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Il Nobel per la fisica Riccardo Giacconi racconta a Torino i misteri dell'Universo

Torinoscienza lo ha intervistato in esclusiva, chiacchierando con lui in modo informale della sua visione del mondo scientifico, delle conoscenze attuali e delle prospettive nel campo dell'astrofisica.

Il nostro Universo non rispecchia affatto l'immagine di sospesa lentezza che ci volle trasmettere Kubrick, sulle note di Strauss, in apertura del suo celebre film "2001: odissea nello spazio", perchè tutto è in rapido movimento e lo spazio è continuamente squassato da violente esplosioni. Come se non bastasse scopriamo anche che l'uomo, nonostante i suoi sforzi, padroneggia ancora ben poca conoscenza del cosmo: il 97% di esso è infatti formato da materia ed energia oscura, di cui si percepisce l'esistenza, ma non l'essenza.

Queste, ed altre interessantissime e più tecniche informazioni le abbiamo raccolte nel corso delle due conferenze, "Dal perspicillum di Galileo allo Hubble Space Telescope" e "Il cielo a raggi X", che il Premio Nobel 2002 per la Fisica, Riccardo Giacconi, ha tenuto a Torino il 15 e 16 settembre 2009 in occasione dell'Anno Internazionale dell’Astronomia IYA2009, richiamando un folto pubblico di esperti e appassionati. Il Professor Attilio Ferrari, dell'Università di Torino, ha presentato Giacconi ripercorrendo in breve la sua biografia.

Riccardo Giacconi a Torino Nato a Genova nel 1931, Giacconi studia all'Università di Milano prendendo il dottorato in fisica dei raggi cosmici. Su suggerimento di un altro grande fisico italiano, Giuseppe Occhialini, che, come Giacconi stesso ama ricordare, gli disse "go west young man", alla fine degli anni '50 si trasferisce negli Stati Uniti.

Lavorando con l'ASE ("American Science and Engineering"), una compagnia privata di Cambridge (Massachussetts) ha modo di sviluppare i primi telescopi per raggi X ad incidenza radente e lanciarli nello spazio a bordo di razzi. In questo modo, nel 1962 scopre Sco X-1, la prima sorgente extraterrestre nota di raggi X. Dal 1963 si dedica a progettare un satellite per lo studio delle sorgenti astronomiche altamente energetiche. Il satellite, denominato Uhuru e costruito fra il '66 e il '70, viene lanciato in orbita nel 1970. Grazie alla ricognizione a tappeto del cielo, furono scoperte ben 339 "stelle" che emettevano raggi X. Grazie a questi risultati un altro scienziato italiano, Remo Ruffini, potè interpretare alcune sorgenti come astri collassati identificando i primi candidati a buchi neri galattici.

In questo periodo Giacconi si interessa anche alle osservazioni solari nella banda dei raggi X del Sole che verranno effettuate per la prima volta con un telescopio portato a bordo dello Skylab.

Negli anni '80 Giacconi intraprende un nuovo iter di ricerca nell'astronomia ottica spaziale diventando il primo direttore dell'oggi notissimo "Space Telescope Institute" presso la John Hopkins University di Baltimora (USA) e sviluppando per la prima volta un sistema di elaborazione dei dati raccolti dai telescopi. MA la sua brillante personalità lo porta a dedicarsi sempre a nuove sfide, così gli anni '90 lo vedono protagonista all'ESO ("European Southern Observatory"). Qui realizza la costruzione del più grande interferometro ottico: il "Very Large Telescope", un insieme di 4 telescopi di 8.2 metri di diametro ognuno, capaci di lavorare anche insieme, trasformandosi in un sistema con capacità di raccolta di luce pari a quella di un telescopio di 16 metri di diametro e con una risoluzione ben maggiore di quella di qualsiasi altro telescopio esistente.

Chandra Dal 1999 torna negli USA e segue il progetto Chandra, potentissimo telescopio orbitale della NASA per l'osservazione del cielo nei raggi X e strumento fondamentale per la comprensione delle supernovae, dei buchi neri, degli ammassi stellari e delle galassie.

Giacconi ha esordito ricordando che la prima grande rivoluzione nella concezione dell'Universo, con il passaggio dalla visione di un Universo chiuso e incentrato sulla Terra, alla visione di un Universo aperto, nel quale pianeti e astri sottostanno a leggi ben precise, la si deve a quei cinque grandi studiosi di astronomia che furono, ognuno con contributi diversi, Copernico, Kepler, Galileo Galilei, Tycho Brahe e Newton. Da allora si sono dovuti aspettare gli ultimi 100 anni per avere una crescita davvero enorme delle nostre conoscenze. In particolare dopo la seconda guerra mondiale, grazie alle tecnologie radio sviluppate per scopi bellici, sono stati scoperti i quasar e le pulsar.

Ma è con l'osservazione dello spazio in raggi X che inizia la grande svolta; in particolare quando si riesce, mandando in orbita telescopi a raggi X, a studiare sorgenti diffuse di raggi X provenienti da stelle lontane. Grazie a queste missioni, si sono raccolti dati osservativi su stelle compatte di eccezionale qualità, che hanno consentito di ottenere risultati che hanno aperto nuove questioni circa la fisica degli oggetti compatti.

E' così che si è avuta l'evidenza dell'esistenza di stelle compatte, le cui masse sono concentrate in piccoli volumi, quali nane bianche e stelle di neutroni, e che sono stati scoperti i sistemi binari formati da una stella compagna e da un oggetto estremamente denso e compatto, dotato di un'attrazione gravitazionale talmente elevata da non permettere l'allontanamento di alcunché dalla propria superficie, denominato "buchi neri". L'astronomia in raggi X ha inoltre consentito di rivelare e analizzare i cluster, grandi ammassi, di stelle e galassie.

Riccardo Giacconi - materia oscura Ed eccoci alla scoperta più straordinaria degli ultimi anni, in grado di lasciare attoniti gli scienziati stessi, e ancor più i non addetti ai lavori: l'Universo là fuori è composto per oltre il 90% da energia e "materia oscura", della quale non si conosce la reale natura. Come dire che tutti gli sforzi e gli studi sino ad oggi compiuti non sono serviti che a darci una piccolissima conoscenza di ciò che ci circonda. La materia oscura si è rivelata attraverso la forza di gravità che essa esercita sulla materia luminosa, influenzandone la distribuzione nello spazio. Proprio Chandra ha trovato prove dirette dell'esistenza della materia oscura: grazie all'osservazione dello scontro tra due ammassi di galassie nello spazio più profondo è scaturita un'immagine emozionante, una sorta di tessuto spugnoso che permea l'Universo luminoso a noi conosciuto.

Per il futuro Giacconi pensa che si dovrà puntare al potenziamento della risoluzione dei telescopi per poter andare ad esplorare zone sempre più remote dello spazio, e che gli astrofisici si dovranno dedicare allo studio delle grandi formazioni, della materia oscura e del Big Bang, per cercare di capire. L'unica preoccupazione dello scienziato è che alle grandi scoperte teoriche degli ultimi anni faccia davvero seguito un periodo di fervido sviluppo di applicazioni industriali, soprattutto dando ai giovani gli strumenti per acquisire capacità sperimentali trasversali nei diversi campi scientifici, piuttosto che una pericolosa deriva oscurantista.

Professor Giacconi, le celebrazioni per l’Anno internazionale dell’astronomia mirano a far conoscere i progressi e le speranze collegati alla ricerca scientifica. Può fare qualche esempio?

La ricerca scientifica, anche quella apparentemente più astratta come l’astrofisica, è un trainer importantissimo dello sviluppo tecnologico. Il lavoro sui telescopi a raggi X, ad esempio, ha permesso di realizzare i metal detector diffusi in tutti gli aeroporti del mondo, capaci di “vedere” all’interno di borse e tasche, senza recare danno a cose e persone. Lo sviluppo ulteriore ha portato alla realizzazione dei macchinari per la risonanza magnetica, che tanta importanza hanno nelle diagnosi mediche. Per ottenere questi risultati però è fondamentale mantenere sempre una certa abilità sperimentale anche tra chi si occupa di ambiti più teorici. E questo vale soprattutto per i giovani. Gli studenti sono i dadi con cui la società può scommettere sul proprio futuro; il problema è che oggi non pare interessata a farlo. Anche negli Stati Uniti gli investimenti seguono le mode: adesso, ad esempio, va per la maggiore il global warming.

Cosa bisognerebbe fare per migliorare lo stato della ricerca in generale?

Bisognerebbe investire meno nella comunicazione e dare più denaro direttamente agli scienziati per fare ricerca.

Non le pare una soluzione un po’ drastica?

Forse, ma sarebbe efficace. La mia constatazione, basata su anni di esperienza in giro per il mondo, è che qualsiasi iniziativa a favore della cultura scientifica, per quanto ben concepita e moralmente corretta (come quella dell’Anno internazionale dell’astronomia), serva a poco. Negli Stati Uniti, ad esempio, abbiamo fatto uno sforzo enorme con il telescopio Hubble, perché speravamo di far diventare patrimonio comune le conoscenze acquisite: a livello di divulgazione non avremmo potuto fare di meglio, ma il risultato è stato, paradossalmente, una nuova deriva creazionista. Non abbiamo avuto alcun successo in fatto di apertura mentale...

E tutto ciò è colpa dell’informazione?

Niente affatto. È colpa di una società che non privilegia l’intelletto. Ai giovani vengono proposti modelli di basso livello a cui ispirarsi. Purtroppo la trasmissione delle conoscenze non avviene attraverso il Dna, perciò rimane patrimonio intellettuale di una minoranza.

Lei non pensa che se anche noi divulgatori gettassimo la spugna sarebbe peggio?

Non so. A volte, in effetti, mi viene voglia di gettarla. Ma, come vede, vengo alle conferenze: a Torino come a Lindau, in Germania, dove si svolge il meeting biennale dei Premi Nobel e a cui partecipano centinaia di studenti. Insomma, faccio il mio dovere, ma non ho grandi speranze. So che ci sono iniziative di divulgazione molto lodevoli in tutto il mondo: per esempio l’Eso ha lanciato sul proprio sito Internet un concorso per gli studenti europei invitandoli a proporre progetti di ricerca innovativi, ma il problema di base resta irrisolto.

Quali sono stati, secondo lei, i risultati più clamorosi delle indagini astronomiche attraverso i raggi X?

Anzitutto la scoperta che viviamo in un universo in cui la maggior parte della materia “normale” è concentrata in gas a temperature di milioni di gradi e non in stelle. Sappiamo anche che esiste una materia non “normale”, detta «oscura», che si rivela a noi attraverso gli effetti gravitazionali, ma la cui natura ci è ignota; esiste altresì un’«energia oscura» che ci si rivela attraverso i suoi effetti sull’espansione dell’universo, e della cui natura non abbiamo nuovamente idea. Sappiamo solo che la materia normale costituisce circa il 3 per cento della massa dell’universo: il restante 27 per cento è materia oscura, il 70 per cento energia oscura (ma queste due percentuali cambiano nel corso del tempo). La seconda conquista importante è lo studio di oggetti compatti, in particolare i buchi neri e le stelle a neutroni; la terza scoperta rilevante riguarda un nuovo modo di generare energia, diverso dalla fusione nucleare, che utilizza la forza di gravità per far cadere materia all’interno dei buchi neri. È un sistema che permette di produrre energia con grandissima efficienza: i motori più potenti dell’universo sono attivati dalla forza gravitazionale. La quarta conquista è una visione dell’universo completamente diversa da quella per così dire “quieta” delle stelle a poche migliaia di gradi, che evolvono lentamente, attraverso stati di equilibrio: oggi sappiamo che i corpi celesti come le supernove possono esplodere improvvisamente, distribuendo materiale nello spazio circostante; l’universo insomma è “dilaniato” da enormi iniezioni di energia. Questa, secondo me, è una grande differenza concettuale rispetto al passato.

Di tutte queste scoperte straordinarie qual è quella che l’ha sorpresa di più?

Probabilmente la scoperta della materia “oscura”. Oggi noi possiamo osservarne gli effetti gravitazionali, ma non siamo in grado di “osservarla” direttamente perché non emette alcuna radiazione elettromagnetica e dunque sfugge ai nostri strumenti di analisi spettroscopica (da qui l'aggettivo "oscura"). La mia speranza più profonda e nascosta è che possa trattarsi di qualcosa di simile all’«etere», il mezzo attraverso il quale, fino al XIX secolo, si pensava si propagassero le onde elettromagnetiche: solo nei primi anni del XX secolo, con le teorie di Hendrik Lorentz, Henri Poincaré e Albert Einstein, si è potuto fare a meno del concetto di etere.

Lei è più affascinato o più spaventato dal fatto di non sapere nulla del 97 per cento dell’universo?

Sono molto affascinato e per nulla spaventato. Concepisco, infatti, l’universo come qualcosa di assolutamente indifferente agli uomini: sta lì, con le sue leggi e le sue evoluzioni, indipendentemente dalla nostra capacità di comprenderlo. Questo è per me da sempre un dato acquisito. Ciò che mi “disturba” è che parecchi dei nostri sforzi per capirne i meccanismi siano pressoché vani. Si pensi, ad esempio, alla «costante di Hubble» [introdotta dal celebre scienziato nel 1929, quando appurò che nell’universo in espansione esiste una relazione lineare fra velocità e distanza, per cui tanto maggiore è la distanza tra due galassie tanto più alta è la loro velocità di allontanamento reciproco, ndr]. Da allora ci siamo dati parecchio da fare per misurare il valore di questa costante, perché pensavamo che le sue variazioni ci avrebbero permesso di stabilire se l’universo si espanderà per sempre o, a un certo punto, si fermerà e collasserà. Adesso, invece, sappiamo che il futuro dell’universo è collegato alla proporzione tra materia oscura ed energia oscura e che i mezzi a nostra disposizione non ci consentono di studiarle. Se, dunque, ci limitiamo ad analizzare ciò che è alla portata dei nostri strumenti, otterremo inevitabilmente una visione lontana dalla realtà e questa consapevolezza mi annichilisce.

Ad oggi, dunque, non sappiamo ancora quale sia il destino dell’universo...

Proprio così, perché non conosciamo bene la proporzione tra le due componenti “oscure” dell’universo. Ma credo che ci arriveremo: basta studiare di più e misurare meglio. Il nodo cruciale è, piuttosto, capire perché esistono la materia e l’energia oscure. A un livello ancora superiore si colloca il problema della variazione nel tempo del loro valore percentuale.

Per certi versi sembrerebbe quasi che da Galileo a oggi gli uomini abbiano compiuto pochi progressi nella comprensione dell’universo...

Non sono d’accordo. Tutto ciò che conosciamo dell’universo l’abbiamo appreso negli ultimi cento anni, grazie alle conoscenze acquisite in vari ambiti, tra cui la fisica nucleare e quella quantistica. Prima non sapevamo davvero nulla: quanto grande fosse l’universo, quanto fosse cresciuto... L’unica nota per così dire “dolente” è, semmai, che negli ultimi dieci anni abbiamo scoperto troppo. E se è vero che queste nuove osservazioni non hanno messo in discussione le conoscenze già acquisite, è pur vero che non hanno portato alle conseguenze logiche che ci attendevamo. Io, ad esempio, speravo di poter partire dal Big Bang e arrivare a predire l’esistenza e i meccanismi di funzionamento del Dna. Credevo cioè che fosse tutto consequenziale e prevedibile. Ma non avevo messo in conto la materia e l’energia oscure. Nel complesso si può dire che oggi viviamo un periodo eroico dell’astronomia, ma abbiamo dinanzi questioni a cui non sappiamo rispondere.

Ci mancano, insomma, validi strumenti interpretativi... Ci arriveremo?

Non lo so. Siamo nella stessa situazione in cui erano gli astronomi prima delle teorie di Keplero, Galileo e Newton: oggi come allora dobbiamo liberare la nostra mente da pregiudizi e aspettative non basate su fatti sperimentali e sperare che compaia un nuovo Newton e produca una nuova sintesi. Da circa 40 anni il fisico Steven Weinberg, mio caro amico, cerca di mettere a punto una “teoria unificata” (o “teoria del tutto”), ma non ci riesce. Non è facile. Einstein stesso non ci è riuscito.

Secondo lei potrà mai esserci una risposta alla domanda su cosa c’era prima del Big Bang?

No, un fisico non potrà mai rispondere a questo interrogativo.

Dunque il creazionismo è privo di fondamento scientifico?

Certamente. Ritengo infatti che la deriva creazionista a cui si assiste in America rappresenti una regressione. Ed è una tragedia, perché se questo atteggiamento continuasse, porterebbe a un nuovo Medioevo. Ma, grazie al Cielo, non ci sarò.

Lei è stato uno dei primi italiani a emigrare all’estero per fare ricerca...

Non direi: ben otto premi Nobel italiani in ambito scientifico lavoravano all’estero come me. Vuol dire che noi italiani siamo intelligenti e che abbiamo una buona formazione, ma per crescere è bene andare all’estero. E mi pare che questo, di per sé, non sia un elemento negativo.

Dopo la sua laurea in fisica all'Università di Milano, il suo maestro Beppo Occhialini le disse: «Go West» («Vai a Ovest»). Lei lo consiglierebbe ancora?

Beppo Occhialini era un fan dei film western, quindi per lui «Go West» significava letteralmente «Vai in California». Solo in seguito quest’espressione ha assunto il significato più ampio di fuggire in America. Penso che oggi consiglierei di prendere in considerazione anche la via dell’Europa, dove vedo ottime opportunità, in particolare nei centri di ricerca internazionali come l’Eso o il Cern di Ginevra.

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