Che la Terra si stia riscaldando è ormai fuori discussione. Le previsioni dicono che entro la fine del secolo la temperatura media aumenterà dai 2 ai 6 °C. Che questo riscaldamento sia collegato all’aumento dei gas a effetto serra nell’atmosfera è accertato. Quanto l’aumento della concentrazione dei gas serra negli ultimi 150 anni sia dovuto alle attività umane non è stato ancora calcolato con precisione, ma la maggior parte degli scienziati ritiene che il ruolo dell’uomo nei cambiamenti climatici attuali si sommi alle cause che lo fanno evolvere naturalmente. Un aumento della temperatura di qualche grado può sembrare minimo, ma basterà, avvenendo per di più in tempi così brevi, a portare visibili e pesanti conseguenze sul clima, favorendo in particolare l'aumento delle catastrofi naturali, lo scioglimento dei ghiacciai, l'innalzamento del livello dei mari, l'estinzione di numerose specie.
Per contrastare questa tendenza, il 16 febbraio 2005 è entrato in vigore il Protocollo di Kyoto. Un accordo internazionale, il primo di questo genere, che vincola i Paesi industrializzati che lo hanno ratificato a ridurre complessivamente del 5,2% rispetto al 1990 le loro emissioni di alcuni gas responsabili dell’aumento dell’effetto serra (anidride carbonica, metano, protossido di azoto, idrocarburi fluorati e perfluorati ed esafluoruro di zolfo). L'accordo, raggiunto nella città giapponese nel dicembre 1997, è entrato in vigore solo oltre sette anni dopo perché era necessario che lo ratificassero Paesi che rappresentavano almeno il 55% delle emissioni totali di CO
Il Protocollo di Kyoto impone all'Europa di ridurre complessivamente dell'8% le sue emissioni rispetto al 1990. Per raggiungere l'obiettivo, l'Unione europea ha assegnato a ciascun Paese membro un limite diverso, a seconda della sua situazione di partenza. Per questo motivo alcuni Paesi, come la Germania o la Danimarca, devono diminuire le loro emissioni di più dell'8%, altri Paesi, come l'Italia (-6,5%), devono diminuirle meno, altri (come la Francia e la Finlandia) devono rimanere in pari e qualcuno, come la Grecia o l'Irlanda, ha diritto ad aumentare le proprie emissioni.
Il Protocollo prevede alcuni meccanismi flessibili che hanno lo scopo di raggiungere il taglio previsto riducendo al minimo i costi per l'economia. Ciascun Paese deve suddividere la quota di emissioni assegnatagli fra tutte le sue aziende che operano nei settori toccati all'accordo. I settori industriali coinvolti nella riduzione delle emissioni sono: la produzione di energia termoelettrica, le industrie della raffinazione petrolifera, del vetro, del cemento, dell’acciaio, delle ceramiche, dei laterizi e della carta.
Il primo dei tre principali meccanismi flessibili è la Joint implementation (Ji), l'applicazione congiunta. Prevede che i Paesi a cui si applicano le restrizioni del Protocollo possano realizzare progetti in comune per abbattere le emissioni là dove è più conveniente. Così, ad esempio, le imprese italiane potranno finanziare progetti in Russia, dove ridurre le emissioni costa meno, perché ci sono molti vecchi impianti che possono essere sostituiti con tecnologie già diffuse. In cambio riceveranno dei crediti che potranno far valere come se avessero ridotto le emissioni nei propri impianti.
Un secondo procedimento è il Clean developement mechanism (Cdm), il meccanismo di sviluppo pulito. Il funzionamento è analogo al Ji, ma si attua fra i Paesi che devono ridurre le emissioni e quelli in via di sviluppo. Il Cdm ha l'obiettivo di aiutare i Paesi industrializzati ad assolvere i loro impegni a costi minori e contemporaneamente promuovere lo sviluppo sostenibile degli altri Paesi. Consiste nella realizzazione di progetti "puliti" nei Paesi in via di sviluppo, finanziati da Paesi che devono ridurre le loro emissioni, i quali ne ricevono anche in questo caso dei crediti.
Il terzo e più importante meccanismo è la cosiddetta Borsa della CO
L'Europa ha fissato le regole per mettere in moto questo commercio all'interno dei Paesi dell'Unione a partire dal 1° gennaio 2005. A questa data, 21 Paesi su 25 erano in regola perché i loro Piani nazionali di riduzione erano stati approvati. Gli altri 4, tra cui l'Italia, entreranno nel meccanismo nei mesi successivi, non appena avranno presentato dei Piani completi.
Nello specifico, ciascun Paese ha dovuto fissare una quota di emissione per ogni azienda che opera nei settori coinvolti dal Protocollo. Questa quota, espressa in tonnellate equivalenti di CO2, è inferiore a quanto attualmente prodotto dagli impianti dell'impresa. L'azienda può operare in tre modi diversi. Può scegliere di investire nella modernizzazione delle sue attrezzature e diminuire le sue emissioni anche oltre il limite richiesto, avendo così a disposizione delle tonnellate di anidride carbonica da rivendere. Oppure può decidere, ad esempio perché sarebbe troppo costoso comprare attrezzature all'avanguardia, di comprare delle quote di CO
Il prezzo delle quote scambiate sul mercato non è fissato, ma dipende dal numero di venditori e acquirenti, come succede nelle Borse. Se ci sono più acquirenti che venditori, i permessi a inquinare diventano rari e salgono di prezzo. In caso contrario, scendono. I prezzi inizialmente dovrebbero aggirarsi sui 10 euro a tonnellata di CO
Lo scopo del commercio è che alla fine ciascuna azienda rispetto il limite imposto e che globalmente le emissioni di gas serra diminuiscano. Non importa dove la riduzione ha luogo: che la CO