Lo so bene! – esclamò il vecchio Qfwfq – voi non ve ne potete ricordare ma io sì. L’avevamo sempre addosso, la Luna, smisurata: quand’era il plenilunio, notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro, pareva che ci schiacciasse; quand’era luna nuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a luna crescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata. Ma tutto il meccanismo delle fasi andava diversamente che oggigiorno: per via che le distanze dal Sole erano diverse, e le orbite, e l’inclinazione non ricordo di che cosa; eclissi poi, con Terra e Luna così appiccicate, ce n’erano tutti i momenti: figuriamoci se quelle due bestione non trovavano modo di farsi continuamente ombra a vicenda.
L’orbita? Ellittica, si capisce, ellittica: un po’ ci s’appiattiva addosso e un po’ prendeva il volo. Le maree, quando la Luna si faceva più sotto, salivano che non le teneva più nessuno. C’erano delle notti di plenilunio basso basso e d’alta marea alta alta che se la Luna non si bagnava in mare ci mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci? E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montar su.
Il punto dove la Luna passava più basso era al largo degli Scogli di Zinco. Andavamo con quelle barchette a remi che si usavano allora, tonde e piatte, di sughero. Ci si stava in parecchi: io, il capitano Vhd Vhd, sua moglie, mio cugino il sordo, e alle volte anche la piccola Xlthlx che allora avrà avuto dodici anni. L’acqua era in quelle notti calmissima, argentata che pareva mercurio, e i pesci, dentro, violetti, che non potendo resistere all’attrazione della Luna venivano tutti a galla, e così polpi e meduse color zafferano. C’era sempre un volo di bestioline minute – piccoli granchi, calamari, e anche alghe leggere e diafane e piantine di corallo – che si staccavano dal mare e finivano nella Luna, a penzolare giù da quel soffitto calcinoso, oppure restavano lì a mezz’aria, in uno sciame fosforescente, che scacciavamo agitando delle foglie di banano.
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