Amedeo Conti: il punto di vista della ricerca
Amedeo Conti è responsabile del progetto «Sicurezza alimentare» del Dipartimento agroalimentare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) a Torino.
Dottor Conti, spesso la differenza tra intolleranze e allergie alimentari non è ben chiara neppure tra gli addetti ai lavori: perché?
In effetti la questione è piuttosto controversa (almeno in alcuni casi) anche tra gli addetti ai lavori. L'unica vera discriminante è il coinvolgimento o meno del sistema immunitario. Perciò, a rigore, tutte le volte che viene coinvolto il sistema immunitario si dovrebbe parlare di allergia. Tra le varie forme di allergia si possono poi distinguere quelle «IgE mediate» (che coinvolgono in modo importante le immunoglobuline di tipo E e sono anche le più diffuse) e quelle «non IgE mediate». La celiachia, in particolare, coinvolge il sistema immunitario (seppure non le IgE ma le IgG), quindi da questo punto di vista dovrebbe essere considerata come una forma di allergia. Ma comporta anche un deficit enzimatico (a differenza delle allergie IgE mediate) e quindi, da questo punto di vista, è assimilabile alle intolleranze alimentari. La celiachia è comunque completamente diversa da una semplice intolleranza: ha conseguenze più gravi e ha basi molecolari differenti. Nell’insieme, dunque, è più un'allergia.
Cos'è un allergene alimentare?
Un allergene alimentare è una proteina contenuta in un alimento, nei confronti della quale i soggetti predisposti hanno una reazione avversa.
Quanti tipi di allergeni esistono?
Quantificarli è impossibile. Quelli noti sono già molti, sia di origine animale che di origine vegetale. Molto più studiati sono quelli di origine vegetale. Ne vengono comunque scoperti in continuazione.
Qualcuno li raggruppa in categorie (es. allergeni completi, elicitatori senza sensibilizzazione, non elicitatori...): di che si tratta?
Sono distinzioni introdotte per lo più a scopo didattico, nel tentativo di fare un po' di chiarezza. In realtà non è mai stato trovato un minimo comune denominatore tra tutti gli allergeni, per cui alcuni hanno determinate proprietà, altri ne hanno di opposte. Così, ad esempio, gli allergeni «completi» funzionano in modo bi-fasico: al primo contatto inducono una sensibilizzazione IgE mediata (senza manifestazioni cliniche), dal secondo contatto in poi (grazie alla sensibilizzazione precedente) sono in grado di legarsi alle IgE specifiche e scatenare le reazioni avverse. Ci sono però anche allergeni «elicitatori senza sensibilizzazione», che provocano l’allergia già al primo contatto perché si legano a IgE specifiche preformate da altri allergeni e molto simili alle proprie (si parla, in tal caso, anche di «cross-reattività» tra alimento e alimento o tra polline e alimento); e, ancora, gli allergeni «non elicitatori», che si legano a IgE specifiche ma senza dare manifestazioni cliniche. Oggi cerchiamo di mettere assieme tutte queste conoscenze, soprattutto per formulare delle previsioni ed evitare errori commessi in passato, ad esempio con i primi ogm: alcuni cibi transgenici davano allergia perché contenevano proteine molto simili ad altri allergeni noti; se fossero stati sottoposti a confronti preliminari, si sarebbe scoperto subito che alcuni erano da evitare e che bastava introdurre piccole modifiche per evitare il peggio.
In tutto questo che ruolo ha la proteomica, cioè lo studio delle diverse forme di espressione delle proteine?
Ha un ruolo fondamentale. Perché è l'unica tecnica che consente di distinguere, in uno stesso «estratto allergenico», le proteine davvero irritanti da quelle innocue e poi caratterizzarle in dettaglio. In passato sono stati presi seri abbagli, perché si analizzavano grandi gruppi di proteine senza riuscire a distinguerle tra loro. Sicché si tendeva a dire che la proteina presente in maggiore quantità nel gruppo (quella «più espressa») era sicuramente l'allergene. Invece poi si è scoperto che il vero pericolo veniva dalla proteina espressa in quantità minore. L'allergenicità infatti non è assolutamente legata alla quantità di proteine presenti, ma soprattutto alla loro forma e composizione.
Le ricerche più promettenti si concentrano sui cosiddetti «epitopi», i siti presenti sulle proteine che permettono agli anticorpi IgE di riconoscerle come allergeniche e legarsi ad esse. Di che si tratta?
Sono studi molto complessi, anche perché esistono due tipi diversi di epitopi: quelli «lineari», cioè determinati da segmenti di proteina contigui, e quelli «conformazionali», che derivano dall'avvicinamento di tratti di proteina distanti tra loro linearmente ma divenuti contigui a causa del ripiegamento nello spazio della stessa catena proteica. In questi casi la proteina non è una catena distesa, ma è raggomitolata in vario modo. Gli epitopi conformazionali sono i più difficili da studiare, perché basta poco per alterare la forma originale della proteina allergenica (ad esempio, riscaldarla) e, in definitiva, perdere l'epitopo che si intende studiare. Questo vale soprattutto per gli allergeni respiratori, perché quelli alimentari vengono comunque trasformati durante la digestione e quindi a dare allergia sono soprattutto gli epitopi lineari di catena (l’alterazione della forma proteica tridimensionale conta poco o nulla).
Il lavoro sugli epitopi potrebbe portare anche a una cura delle allergie?
Più che a una cura, alla prevenzione. Questo è il vero punto di forza delle ricerche sugli epitopi, che mirano a capire come modificare i siti “di aggancio” in modo da non alterare le proprietà nutrizionali e biologiche della proteina, ma ridurre o possibilmente eliminare la reazione allergica.
Perché, secondo lei, le allergie alimentari sono in aumento?
In effetti l'aumento c'è, ma lieve e dunque è minore di quanto si senta dire in giro. All’origine ci sono soprattutto le modificate abitudini alimentari: oggi abbiamo tutti accesso a cibi sconosciuti fino a poco tempo fa o, comunque, non a portata di mano. È il risultato della globalizzazione dei mercati, ma anche della presenza di flussi migratori con differenti abitudini alimentari. Si prenda, ad esempio, il caso del sesamo: in Italia l'allergia al sesamo era rarissima e ora è in aumento, proprio perché l’allergene è più diffuso (in quasi tutti i negozi, ormai, è possibile comprare pane e grissini ai semi di sesamo). Il risultato epidemiologico è un allargamento (più che un aumento numerico) delle possibili reazioni allergiche.
A proposito di questi ingredienti "nuovi", c'è un'incidenza diversa delle reazioni allergiche tra le popolazioni dove sono sempre stati presenti e quelle in cui invece sono stati importati di recente?
C'è una teoria, che va sotto il nome di «teoria dell'igiene», secondo la quale l’aumento dei disturbi del sistema immunitario registrato nei Paesi occidentali potrebbe essere dovuto a fattori genetici, ma anche ambientali, legati soprattutto alla maggiore igiene rispetto al passato e alle popolazioni in via di sviluppo. Secondo tale teoria la maggiore igiene comporta minori contatti con i microbi e, in definitiva, meno occasioni di allenamento per il sistema immunitario. Inizialmente questa spiegazione pareva un po' azzardata e non godeva di grande credito, ora invece pare abbia basi scientifiche reali.