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Piergiorgio Odifreddi: quando gli italiani litigano per assistere a una lezione di matematica...

Piergiorgio Odifreddi, noto ai più come divulgatore e «matematico impertinente» (dal titolo di un suo libro del 2005), è in realtà uno scienziato molto impegnato sia a livello di ricerca che di insegnamento accademico. La sua ultima “impresa” è il Festival della matematica di Roma, il primo mai realizzato in Italia e in Europa, svoltosi dal 15 al 18 marzo scorsi.

Piergiorgio OdifreddiPiergiorgio Odifreddi, tra il 1983 e il 2005 ha tenuto 82 corsi diversi in Italia e negli Stati Uniti, alla Cornell University. Attualmente è ordinario di Logica matematica a Torino. Il suo campo di ricerca privilegiato è la «teoria della ricorsività», alla quale ha dedicato gran parte delle pubblicazioni scientifiche. Oltre a scrivere articoli su riviste e quotidiani nazionali, ha dato alle stampe più di una dozzina di libri divulgativi, che gli hanno spesso fruttato aspre critiche ma anche ampi consensi. È un personaggio che divide, soprattutto per la sua audacia nel sostenere tesi politically uncorrect, che «magari pensano in molti, ma nessuno osa dire pubblicamente». La sua ultima “impresa” è il Festival della matematica di Roma, il primo mai realizzato in Italia e in Europa, svoltosi dal 15 al 18 marzo scorsi.

Professor Odifreddi, nell’Annuario 2007 dell’Associazione Observa, science in society si legge che «l’atteggiamento dei giovani italiani verso la scienza appare improntato a un’ambivalenza quasi schizofrenica» per cui da un lato impazziscono per il sudoku e smanettano con disinvoltura su pc e cellulari, ma dall’altro si iscrivono sempre meno alle Facoltà scientifiche. Cosa ne pensa?

Non posso pensare: questi sono i dati e dunque la realtà è questa. ragazzini con cellulari D'altronde ad avere questo problema non sono solo i ragazzi, ma un po' tutti gli italiani: vivono in una società tecnologica, che di per sé richiede conoscenze scientifiche e tecniche, e allo stesso tempo non sono interessati a quello che la scienza fa, ai suoi risultati e alle sue problematiche. Per quanto riguarda la questione più specifica del calo delle iscrizioni alle Facoltà di matematica, purtroppo la tendenza è comune a tutto il mondo occidentale: negli Stati Uniti già 25 anni fa gli iscritti ai corsi di matematica, informatica e altre materie scientifiche erano per lo più cinesi o indiani; gli americani preferivano andare a fare i medici o gli avvocati. Credo che oggi la situazione in Italia sia più o meno simile. Alle volte scherzo e dico che il calo delle iscrizioni alle Facoltà scientifiche è dovuto al fatto che i giovani non hanno voglia di lavorare: solo scegliendo di laurearsi in discipline come Scienze della comunicazione sono sicuri che non lavoreranno mai, perché, se si iscrivono a Matematica, dopo 6 mesi dalla laurea metà di loro troverà un impiego e dopo 12 mesi ce l'avranno tutti.

Insomma, secondo lei, dietro al calo delle "vocazioni scientifiche" ci sarebbe soprattutto la poca voglia di faticare...

Sicuramente le Facoltà scientifiche richiedono più impegno ed energie, con esami più complicati e argomenti più impegnativi. È chiaro, d’altronde, che è più facile studiare la critica di un romanzo, perché è materia più malleabile ed elastica (qualcosa si può anche improvvisare), mentre nelle Facoltà scientifiche il sapere è più organizzato e barare diventa più difficile. I risultati devono essere esatti, non si discute.

Indubbiamente le formule e i teoremi della matematica non si possono inventare lì per lì...

Certo, ma non mi riferisco solo a questo: in matematica la capacità di imparare a memoria non è essenziale. Direi che è più importante per materie come anatomia, medicina o diritto, dove occorre memorizzare interi tomi di dati. In matematica, così come in altre discipline scientifiche, solo chi capisce davvero (e dunque non chi impara a memoria) è avvantaggiato, perché la scienza è anzitutto organizzazione: si tratta di imparare i meccanismi di base e poi applicarli. Certo è che lo studio delle scienze richiede uno sforzo continuo e, purtroppo, oggi i ragazzi riescono a mantenere desta l’attenzione solo per 6-7 minuti.

C’è una predisposizione individuale per lo studio della matematica?

runner Credo che in parte un po' ci sia. Ma esattamente come per correre i 100 metri: la pre-condizione iniziale è avere due gambe (se uno è un po' zoppo o sulla sedia a rotelle è destinato a fallire in un confronto con persone normo-dotate). È dunque un aspetto “minimale”: credo che, salvo casi eccezionali, l'intelligenza per fare matematica ce l'abbiano tutti. Il problema è che la stragrande maggioranza della gente non sviluppa questa attitudine o la sviluppa “fuori tempo”. Nel 1993 Howard Gardner, psicologo americano, elaborò la «teoria delle intelligenze multiple»: tutti noi ne avremmo a disposizione diverse tipologie. Oggi sappiamo che il primo tipo che si sviluppa nei bambini, verso i 3-4 anni, è l'intelligenza musicale. Chiunque di noi ha avuto modo di osservare i bambini sul seggiolone, in procinto di mangiare: spesso si mettono a percuotere il piattino con il cucchiaio seguendo un certo “ritmo”. L'ultima forma di intelligenza che si sviluppa è quella logico-deduttiva e matematica: compare verso i 13-14 anni, quindi alla fine delle scuole medie inferiori. Ciò significa che per i primi 8 anni di insegnamento sia lo studente che l’insegnante fanno molta fatica. Sicuramente occorrerebbe tenerne conto nei piani di studio e nei metodi di insegnamento. Purtroppo lo si fa poco: per questo c'è spesso una reazione di rigetto tra i ragazzi.

Secondo lei in Italia l’insegnamento delle discipline scientifiche è buono da un punto di vista metodologico?

In generale non credo sia negativo. L’insegnamento della matematica, però, è ancora molto noioso e meccanico. Prevale il metodo mnemonico, per cui a lezione si insegna un teorema e poi all'esame si pretende che l'allievo ne abbia imparato a memoria la dimostrazione. In altre realtà, come gli Usa, si batte molto più sul chiodo della risoluzione dei problemi e sul fare esercizi. Così, mentre negli Stati Uniti all’Università si danno i compiti agli studenti ogni settimana (corretti e giudicati dagli assistenti dei professori), da noi la verifica della preparazione si risolve in un’unica prova a fine anno (magari un esame orale). È chiaro che verifiche ripetute e sistematiche richiedono un notevole dispendio di tempo ed energie: in Italia nessun docente darà mai compiti tutte le settimane, se poi deve correggerli tutti da solo. Quando insegnavo alla Cornell University mi è capitato di avere un corso di 300 allievi, ma avevo anche 12 assistenti: a quelle condizioni si può anche distribuire un compito a settimana. Diversamente ci si limita, come accade adesso, a una sola prova l'anno. Forse l'Università italiana vive un po' al di sopra dei propri mezzi: non ha sufficiente personale, né risorse.

Per quanto riguarda, invece, il periodo in cui si sviluppa l'intelligenza matematica, cioè i 13-14 anni, l’insegnamento va meglio?

Direi proprio di no e, d’altronde, è esperienza comune. Tutti noi abbiamo ricordi più o meno traumatici di quel periodo scolastico, compresi coloro che come me sono poi diventati matematici. Per lo più l’esperienza scolastica di quel periodo è legata a un certo fastidio o (nella migliore delle ipotesi) è priva di nostalgia. Credo che ciò si debba proprio alla scarsa qualità dell’insegnamento. simboli matematici Anzitutto occorrerebbe cambiare i metodi e capire che, poiché nel bambino o nell'adolescente non si è ancora sviluppata l'attitudine matematica, non gli si può infliggere un lezione tradizionale (che pure va bene in altri ambiti). Bisogna introdurre un approccio più ludico, che è poi quello che abbiamo proposto al Festival di Roma. Giovanni Filocamo, ad esempio, per tre giorni ha fatto lezione sulla matematica di Harry Potter. Poiché i bimbi vanno matti per quei libri, sfruttarli per far passare certe informazioni consente di arrivare vicini al risultato più che rifilare loro calcoli dalla mattina alla sera. Naturalmente c'è anche l'altra faccia della medaglia, per cui solo certe cose si possono insegnare in modo “leggero” e divertente. Dunque anche i contenuti vanno studiati in maniera approfondita. Solo a questo punto, agendo a tenaglia sia sul metodo che sui contenuti, si può arrivare a un insegnamento non traumatico.

D’altronde, sempre dalle indagini dell’Osservatorio «Scienza e società» risulta che i ragazzi italiani sono tra i peggiori al mondo per competenze matematiche...

Vero. Purtroppo in Italia, pur avendo ospitato la scuola pitagorica in Magna Grecia e aver avuto geni come Galileo o Leonardo, abbiamo anche avuto ministri della pubblica istruzione come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. «La gente pensa che io non sappia nulla di scienza», diceva Croce, «ma si sbagliano, perché ne so molto meno di quanto credano». E se ne vantava! Ancora oggi, d’altronde, i filosofi continentali si ispirano ad Heidegger, secondo il quale «la scienza non pensa» e «il pensiero inizia dove la scienza finisce»: questo è purtroppo un pensiero dominante anche in Italia. Non a caso il celebre detto «italiani, popolo di santi, poeti e navigatori» non comprende gli scienziati...

Perché è, invece, importante comunicare la scienza al pubblico più vasto?

Intanto perché la gente non sa che le cose stanno così, e in alcuni casi arriva a pensare che la matematica sia un proseguimento della “violenza intellettuale” inflitta con altri mezzi. La divulgazione ha proprio lo scopo di dimostrare che certe materie non sono ostiche come si pensa, ma possono essere divertenti e accattivanti. Noi crediamo che l'interesse culturale stia in quanto segnalano i giornali e i mass media; in realtà i mezzi di comunicazione di massa sono in mano agli umanisti, che non hanno alcuna curiosità e attitudine per la scienza, per la matematica meno che mai. Così lasciano un grande vuoto informativo. E questo è veramente pericoloso, perché viviamo in un mondo intriso di scienza e tecnologia e pretendiamo di interpretarlo con una chiave di lettura adatta al passato: da qui si origina l’atteggiamento schizofrenico di cui parlavamo sopra.

Gli scienziati sono buoni divulgatori?

Questo è un altro punto dolente. In Italia fare divulgazione è considerato quasi uno svilimento della professione. Io stesso ricevo epiteti come «tu ormai sei un giornalista», quasi fosse un insulto. All'estero tra gli scienziati c'è una maggiore tradizione della divulgazione. cerimonia Nobel È abbastanza frequente che un premio Nobel, dopo aver ricevuto il prestigioso titolo, pubblichi un libro in cui descrive le proprie teorie e la propria esperienza scientifica. D’altronde, con il passare degli anni anche i Nobel abbandonano la ricerca, per altri impegni ma anche perché non hanno più le capacità necessarie per farla (la matematica, ad esempio, richiede enorme concentrazione mentale e fisica): così, arrivati a un certo punto della carriera, può essere una buona soluzione non sprecare le conoscenze acquisite e cercare di trasmetterle al pubblico più vasto. E sicuramente c'è n’è un gran bisogno: la gente si butta a capofitto nei vari Festival della scienza perché ha voglia di capire.

Ma in Italia, soprattutto nel mondo universitario, c'è molta diffidenza (se non aperta ostilità) nei confronti dei pochi che "si sporcano le mani" e fanno divulgazione. Come cambiare questa mentalità?

Proprio in occasione del Festival di Roma i Dipartimenti di matematica delle tre Università locali hanno fatto una levata di scudi contro l’iniziativa. Innanzitutto erano offesi perché il Festival era organizzato da un professore torinese anziché da un romano, in secondo luogo erano arrabbiati perché avevamo invitato i grandi nomi della matematica mondiale, cioè premi Nobel e medaglie Fields, e nessun italiano. Per la verità avrei potuto invitare Enrico Bombieri, l’unico connazionale che abbia mai ottenuto la medaglia Fields (nel 1974), ma quando gliel’ho chiesto mi ha detto che a marzo non poteva venire. Invitare altri italiani per puro “campanilismo” sarebbe stato come organizzare un Festival del cinema invitando le comparse di Cinecittà anziché i premi Oscar. È difficile che la gente partecipi a una manifestazione del genere. D’altronde alla diffidenza si aggiunge spesso l'invidia, perché inevitabilmente chi si “sporca le mani” raggiunge un po' più di notorietà sui giornali, in tv e nelle classifiche dei best seller.

Magari, insistendo sull'offerta divulgativa, si riesce non solo ad ampliare la domanda del pubblico ma anche a ridurre lo sdegno degli scienziati...

Credo di sì. Sempre a proposito del Festival romano, molti colleghi si sono poi ricreduti. Subito pensavano fosse un'iniziativa folle, poi però quando hanno visto le pagine dei quotidiani piene di articoli dedicati alla matematica e testi firmati da matematici (le principali testate nazionali si sono contese le lectio magistralis di Andrew Wiles, Michael Atiya, Alain Connes e Benoit Mandelbrot), hanno capito che certe iniziative danno visibilità insperata a una materia da sempre considerata la Cenerentola delle discipline scientifiche.

Che bilancio fa di questo primo Festival italiano della matematica?

Credo che sia andato oltre le aspettative. La mia pietra di paragone era il Festival delle scienze, perché il luogo era lo stesso e più o meno c'era la stessa concezione degli spazi. Ebbene, il Festival delle scienze era durato una settimana e aveva avuto 40 mila presenze, noi in tre giorni e mezzo abbiamo avuto 53 mila visitatori. Siamo rimasti letteralmente spiazzati. Andrew Wiles Per esempio, alla conferenza inaugurale tenuta da Andrew Wiles, il matematico che ha dimostrato il teorema di Fermat, c'erano 1.500 persone nell'aula, ma 2.000 sono rimaste ad ascoltarlo fuori. Nel caso di John Nash, premio Nobel per l'economia noto anche per essere stato interpretato al cinema da Russel Crowe nel film «A beautiful mind», la maggiore affluenza di pubblico era prevedibile, ma certo non ai livelli raggiunti quella sera: c'erano 3.000 persone in sala e 2.000 fuori (che lo hanno poi seguito su maxi schermo). Molti saranno venuti a vederlo per curiosità, però Nash è e resta un matematico, dunque buona parte della serata ha parlato di ciò che lui ha fatto in ambito scientifico. E c'era un silenzio di tomba, non si sentiva volare una mosca.

Chi è stato il visitatore medio?

I “visitatori medi”, come le “persone medie”, non esistono: sono combinazioni teoriche di qualità, che poi non si trovano mai in una persona reale. Ci sono stati, in realtà, visitatori diversissimi: bambini che hanno seguito i racconti di Filocamo sulla matematica di Harry Potter e i giochi di prestigio di Ennio Peres; adulti curiosi che hanno visitato «Matefitness» (la “palestra” della matematica dove si scoprivano regole e formule applicate alla vita quotidiana) e le mostre dedicate ai 150 anni di storia della matematica italiana, al teorema di Pitagora e all'interazione tra architettura e natura nelle opere del cileno Victor Simonetti. Ma ci sono stati anche molti studenti liceali e universitari, che hanno ascoltato con interesse le conferenze più divulgative, come quella di Douglas Hofstadter. Infine c'erano molti matematici e colleghi venuti da tutta Italia: parecchi di loro non avevano mai incontrato personaggi di quel calibro, pur avendo studiato a fondo le loro teorie. E poi devo dire che anche le istituzioni si sono mostrate molto attente: a parte Walter Veltroni, che era l'organizzatore e l'ideatore del Festival, siamo stati anche ricevuti dal Presidente della Repubblica, mentre la mattina dell'inaugurazione è venuto a farci visita il ministro dell'Università e della ricerca, Fabio Mussi. Insomma, c'è interesse anche "in alto" e questo è davvero un ottimo segnale, perché la revisione di programmi di studio, di cui parlavamo prima, deve passare da lì.

John NashCosa le ha detto John Nash nella vostra intervista?

Lui ha parlato anzitutto dei risultati che ha raggiunto nella prima parte della sua vita. Ha raccontato, ad esempio, di quando è andato a spiegare ad Einstein le proprie ricerche sulla gravitazione; il grande genio gli rispose: «Giovanotto, sarà bene che lei studi un po' di più!». Naturalmente Nash ha parlato a lungo anche della sua malattia. Durante l’intervista ho fatto passare alcuni filmati, tra cui uno spezzone di «A beautiful mind». Nash ha rivelato che in realtà non ha mai avuto allucinazioni visive, come suggerisce il film: lui sentiva solo delle voci e ha spiegato di essere guarito quando, dopo decenni, ha deciso che non voleva più sentirle. In pratica è stato un caso più unico che raro di auto-guarigione. Con la sua testimonianza ha dimostrato che la sanità mentale è anche «voler essere sani», per cui è sano anzitutto chi vuole esserlo. Credo che sia un messaggio importante: la guarigione delle malattie mentali non è affidata solo ai medici e ai farmaci, ma anche e soprattutto all’azione dei singoli su se stessi.

Alain ConnesQuali sono stati gli interventi più interessanti?

A parte quelli che ho già citato, a me è piaciuto particolarmente quello di Alain Connes, matematico francese e medaglia Fields, che ha parlato di un legame «eretico» (come lo definisce lui) tra matematica e fisica. E ha illustrato una teoria, sviluppata appunto da lui, che arriva a fare previsioni molto precise sulla massa della particella di Higgs, che verrà “testata” alla fine del 2007 o nel 2008 con il nuovo acceleratore costruito in Svizzera. Mi è parso un discorso da candidatura al premio Nobel. Credo che se le misure empiriche di Ginevra coincideranno con quelle previste da Connes, effettivamente potrebbe aggiudicarsi anche il Nobel. Dal canto suo, il premio Pulitzer Douglas Hofstadter ha tenuto una conferenza che sembrava quasi un numero di prestigio. Ma sono stati sorprendenti anche gli spettacoli veri e propri, come la serata con il maestro Nicola Piovani (premio Oscar per la colonna sonora de «La vita è bella»), che ci ha fatto sentire una sua composizione basata sul numero 7, non ancora finita; o le divertenti canzoni sui numeri di Elio e le Storie Tese.

Ripeterete l'esperimento?

Credo proprio di sì. È quanto ha buttato sul tappeto lo stesso Veltroni durante l’incontro con il presidente Napolitano, annunciando che l'appuntamento sarà annuale. Adesso non so se a coordinarlo sarò chiamato di nuovo io, ma certo è che anche per loro è stata una sorpresa e una grande soddisfazione.

L'idea della prima edizione è partita proprio da Veltroni?

Auditorium Roma Sì, io non lo conoscevo neppure. So solo che, a un certo punto, lo scorso anno mi ha convocato e mi ha detto che da tanto tempo desiderava fare un Festival della matematica: alle scuole medie aveva avuto come insegnante la professoressa Castelnuovo (figlia di Guido Castelnuovo, famoso matematico di inizio '900), una di quelle poche docenti che riescono a instillare negli alunni l'amore per questa disciplina. Confesso che ero un po' scettico, perché un conto è fare un Festival della scienza in generale, comprendendo la fisica, la biologia, la medicina, la geologia... (qualcosa esce sempre fuori), un altro è pensare a una manifestazione legata solo alla matematica, per di più, con la nomea che questa materia ha in Italia. Per questo sono stato attento fin dall'inizio a puntare in alto: è sempre un buon metodo, perché se uno porta grandi nomi, almeno gli intenditori apprezzano. E poi ho mirato al lato ludico e spettacolare. La serata di apertura con Dario Fo, ad esempio, proponeva uno spettacolo dedicato alla prospettiva in architettura. Lo stesso incontro con John Nash strizzava l'occhio al pubblico cinematografico. Certo, sarebbe stato più semplice buttarsi su percorsi già battuti, ma ho voluto provare a mettere insieme l'elemento ludico e quello culturale. Così, ad esempio, Claudio Bartocci da Genova ha letto per un'ora al giorno brani di letteratura a ispirazione matematica (in parte scelti dalla sua antologia di «Racconti matematici»), mentre Ennio Peres ha illustrato un ampio campionario di giochi di prestigio basati su semplici trucchi matematici.

Pare che lei sia riuscito nell'arduo compito di riunire la cultura scientifica e quella umanistica...

D'altronde è da un po' di tempo che mi impegno in questa direzione. E non sempre nel modo in cui la gente vorrebbe. Spesso ho imboccato strade controverse. Come nel mio ultimo libro, dove entro in rotta di collisione con un certo “umanesimo”, ma almeno sono riuscito nell'intento di far riflettere il pubblico su certe tematiche: solo nelle prime due settimane ho venduto 60 mila copie. In passato mi sono occupato anche del rapporto tra matematica e arte: in «Penna, pennello e bacchetta» del 2005, ad esempio, ho parlato di letteratura, pittura e musica. E, ancora, dal mio libro «Il matematico impertinente» è stato ricavato uno spettacolo teatrale che sta girando l'Italia e che è sempre esaurito.

Evidentemente la gente apprezza anche la cultura "mista"...

Certo. Credo, d'altra parte, che i media abbiano una visione del pubblico molto inferiore alla realtà. A questo proposito faccio sempre un esempio matematico: se l'intelligenza è distribuita uniformemente e metà della gente ha un'intelligenza inferiore alla media, è pur vero che l'altra metà ha un’intelligenza superiore. E non si può assecondare sempre e solo la prima metà: a volte si può e si deve deviare. ressa Per assistere alla conferenza di Alain Connes la gente si è letteralmente picchiata: alcune decine di persone che avevano assistito alla conferenza precedente di Hofstadter non volevano più uscire dalla sala e hanno fatto infuriare quelli che aspettavano di entrare per il secondo turno. Ho anche cercato di calmare gli animi dicendo che chi fosse riuscito entrare avrebbe comunque capito poco: ciò nonostante è finita a pugni e spintoni. Non so quante volte si sia vista la gente picchiarsi per la matematica. L'interesse evidentemente è molto forte anche perché, ripeto, i mass media principali lasciano un vuoto enorme su questi argomenti.

Cosa pensa del progetto Science Center a Torino?

Spero che si faccia, anche se è da anni che se ne parla e, come diceva Niels Bohr, «fare previsioni è sempre difficile, soprattutto sul futuro». Credo sia un'iniziativa importante: vista la carenza degli altri media su questi fronti, gli science center, i festival e i musei permanenti sono percorsi complementari sempre più utili e indispensabili.

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