Dossier

Progetto NIS, Nanostructured Interfaces and Surfaces

Curiosando tra le attività…

Top down e bottom up

Una caratteristica delle nanotecnologie è l’esistenza di due possibili approcci alternativi per creare strutture molto piccole: «dall’alto» (top down) oppure «dal basso» (bottom up).

Nell’approccio top down si rimuove materiale, di solito tramite raggi laser, fino a quando rimangono le strutture desiderate.

Questo metodo litografico, tipico della fisica dello stato solido, ha avuto storicamente grande successo, rendendo possibile in primis lo sviluppo della microelettronica con la realizzazione di circuiti integrati sempre più piccoli.

Un nano-omaggio a Feynman Tuttavia la fotolitografia richiede apparecchiature grandi e costose, e oltre una certa risoluzione non può andare: quando si arriva al di sotto dei 100 nanometri, gli effetti di diffrazione diventano dominanti per le lunghezze d’onda dei laser oggi disponibili, impedendo di realizzare dispositivi con una strutturazione che vada al di sotto di quella soglia.

Invece nell’approccio bottom up (che è quello tipico della chimica e sviluppato nell’ambito del progetto NIS) la realizzazione di strutture complesse, le cui proprietà si distinguono da quelle dei singoli elementi costituenti, avviene attraverso l’aggregazione e organizzazione di unità semplici come le molecole.

A partire da singole molecole (con dimensioni dell’ordine di 1/10 di nanometro) si possono generare aggregati supramolecolari via via più grandi che possono presentare proprietà del tutto nuove ed estremamente interessanti.

Il vantaggio di questo approccio è che non richiede la disponibilità di dotazioni strumentali eccessivamente costose, mentre la difficoltà sta nel fatto che si ottengono risultati fortemente dipendenti da parametri come la tipologia dei reagenti, i tempi di reazione, la temperatura e la pressione. Perciò la preparazione del materiale desiderato va messa a punto ogni volta in maniera specifica.

Nanotubi e sostanze composite

Materiali compositi oggi molto diffusi sono quelli che contengono fibre di carbonio: queste non sono usate soltanto per la chiglia di Luna Rossa o per le pastiglie dei freni della Ferrari, ma anche per oggetti di uso quotidiano come i caschi da motociclista o i telai delle biciclette.

La presenza delle fibre all’interno di matrici polimeriche, metalliche o filati a base di carbonio, conferisce al prodotto finale migliori proprietà di resistenza meccanica, senza incidere sul peso. In questo ambito le possibilità di innovazione sono molteplici.

Un esempio nell’ambito dei compositi carbonio-carbonio è quello in cui operano anche aziende piemontesi del tessile avanzato.

L’attuale tecnologia prevede di partire da un tessuto formato da fili di carbonio (ottenuti da carbonizzazione di fibre polimeriche) e quindi di impregnarlo con una resina polimerica, per poi riscaldare il tutto a temperature di 1500–2500°C.

Durante questo trattamento termico la resina, ormai diventata un materiale carbonioso, si intreccia saldamente alle fibre del tessuto producendo un composito dotato di ottime proprietà meccaniche.

Ovviamente la necessità di utilizzare temperature così alte e l’uso di molecole piuttosto costose come “reticolanti” ha spinto alla ricerca di soluzioni alternative.

Nanotubi di carbonio In una delle linee di attività del NIS si sta esplorando la possibilità di sostituire il “reticolante” con nanofibre cave di carbonio, ancora più leggere e resistenti. Ne risulterebbe un materiale composito nuovo e di grande interesse, per esempio per applicazioni nel settore aeronautico.

La produzione delle nanofibre o “nanotubi” avviene con un processo catalitico di de-idrogenazione di un idrocarburo (per esempio il metano) da parte di un metallo. Grazie alla catalisi il processo può avvenire già a 600°C, consentendo perciò un notevole risparmio nel ciclo industriale.

Nuovi materiali compositi carbonio-carbonio La figura sperimentale qui a fianco mostra la «lanuggine» di nanotubi ancorata alle fibre di carbonio usate per produrre il tessuto. Si osservi che le fibre hanno un diametro di alcuni µm, mentre i nanotubi sono estremamente più piccoli.

Il materiale composito è dunque il risultato di un’integrazione tra micro- e nano-tecnologie. Su questa innovazione è in corso di deposito un brevetto congiunto con la Divisione FTS degli Stabilimenti Tessili Ozella.

Nanofibre e neuroscienze

Le nanofibre di carbonio, che sono anche buoni conduttori dell’elettricità, possono avere applicazioni importanti anche in biologia.

Uno degli obiettivi della ricerca in questo settore è la produzione di elettrodi finissimi, veri e propri nano-aghi, che consentano di misurare direttamente l’attività elettrica nelle sinapsi, le zone di collegamento tra i neuroni dove avviene la trasmissione degli impulsi nervosi.

La sfida non è banale perché richiede di realizzare fibre di pochi nanometri di diametro che siano non soltanto dotate di una punta, ma anche rivestite di una guaina isolante.

Esempi come questo indicano che lo sviluppo delle nanoscienze oggi è indispensabile per poter fare ricerca di avanguardia in medicina e in biologia.

Superfici autopulenti

Tra le applicazioni delle nanotecnologie c’è anche una nuova generazione di intonaci che hanno la capacità di non sporcarsi, o meglio si puliscono da sé quando si sporcano al contatto con l’aria che contiene particelle di “particolato”.

Cementi autopulenti Per ottenere questo risultato si producono cementi bianchi dotati di nanoporosità e preparati in modo tale che lo strato superficiale delle pareti sia simile a una spugna riempita di particelle di biossido di titanio.

In presenza di luce e di ossigeno queste nanoparticelle «bruciano» fotochimicamente le molecole degli idrocarburi che dall’aria si attaccano alle pareti, sporcandole.

Lo stesso effetto distruttivo si ha sui microrganismi trasportati dall’aria; i cementi autopulenti sono perciò particolarmente indicati per le strutture ospedaliere, dove contribuiscono a eliminare i batteri presenti nell’ambiente.

In Giappone prodotti di questo genere sono già in commercio. In Italia le più grandi aziende produttrici di cemento, come la Italcementi e la Buzzi Unicem di Casale Monferrato, partecipano attivamente alle ricerche in questo settore.

Sulle orme dei Maya

Il blu Maya

L’indaco è un pigmento di origine vegetale utilizzato per fare il colore blu; oggi per esempio è il colorante usato nella produzione dei blue jeans.

Nell’America precolombiana i Maya scoprirono che il colore dell’indaco diventa permanente, cioè non si deteriora chimicamente nel tempo con l’esposizione alla luce e all’ossigeno, se si fa bollire l’indaco insieme a una certa argilla.

Riprodurre il blu Maya con le nanotecnologie Ora si sa che ciò è dovuto alla porosità dell’argilla, che incapsula e protegge le molecole di indaco in minuscoli interstizi.

Con le nanotecnologie si cerca di replicare questo fenomeno applicandolo per esempio nel settore tessile, per produrre indumenti colorati che non causino allergie, oppure nel settore della grafica, per rendere più durevoli le immagini prodotte dalle stampanti a getto d’inchiostro.

L’effetto SERS, una «lente spettroscopica»

Il vetro colorato Le finestre delle cattedrali devono i loro colori alla presenza nel vetro di minuscole particelle metalliche (per esempio oro, argento o rame), che interagiscono con lo spettro della luce solare assorbendo selettivamente la radiazione di alcune frequenze ma non di altre.

Nei primi anni 1970 si è scoperto un fenomeno qualitativamente simile e di grande utilità per le analisi spettroscopiche: se su una superficie si depositano nanoparticelle metalliche, per esempio gruppi di atomi d’oro, il campo elettrico dell’onda elettromagnetica incidente aumenta notevolmente.

Questa amplificazione del segnale o effetto SERS (surface-enhanced Raman scattering) costituisce una specie di lente di ingrandimento spettroscopica, che consente di identificare i composti chimici con sensibilità molto maggiore rispetto al passato.

La spettroscopia Raman funziona anche in acqua, e si può quindi applicare ai sistemi biologici.

Un obiettivo ideale sarebbe allora la realizzazione di un kit diagnostico che consenta di analizzare i campioni in presenza di nanoparticelle opportunamente organizzate, così da riuscire a identificare spettroscopicamente le singole molecole presenti all’interno delle cellule.

Per raggiungere questo scopo, però, occorre imparare a realizzare in modo riproducibile e possibilmente non eccessivamente costoso, le nanostrutture che producono l’effetto SERS.

Una nevicata d’oro sulle punte

La capacità di modellare accuratamente le nanostrutture è importante perché le ricerche hanno dimostrato che l’effetto SERS aumenta con la curvatura del nanocristallo usato.

Due particelle d’oro unite tra loro sono più efficaci nell’amplificare il segnale rispetto a due particelle separate. E ancora più efficace risulta essere un filare di particelle, oppure un frattale a forma di stella.

La struttura ideale dovrebbe essere appuntita, perché in prossimità delle punte il campo elettrico si addensa; ma realizzare cristalli d’oro di forma molto elongata risulta assai difficile.

Un “riccio” di ossido di zinco per le nanotecnologie Si sta perciò esplorando la possibilità di usare come base ossidi metallici (di zinco o di titanio) che facilmente formano cristalli ricchi di cuspidi, per poi cospargerli con una «nevicata» di atomi d’oro prodotta per evaporazione.

Per questo lavoro i ricercatori del progetto NIS collaborano con la Ferrania, azienda che ha una lunga esperienza nella realizzazione di cluster d’argento per le pellicole e che, dopo l’avvento della fotografia digitale, ha tutto l’interesse a diversificare le proprie attività verso le nuove tecnologie.

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