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Il suicidio: quanto ambiente e quanta genetica?

Quella specie di "danza" biologica tra codice genetico ed ambiente, la complessa relazione tra l'eredità che ognuno di noi porta dentro e la vita che conduce ogni giorno, è sicuramente al centro di malattie gravi come quelle cardiovascolari e tumorali. Ma potrebbe essere anche implicata nel suicidio?

Quella specie di "danza" biologica tra codice genetico ed ambiente, la complessa relazione tra l'eredità che ognuno di noi porta dentro e la vita che conduce ogni giorno, è sicuramente al centro di malattie gravi come quelle cardiovascolari e tumorali. Ma potrebbe essere anche implicata nel suicidio?

L'idea, tutto sommato antica e presente anche nell'immaginario popolare, dell'esistenza di una familiarità per i comportamenti suicidari sta cominciando a trovare una credibilità scientifica nel campo della genetica, anche se le evidenze esistenti fino ad oggi lasciano molti dubbi su come vadano realmente le cose.

Ci sono ovviamente sempre state osservazioni empiriche. Come il celebre caso della famiglia Hemingway, dove di suicidi se ne sono osservati molti. Ma la domanda restava in aria: è l'ambiente familiare che predispone o la genetica?

Uno studio di possibile ereditarietà di caratteri, soprattutto in casi di psichiatria e psicologia, parte spesso dall'osservazione dei gemelli omozigoti, quelli che condividono esattamente lo stesso patrimonio ereditario. A partire dagli anni '80 ci furono alcuni lavori scientifici che indicavano come ci fosse concordanza tra omozigoti per i comportamenti suicidari. Un lavoro dei ricercatori Roy, Rylander e Sarchiapone, pubblicato nel 1997 sugli Annali della New York Academy of Sciences, segnalava un'associazione del 13,2%, a fronte di uno 0,7% nei gemelli eterozigoti (nei quali il DNA non è perfettamente identico).

Doppia elica del DNA e impronte genetiche Certo, se il suicidio fosse una vera malattia ereditaria "semplice" la concordanza negli omozigoti dovrebbe essere totale, il 100%. In altri termini, il suicidio di un gemello sarebbe sempre associato al suicidio dell'altro. Il 13,2% non è molto, ma è quanto basta per far sospettare una predisposizione.

Il discorso non è quindi quello di un singolo "gene del suicidio", ma piuttosto di un complesso di fattori genetici sui quali l'influenza dell'ambiente (eventi negativi nella vita, disgrazie ecc.) può innestare una particolare reazione.

L'attenzione dei ricercatori, si è concentrata in particolare sui geni che controllano i meccanismi di azione della serotonina, un neurotrasmettitore, cioè una sostanza che permette di trasmettere l'informazione da un neurone all'altro. In persone che hanno tentato il suicidio, o che abbiano dimostrato comportamenti autolesivi, sono spesso stati riscontrati problemi proprio nel sistema di trasmissione nel quale è implicata quella molecola. La serotonina ed i suoi meccanismi biochimici sono peraltro il bersaglio di diversi tipi di farmaci antidepressivi. Ecco perchè gli studi sono ora puntati sui cosiddetti polimorfismi dei geni coinvolti nella produzione, il trasporto e la distruzione di questo neurotrasmettitore. Assetti genetici differenti (i polimorfismi appunto) possono avere un peso maggiore o minore nel determinare una situazione di rischio. Nel 2000 un gruppo di ricercatori canadesi pubblicò sulla rivista American Journal of Medical Genetics uno studio condotto in Ungheria, la nazione con il più alto tasso di suicidi del mondo, nel quale veniva individuata una forte presenza tra la popolazione di un particolare polimorfismo di un gene coinvolto nella produzione di un recettore della serotonina.

Più recentemente, nel febbraio scorso, lo stesso giornale ha pubblicato un'analisi ("review") condotta da ricercatori francesi che ha preso in esame lo stato delle ricerche in questo campo. Secondo il gruppo d'oltralpe, i risultati delle ricerche condotte finora suggeriscono effettivamente un ruolo dei geni implicati nel metabolismo della serotonina. Anche se l'interazione tra essi ed i fattori ambientali viene considerata comunque fondamentale.

Il quadro comincerebbe a somigliare a quello, ormai ben dimostrato, delle malattie legate al metabolismo dei lipidi ed alle patologie cardiovascolari. Si può nascere con una tendenza alla ipercolesterolemia, ma stare "a stecchetto" tutta la vita potrà prevenire o sviluppo di malattie cardiache o circolatorie. Potrà essere così per la tendenza al suicidio?

Di sicuro le preoccupazioni su questo tipo di ricerche sono molte. Ammesso che possa essere stabilita con certezza una correlazione, analizzare il DNA di un individuo alla ricerca di un rischio maggiore per l'infarto (una possibilità che si sta rivelando sempre più concreta) è una cosa, ma farlo per il rischio di suicidio è un'altra. Una persona ad alto rischio di infarto, una volta che è stata informata, sarà probabilmente attentissima a non fumare, a fare attività fisica, a mangiare in modo adeguato. E così probabilmente eviterà di ammalarsi.

Ma cosa potrebbe fare qualcuno a cui sia stato diagnosticato un aumento di rischio per il suicidio? Non potrebbe essere proprio questa una causa scatenante?

Sull'altro piatto della bilancia, però, c'è la possibilità di intervenire con maggiore precisione (sia con terapie psicologiche che con farmaci) su quella che rappresenta comunque la dodicesima causa di morte al mondo (la terza per chi ha tra 15 e 45 anni).

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