raggiunto i maschi per incidenza di malattie cardiovascolari.

In Italia è stata condotta qualche indagine specifica sul diverso trattamento di uomini e donne?

pillole Sì, una ricerca compiuta in dieci Asl italiane ha attestato in modo inconfutabile la diversità di trattamento fra uomini e donne e fra giovani e anziani. Lo studio ha preso in esame 3.582 pazienti ricoverati nel 2005 per infarto miocardico acuto (il 38% femmine e il 62% maschi) e li ha seguiti per i 12 mesi successivi alla data di dimissione per valutarne i consumi di farmaci “salva vita” (betabloccanti, statine, ace-inibitori e aspirina). I risultati sono stati sconcertanti: è emersa una scarsa adesione dei pazienti al trattamento raccomandato (in media solo il 73% degli uomini e il 61% delle donne assume i medicinali prescritti) e una consistente disparità nella spesa media per ricoverato in relazione all’età (maggiore per gli under 50 e inferiore per gli over 65).

Perché la donna è considerata un malato di serie B?

Anzitutto per una questione culturale. Quando un uomo ha un dolore al petto, infatti, il primo pensiero va all’infarto: è ormai un dato acquisito che, nel cosiddetto “sesso forte”, le malattie cardiache sono frequenti. Quando, invece, ad avere questo dolore è una donna, non sorge subito il sospetto che potrebbe trattarsi di un infarto. Solo in un secondo momento ci si rende conto della gravità dei sintomi e si ricorre all’Unità coronarica. Ci si dimentica ancora troppo spesso che una italiana su tre muore per un evento cardio o cerebrovascolare (compreso l’ictus), mentre “solo” una donna su venticinque perde la vita per una neoplasia. In questi casi in medicina si parla «Sindrome di Yentl». Yentl è la protagonista di uno dei racconti di I. B. Singer: è una ragazza ebrea che desidera studiare la Torah (le Sacre Scritture) ma, non essendole consentito di frequentare la Yeshiva (la Scuola nella quale si studia la Torah), è costretta a travestirsi da maschio per poter studiare. Insomma, abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale copernicana, e vi devono partecipare i centri di ricerca, la classe medica e, naturalmente, le Istituzioni.

Da dove viene questo “deficit” culturale?

stetoscopio 2 Da una carenza di conoscenze scientifiche. La donna con patologia cardiaca ha manifestazioni cliniche differenti da quelle dell’uomo, mostra un substrato fisiopatologico suo proprio e presenta diversi profili di rischio-beneficio in relazione alle terapie farmacologiche. Ma abbiamo ancora scarse informazioni sull’efficacia di molte terapie in relazione al genere. Questa condizione rende il processo diagnostico e di cura più problematico. La conseguenza è che le donne si sono avvantaggiate meno della riduzione globale del numero delle morti per causa cardiovascolare, ottenuta negli ultimi decenni con la lotta ai fattori di rischio, la diagnosi rapida e la terapia aggressiva degli eventi acuti. Nel sesso femminile, d’altronde, la patologia cardiovascolare è assai più dipendente dall’età. Nei maschi, la presenza di fattori di rischio induce la comparsa della cardiopatia ischemica sin dalla IV decade di vita; nelle femmine, l’attività degli ormoni sessuali nel corso della vita riproduttiva attenua l’influenza degli stessi fattori di rischio e ritarda la comparsa della patologia clinica sino a dopo la menopausa. L’importanza della funzione ovarica è comprovata dall’osservazione che, quando donne giovani sono sottoposte a ovariectomia (asportazione delle ovaie) e non assumono trattamento ormonale sostitutivo, l’incidenza di malattie cardiovascolari si fa simile, se non superiore, a quella dei coetanei maschi. La crescente aspettativa di vita che si è determinata negli ultimi decenni ha portato a un incremento del numero delle donne in postmenopausa e, quindi, anche delle patologie strettamente correlate al deficit ormonale, quali l’osteoporosi e le malattie cardiovascolari, fino a non molti anni fa considerate rare nel sesso femminile. Questa problematica è dunque destinata ad estendersi e a diventare sempre più impegnativa per gli orientamenti e le iniziative della nostra organizzazione sanitaria. Non a caso la monografia edita periodicamente dalla SIC è stata dedicata quest’anno alle «Malattie cardiovascolari nella donna» ed è stata offerta a tutti i partecipanti al 68° Congresso nazionale.

Ma le donne ci mettono anche del loro?

donna anziana fumatrice Senza dubbio. Una volta si diceva che «le malattie cardiache sono quelle che rendono le donne vedove». Qualunque cardiologo con i capelli bianchi fatica a ricordare di aver visto giungere al pronto soccorso, quando era uno specializzando, una donna colpita da infarto. Adesso la situazione è ben diversa: tra le cause, come dicevamo, l’incremento del numero di donne in menopausa, ma anche il differente stile di vita, con uno stress maggiore (per competere con i maschi), il vizio del fumo e la trascuratezza nel sottoporsi a controlli diagnostici preventivi.

Torniamo ai dati generali: le cifre dicono che in Italia si muore di meno per le malattie cardiovascolari …

D’accordo, si muore di meno. Ma andiamo a vedere cosa ne è in media del paziente colpito da infarto che le cure mediche e chirurgiche hanno strappato alla morte. È un malato salvato, senza dubbio, ma non è guarito: il suo cuore presenta ancora i segni dell’infarto. Non è morto ma, uscito dall’ospedale, è sempre pronto a rientrarci.

Questo vuol dire che si muore di meno, ma si sta sempre male?

Intendiamoci, il fatto che la medicina abbia compiuto tanti progressi riducendo la mortalità è un grande successo. Ma per il resto la situazione non è cambiata. Per certi versi si è addirittura aggravata. Dicevamo dell’infartuato che è stato salvato in ospedale: è stato curato più o meno bene, ma ha sempre una spada di Damocle sul cuore. È infatti entrato nel tunnel dello scompenso cardiaco, il killer più pericoloso di questo inizio Millennio: solo in Italia mezzo milione di casi l’anno; l’età media è di 71 anni, un caso su due riguarda donne. Per il 70 per cento è dovuto a cardiopatia ischemica sottostante; per il resto a cardiomiopatie, aritmie, cardiopatie congenite, valvulopatie operate e a esiti di ipertensione non curata. Il fatto più grave è che spesso il paziente cardiopatico è anziano e soffre di altre patologie. La mortalità intraospedaliera per scompenso cardiaco è mediamente del 4 per cento, ma a 60 giorni dalla dimissione è del 9,6 per cento. Fra i due e i tre mesi il 30 per cento dei pazienti viene di nuovo ricoverato. Se si tratta di insufficienza cardiaca acuta, quasi la metà dei pazienti rientra in ospedale entro un anno dalla dimissione e il 15 per cento vi torna almeno due volte.

Ma perché, uscito dall’ospedale, il cardiopatico è “solo”? Cosa si dovrebbe fare per aiutarlo?

monitor ecg Un malato con lo scompenso cardiaco non è più sotto controllo efficace, anche se prende farmaci e viene seguito da un medico. Per assisterlo adeguatamente è indispensabile monitorare il suo cuore sofferente attimo dopo attimo. La SIC propone dunque alle istituzioni nazionali e regionali di mettere a disposizione dei cardiopatici, nel momento in cui lasciano l’ospedale, un dispositivo che consenta di monitorare il loro apparato circolatorio. Il punto più delicato è l’allestimento di una centrale operativa che “catturi” i dati trasmessi dai dispositivi, li interpreti e, se necessario, in emergenza, dia una risposta in termini medici. Ogni struttura ospedaliera dovrebbe essere dotata di questa centrale. In Italia stiamo facendo i primi passi, ma siamo lontani dalla soluzione del problema. C’è una sola Regione, la Lombardia, che ha attuato un piano specifico all’interno del Servizio sanitario. Per il resto, solo esperimenti isolati. La SIC, d’intesa con il Ministero della Salute e gli altri organismi, si impegna a mettere a punto standard di applicazione della telecardiologia che possano essere impiegati su scala nazionale. Si potrebbe anche pensare di attivare un preciso DRG, magari con la partecipazione del paziente.

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