Dossier

Dipartimento di biologia animale e umana di Torino

Curiosando tra le attività…

La biologia post-genomica

Fino a qualche anno fa il grande pubblico sentiva parlare di biologia molecolare soprattutto a proposito del Progetto genoma umano, che nel 2001 ha portato a completare il sequenziamento del DNA contenuto nel nucleo delle nostre cellule.

Ora che diamo per acquisita l’identificazione delle decine di migliaia di geni che compongono il patrimonio ereditario della nostra specie, sentiamo parlare sempre più spesso di proteoma.

Le proteine sono costruite dalla cellula traducendo le istruzioni contenute nel DNA I geni infatti sono la “ricetta in codice” che consente alla cellula di produrre le proteine, e sono proprio queste macromolecole organiche a determinare il funzionamento (o il malfunzionamento, in caso di malattia) dei processi biologici.

Perciò è importante studiare le proteine che ogni cellula produce durante le varie fasi della propria vita, sia per capire quale sia il loro ruolo funzionale, sia per imparare a riconoscerle nei laboratori d’analisi.

Una cellula tumorale, per esempio, può essere riconosciuta proprio grazie al tipo e alla quantità delle proteine che produce.

Dal genoma alla struttura e alle funzioni delle proteine Le proteine sono lunghe catene di aminoacidi avvolte su se stesse con una struttura tridimensionale assai complessa, che è un fattore-chiave nel determinare l’azione di ciascuna proteina nell’organismo.

Una delle sfide della ricerca scientifica di oggi è modellare questa struttura al computer, con le tecniche della bioinformatica.

Una sfida ancora più avanzata è quella di ingegnerizzare le proteine, cioè di modificarle in modo controllato per sfruttarne il comportamento, per esempio a scopo diagnostico nel campo biomedico.

Poiché le proteine hanno dimensioni dell’ordine di 1–10 nanometri, si tratta a tutti gli effetti di un’applicazione delle nanotecnologie in campo biologico.

Nell’ingegneria proteica si sfrutta la capacità delle cellule di alcuni batteri, come E. coli, di produrre le proteine usando l’informazione genetica contenuta nel DNA.

Grazie alle biotecnologie oggi è possibile manipolare i singoli codoni di un gene, cioè le triplette di basi nucleotidiche che codificano gli aminoacidi che andranno a formare la proteina.

Si possono così ottenere direttamente proteine modificate, con uno o più aminoacidi diversi dal normale, senza dover passare attraverso la produzione di altri organismi geneticamente modificati (OGM).

Come nasce un nuovo farmaco

Il processo della scoperta di un nuovo farmaco è molto laborioso e costoso.

Dalle ricerche di base nei laboratori delle industrie farmaceutiche all’arrivo di un principio attivo sugli scaffali delle farmacie passano in media 10 anni, e l’investimento complessivo può superare i 500 milioni di euro.

La ricerca di una nuova cura per una data malattia inizia con lunghi studi in laboratorio, che consentono di individuare alcune decine di molecole che sono candidate interessanti per il principio attivo cercato.

Si passa poi alla sperimentazione su tessuti animali e umani, per studiare il metobolismo del farmaco, stabilire l’effetto che esso potrà avere sull’organismo dei pazienti e individuare le eventuali controindicazioni.

I principali citocromi P450 epatici In questa fase ha particolare importanza il ruolo degli enzimi chiamati citocromi P450, che sono proteine prodotte dal fegato e rendono più solubile il farmaco.

Infatti quando prendiamo una medicina soltanto una piccola parte del principio attivo che assumiamo, e che tramite l’intestino passa alla circolazione sanguigna, raggiunge l’organo o i tessuti-bersaglio dove si vuole che agisca.

Il resto del principio attivo deve essere smaltito in fretta dall’organismo, così che in un giorno o due si possa assumere di nuovo il farmaco, senza che esso si accumuli nel corpo intossicandolo.

Gli enzimi P450 e il metabolismo dei farmaci A questo smaltimento provvedono gli enzimi epatici P450 che, solubilizzando il farmaco, lo rendono più facilmente eliminabile dai reni.

Ora, il punto è che moltissimi tra i nuovi farmaci sviluppati oggi vengono scartati (perché non funzionano o hanno gravi effetti collaterali) proprio durante la fase finale del testing basato sui citocromi P450.

È importante, perciò, individuare test veloci ed efficaci che possano essere fatti invece all’inizio della sperimentazione, così da poter scartare i farmaci inadatti prima che su di essi si siano già investite cifre molto ingenti.

Gli studi sui biosensori a base di enzimi P450 umani condotti da Gianfranco Gilardi e dal suo gruppo mirano proprio a rendere fattibile questo tipo di screening.

I biosensori

I biosensori o biochip, così chiamati per analogia con i chip di silicio su cui si stampano i circuiti integrati per i computer, hanno al posto dei circuiti opportune proteine, che sono ospitate in una serie di pozzetti di gel disposti a forma di griglia (array).

Biosensori a enzimi P450 Attualmente si lavora con microarray dove i pozzetti sono separati da distanze dell’ordine del µm (1 millesimo di millimetro). Per produrli si usa una tecnologia simile a quella delle stampanti inkjet, opportunamente modificata per utilizzare “inchiostri biologici”. Ma nel prossimo futuro si prevede di usare le nanotecnologie per ottenere chip con risoluzione ancora maggiore (decine di migliaia di pozzetti per millimetro).

L’enzima glucosio ossidasi Questi chip a base di proteine possono essere usati come sensori analitici per riconoscere una proteina specifica, come un anticorpo, all’interno di una miscela complessa. In tal caso si immobilizzano sul chip opportuni reagenti, a cui quella proteina si lega.

In alternativa i chip possono essere sensori di tipo funzionale: nei pozzetti si immobilizzano molte proteine diverse che, in virtù della propria attività biochimica, riconoscono farmaci o altre proteine, oppure sono in grado di trasformare i substrati con cui vengono a contatto.

Per esempio esiste già in commercio un biosensore ottico, derivato dalle ricerche del gruppo del professor Gilardi, che serve per riconoscere la presenza di maltosio in una soluzione.

Proteina ingegnerizzata per riconoscere il maltosio Questo chip utilizza una proteina naturale (MBP) marcata con una molecola fluorescente (fluoroforo) e ingegnerizzata inserendo l’aminoacido cisteina al posto della serina.

Quando si aggiunge il maltosio la proteina “si chiude” è il fluoroforo viene portato dalla soluzione acquosa all’interno della proteina, che è un ambiente idrofobo.

Così il substrato diventa molto più fluorescente, effetto che si può misurare facilmente.

Ancora più interessanti sono i biosensori amperometrici, che misurano direttamente la corrente elettrica associata alle reazioni chimiche nell’organismo.

Un biosensore per la misurazione del glucosio Un esempio già in commercio è il sensore per il glucosio realizzato dal professor Allen Hill del Queen’s College di Oxford.

Questo strumento è pensato per i diabetici, che hanno bisogno di tenere costantemente sotto controllo il glucosio nel proprio sangue.

Si mette una goccia di sangue su una cartina, che si inserisce poi in un sensore delle dimensioni di una penna stilografica.

Il sensore misura la corrente prodotta dall’azione dell’enzima e mostra sul display il valore della concentrazione del glucosio nel sangue.

Questo tipo di biosensore sfrutta il fatto che molte proteine regolano finemente il flusso di elettroni: si può perciò monitorare il segnale elettrico mentre la proteina catalizza la sua reazione di ossidoriduzione.

Schema di un biosensore a enzimi P450 Tuttavia le proteine per loro natura sono isolanti dal punto di vista elettrico. È necessario perciò renderle conduttrici e collegarle a un elettrodo, se si vuole poter misurare le cariche trasferite durante l’azione enzimatica.

Una delle invenzioni di Gianfranco Gilardi è stata la scoperta di un modo per creare una catena artificiale di proteine, in una sorta di “Lego molecolare”, legando l’enzima P450 a una proteina batterica ET (electron transfer, cioè capace di trasferire elettroni) che a sua volta si lega all’elettrodo del sensore.

Simulare il fegato con un biochip

I biosensori a base di enzimi P450 simulano ciò che avviene nel fegato umano e quando sono usati per testare un farmaco consentono di capire:

Laboratorio per lo studio elettrochimico dei biosensori 1) quanto sia rapido il metabolismo del farmaco da parte degli enzimi epatici;

2) quale sia il prodotto del metabolismo (esiste infatti la possibilità che si tratti di un composto ancora più tossico del farmaco; per stabilirlo non basta il biochip, ma si devono utilizzare le tecniche della spettrometria di massa);

2) se il farmaco sia un inibitore dei P450; qualora bloccasse il loro funzionamento, infatti, il farmaco (anche se ottimo di per sé) potrebbe essere letale per un paziente che assume un altro farmaco, che a quel punto non potrebbe più essere smaltito dall’organismo.

I farmaci oggi sono così numerosi che controllare la loro compatibilità in tutte le possibili combinazioni è diventato in pratica quasi impossibile, se si usano i metodi tradizionali.

Con l’avvento dei biochip un test sistematico di compatibilità può diventare invece di nuovo fattibile, perché ciascun test dà un risultato in pochi minuti, con grande accuratezza e riproducibilità.

In conclusione il chip P450 è uno strumento che promette di aiutare le case farmaceutiche a migliorare la selezione dei nuovi farmaci nella fase iniziale della ricerca, dando la possibilità di testare in modo veloce e affidabile se essi siano tossici o meno.

In questo modo si riduce il costo dello sviluppo dei farmaci e aumenta la produttività della ricerca.

Lo spin-off della ricerca universitaria

L’incontro tra nano- e biotecnologie rappresentato dall’ingegneria proteica ha già generato nel 2001 un’iniziativa imprenditoriale nel Regno Unito, la NanoBioDesign Ltd. di Londra, nata come spin-off (cioè azienda derivata per lo sfruttamento commerciale) della ricerca all’Imperial College, che ne è azionista e venture capitalist.

La NanoBioDesign detiene i diritti esclusivi per lo sfruttamento di quattro brevetti prodotti dalle ricerche del professor Gilardi, che lavorava proprio all’Imperial College prima di ritornare a Torino nel 2002.

L’azienda si dedica per lo più al testing di metabolismo dei farmaci, settore già ben assestato e dall’ovvio potenziale economico, dato l’interesse che può rivestire per l’industria farmaceutica.

Una nuova linea di sviluppo interessante è lo studio dei polimorfismi, che mira a produrre profili del metabolismo degli enzimi P450 per i diversi gruppi etnici.

Infatti se un nuovo farmaco viene sperimentato su gruppi di pazienti caucasici, come normalmente avviene negli Stati Uniti, non è detto che poi esso funzioni allo stesso modo, per esempio, sugli asiatici.

Un caso eclatante è stato quello di un farmaco per i malati di cuore, il BiDil prodotto dalla NitroMed, che negli anni 1980 era stato ritirato dopo che i test clinici avevano dato risultati insoddisfacenti.

In seguito però, riesaminando i dati clinici ed effettuando nuove prove, si è scoperto che il BiDil funziona bene per gli afro-americani, e nel 2004 la Food and Drug Administration USA, per la prima volta nella storia, ha approvato l’uso del farmaco esclusivamente da parte di quella parte della popolazione.

La NanoBioDesign britannica perciò si propone do fare biochip diversi per diversi gruppi etnici, muovendosi nella direzione più generale della medicina personalizzata, con farmaci e dosaggi tarati su ciascun paziente.

I biosensori per il monitoraggio ambientale

Intanto sta nascendo a Torino la NanoBioDesign Environment Italia, che si specializzerà invece nel settore del biorisanamento.

Infatti enzimi della stessa classe di quelli usati per il testing dei farmaci, ma questa volta di derivazione batterica, possono essere usati per la protezione ambientale.

Micro-leve per l’analisi quantitativa delle proteine Oltre a costruire biosensori capaci di monitorare lo stato delle acque e dei terreni, individuando le molecole delle sostanze inquinanti, si cerca di generare mutanti capaci di attaccare le sostanze tossiche trasformandole in sostanze neutre, non dannose.

Se questa ricerca avrà successo, la bonifica delle discariche di rifiuti tossici (un mercato che nei soli USA vale decine di miliardi di dollari all’anno) diventerà molto più semplice.

Invece di trasportare via il suolo contaminato per seppellirlo da qualche parte, a un costo enorme sia economico sia sociale, si potrà ricoprire il terreno con batteri che in un certo lasso di tempo lo ripuliranno.

L’azienda-madre britannica intende investire a Torino 2 milioni di euro, assumendo 6–8 ricercatori tramite l’università di Torino.

Anziché sviluppare un prodotto, come in Gran Bretagna, qui si intende offrire un servizio all’industria e agli enti pubblici.

Se il settore del biorisanamento avrà lo sviluppo atteso (e lo si capirà nell’arco di 3–5 anni) ci sono buone prospettive di creare molti posti di lavoro, specialmente per tecnici che lavoreranno al monitoraggio e alle analisi sul campo.

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