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Nuovo "data book" del CERIS di Torino sulla ricerca in Italia

Gli ultimi dati raccolti dal Ceris-Cnr fotografano luci e ombre nel sistema italiano. Risorse finanziarie e umane nel comparto R&S e i brevetti ci vedono lontani dai Paesi avanzati, anche se in crescita sul piano delle pubblicazioni

alambicco Ormai lo sanno anche i bambini: la ricerca in Italia è come Cenerentola, la sorellastra povera degli altri comparti economici, nonostante il suo ruolo nodale come traino allo sviluppo del Paese. La conferma arriva nero su bianco in un nuovo data book realizzato dall’Istituto di ricerca sull’impresa e lo sviluppo (Ceris) del Cnr di Torino. Il volume, intitolato «Scienza e tecnologia in cifre. Statistiche sulla ricerca e sull'innovazione», raccoglie i principali indicatori relativi all’impegno italiano e internazionale in ricerca e sviluppo (R&S) fornendo dati aggiornati su risorse finanziarie e umane, pubblicazioni, brevetti, import-export, high-tech, innovazione, ricadute a livello economico e produttivo.

«Il sistema scientifico italiano soffre di un insufficiente livello di stanziamenti», commenta Secondo Rolfo, direttore del Ceris e coordinatore della ricerca. «I dati parlano da sé». Nel 2004 la spesa complessiva tra comparto pubblico e imprese è stata di 15.252 milioni di euro. Una cifra che colloca l’Italia al nono posto tra i Paesi Ocse (più Cina e Israele). Al primo posto della graduatoria compaiono gli Stati Uniti, con 312,5 miliardi di dollari (a parità di potere di acquisto); seguono il Giappone con 118 e la Cina con 94, Germania (59,2), Francia (38,9), Regno Unito (32,2), Corea (28,3) e Canada (20,8).

La situazione è ancora più disarmante se gli stessi valori vengono rapportati al Prodotto interno lordo (Pil): con l’1,1% l’Italia è all’ultimo posto, a pari (de)merito con la Spagna; Israele è al primo posto con il 4,4%; seguono la Svezia con il 4%, la Finlandia con il 3,5%, il Giappone con il 3,2%, la Svizzera e la Corea con il 2,9%. Gli altri Paesi oscillano tra il 2,7% degli Stati Uniti e l’1,2% dell’Irlanda.

Insomma, sia come valore assoluto sia come incidenza percentuale, le risorse finanziarie impegnate nelle attività di R&S collocano l’Italia nella fascia medio-bassa dei Paesi industrializzati, molto lontano dal 3% del Pil proposto a Lisbona come obiettivo della politica comunitaria tesa a fare dell’Unione europea la prima economia al mondo basata sulla conoscenza.

ricercatrice Nel nostro Paese la spesa complessiva per R&S intra-muros, cioè svolta con proprio personale e proprie attrezzature, è sostenuta per il 47,8% dalle imprese (pari a 7.293 milioni di euro) e per il 32,8 % dalle università (5.004 milioni di euro). Più contenuto il peso delle altre istituzioni pubbliche e del no profit, rispettivamente con il 17,8% e l’1,5% per cento (dati 2004). Gli investimenti del settore privato in ricerca rappresentano lo 0,53% del Pil, dunque circa la metà dello sforzo complessivo nel comparto. La percentuale è molto distante da quella delle imprese negli altri Paesi in esame. Sempre in rapporto percentuale rispetto al Pil, è Israele con il 3,25 a occupare la prima posizione; seguono Svezia e Finlandia, rispettivamente con 2.93 e 2,42. Prima di noi, Germania con l’1,75, Danimarca (1,69), Austria (1,51) e Francia (1,34), ma anche Cina (0,82), Irlanda (0,78) e Spagna (0,58).

A livello nazionale, al primo posto compaiono le aziende del Nord-ovest, con il 36,9 % della spesa complessiva, seguite dal Centro (26,6%), dal Nord-est e dal Mezzogiorno (rispettivamente 18,3% e 18,2 %). Le differenze territoriali si attenuano considerando la spesa per ricerca sostenuta dagli altri settori: nell’Italia centrale (in particolare nel Lazio) le istituzioni pubbliche sostengono il 57,3% dell’attività di ricerca totale e il 30,7 per cento di quella universitaria.

Nel 2004 il personale italiano impegnato in attività di ricerca contava 164.026 unità a tempo pieno, di cui 72.012 ricercatori (con un aumento dell’1,4% rispetto all’anno precedente). A livello internazionale, gli Stati Uniti si collocano al vertice con circa 1.335.000 ricercatori (nell’equivalente del nostro tempo pieno) mentre, tra i Paesi europei, è capofila la Germania con 270.700 addetti. Paesi di dimensioni molto ridotte, in termini di popolazione, rispetto all’Italia, come Svezia, Finlandia e Paesi Bassi, hanno circa la metà dei nostri ricercatori: un investimento rilevante in R&S, che li colloca ai primi posti per spesa e numero di ricercatori rispetto agli occupati.

L’Italia è malmessa anche se si prende in esame il personale di ricerca in rapporto alla forza lavoro: con lo 0,673% (cioè poco più di “mezzo” ricercatore ogni 1.000 unità di forza lavoro) è al penultimo posto ed è seguita solo dalla Cina (0,150), lontana anni luce da Finlandia (primo posto con 2,229), Svezia (1,623) Danimarca (1,481) e Giappone (1,349).

La distribuzione territoriale degli addetti alla R&S evidenzia una maggiore concentrazione nelle Regioni del Nord-ovest (32,1%), seguite da quelle del Centro (28,0%) e nel Mezzogiorno (20,6%). A livello di singole Regioni, il 18,3% del personale impiegato nel settore si trova nel Lazio; seguono la Lombardia (17,9%) e il Piemonte (11,1%).

pubblicazione scientifica Nonostante tutto, commenta il direttore del Ceris, «i dati sulle pubblicazioni su riviste scientifiche ottenute da ricercatori italiani testimoniano una produttività della ricerca pubblica a livelli confortanti e in crescita nel tempo». Anche la percentuale di citazioni di articoli scientifici di autori italiani nelle pubblicazioni specialistiche è notevolmente aumentata fra il 1992 e il 2003: si è passati da 2,04% al 3,01% sul totale mondiale delle citazioni. Meglio di Spagna, Paesi Bassi, Svezia, Canada, Cina e Svizzera.

Un indicatore particolarmente significativo dei risultati della ricerca (molto vicino all’applicazione pratica) è costituito dai brevetti. Anche in questo campo il nostro Paese («un popolo d’inventori»…) è malmesso. Prendendo in esame il totale dei brevetti domandati (presso l’European Patent Office e il Japanese Patent Office) o rilasciati (dal United States Patent and Trademark Office), l’Italia copre l’1,56% del totale, dietro a Stati Uniti (37,56%), Giappone (25,85%), Germania (13,82%), Francia (4,54%), Regno Unito (3,76%), Paesi Bassi (1,94%), Svizzera (1,72%), Corea (1,60%).

Altro indicatore che evidenzia il livello scientifico-tecnologico di un Paese è lo scambio di tecnologia, rappresentato dalla compra-vendita di invenzioni, licenze, know how, marchi da fabbrica, servizi con contenuto tecnologico (come assistenza tecnica, formazione del personale, ecc…). A questo riguardo il cronico deficit della bilancia italiana dei pagamenti è migliorato: il saldo è passato da -6,35% del 1992 a -1,10% del 2004. Sempre preponderante è l’esborso per acquisto di diritti di sfruttamento di brevetti, ma aumentano notevolmente gli incassi per servizi con contenuto tecnologico, di ricerca e sviluppo (più che raddoppiati nel periodo 1995-2005).

Poco confortanti, infine, i dati sulle esportazioni delle industrie manifatturiere ad alta tecnologia in rapporto al totale delle esportazioni del comparto manifatturiero. Fra i Paesi Ocse, per prima troviamo l’Irlanda con oltre la metà (51,6%) dei manufatti ad alta tecnologia esportati. Seguono Ungheria (30,0%), Stati Uniti (28,5%), Giappone (26,5%), e poi Regno Unito, Paesi Bassi, Francia e molti altri. L’Italia esporta solo l’8,6% di prodotti hi-tech, sopravanzata da Repubblica ceca (13,5%), Slovenia (10,9%), Grecia ((9,8%), Spagna (9,3%).

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