“Io mi fermo al chilometro 90.000, e lei?”
Può sembrare un approccio da romanzo di fantascienza, in realtà, da anni, diversi ricercatori sono impegnati nella sfida, lanciata già nel lontano 1895 dallo scienziato russo Konstantin Ciolkovskij e ripresa poi con vigore nel 1957 dal suo concittadino Jurij Artsutanov, di realizzare un ascensore spaziale.
Si tratterebbe di ascensore destinato a portare in orbita astronauti e carichi, in sostituzione delle navette spaziali tipo Shuttle. Immaginate quindi una struttura dotata di un cavo lungo decine di migliaia di chilometri, che a differenza dei normali ascensori sarebbe fisso, con una cabina che si arrampica su di esso.
Artsutanov immaginò per primo la necessità di avere quattro elementi fondamentali per realizzare il progetto: una stazione a terra, un cavo, un climber e un contrappeso, che lui immaginava potesse essere un asteroide da posizionarsi oltre l’orbita geosincrona. L’interazione tra forza gravitazionale e centrifuga oltre una certa distanza dalla superficie terrestre avrebbe contribuito a mantenere il cavo perfettamente teso.
Il problema maggiore era rappresentato dal materiale con il quale realizzare il cavo: nessuno di quelli conosciuti all’epoca aveva la necessaria resistenza.
Nel 1975 toccò allo scienziato americano Jerome Pearson cimentarsi con l’dea dell’ascensore spaziale, proponendo un cavo più spesso al centro di massa, dove si registrava la maggior tensione, e più stretto alle estremità, e suggerendo di posizionare il contrappeso a 144.000 chilometri dalla superficie terrestre.
In anni più recenti è stato sempre un americano, Bradley Edwards, a dedicarsi con passione a un progetto dettagliato, fino a prevedere lo scenario completo della costruzione. La sua proposta prevede la creazione di un nastro sottile come la carta e lungo 100.000 chilometri, in grado di resistere a eventuali impatti con meteoriti.
Anche nel progetto proposto da Edwards il più grande impedimento tecnologico rimane il limite imposto dal materiale di cui dovrebbe essere formato il cavo. Nemmeno con le nanotecnologie si è riusciti a riprodurre in laboratorio una fibra che abbia il carico di rottura minimo necessario.
Inoltre, Edwards, responsabile per la NASA del progetto, ha trascurato il ruolo dei difetti sulla resistenza del cavo. Un errore che porterebbe il cavo a rottura certa, stando ai calcoli rigorosi, pubblicati su Nature nel 2007, effettuati da Nicola Pugno, professore al Politecnico di Torino e fondatore del Laboratory of Bio-inspired Nanomechanics "Giuseppe Maria Pugno".
La chiave di volta per progettarlo è quindi quella di valutare il difetto più critico che ci si può aspettare al suo interno e realizzarne uno «flaw-tolerant» - tollerante alla presenza del difetto: il cavo deve operare a una tensione di poco minore a quella necessaria per fare propagare il difetto stesso. E' una soluzione ispirata a quella con cui la Natura progetta i materiali biologici, come le ossa.
In questo senso si è orientato il progetto di ricerca triennale, dal 2008 al 2010, di Pugno, che è diventato oggi il modello di riferimento universalmente adottato dalla comunità scientifica per il progetto del cavo a base di nanotubi e che gli è valso la vicepresidenza della Eurospaceward Association presieduta dallo stesso Edwards.
Ma la sfida continua, l’ultimo lavoro del ricercatore torinese, pubblicato da Acta Astronautica, e che ha già ricevuto l'Honorably Mention nella 2011 Artsutanov Award Competition, presenta, infatti, i risultati dei calcoli sulla resistenza di un cavo di elevatore spaziale a base di grafene, materiale 100 volte più resistente dell’acciaio pur essendo 10.000 volte più sottile di un capello, che dimostrano che questo dovrebbe possedere una resistenza circa doppia rispetto a quello a base di nanotubi.
Il sogno di Artsutanov di ieri potrebbe domani diventare realtà.