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Gli esopianeti, ce ne parla Mario Lattanzi dell'INAF di Torino

Ad oggi gli astronomi hanno scoperto 241 pianeti extra-solari, di dimensioni paragonabili a quelle dei pianeti maggiori del Sistema solare. La prossima tappa è individuare i corpi di tipo terrestre, ma l’obiettivo finale è stabilire se esistono forme di vita aliene, come ha raccontato Mario Lattanzi, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) presso l’Osservatorio Astronomico di Torino.

esopianeta ricostruzione artistica Esiste una vita altrove nell’universo? A Mario Lattanzi, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) presso l’Osservatorio Astronomico di Torino (Oato), piacerebbe rispondere affermativamente, ma da scienziato alla guida di un gruppo all’avanguardia internazionale negli studi di astrometria, preferisce le certezze dell’osservatore metodico alle speculazioni degli autori di romanzi di fantascienza. Nell’ambito delle conferenze organizzate dall’Oato per la «Primavera astronomica», Lattanzi ha spiegato che in realtà già 2300 anni fa il filosofo Epicuro pensava che potesse esistere una pluralità di mondi e di vite: «Non vi è alcuna ragione che la natura abbia sfruttato tutte le combinazioni di atomi per fare un solo mondo: il nostro. E gli altri mondi sono probabilmente popolati da esseri viventi». Ma erano pure speculazioni filosofiche. «Oggi», ha sottolineato Lattanzi, «abbiamo a disposizione varie tecniche che ci consentono di affrontare il problema in modo scientifico e ottenere risposte verificabili».

Dodici anni di osservazioni e la scoperta della «super Terra»

La “seconda rivoluzione copernicana”, che ha fatto cadere l’ultimo tabù antropocentrico dell’astronomia, cioè l’unicità del sistema solare, è iniziata nel 1995 quando fu annunciata la scoperta del primo pianeta al di fuori del Sistema solare. «Il 5 ottobre di 12 anni fa Michel Mayor e Didier Queloz, due colleghi dell’Osservatorio dell’Università di Ginevra», ha ricordato l’astronomo torinese, «annunciarono l’esistenza di un esopianeta di massa paragonabile a quella di Giove attorno alla stella 51 Pegasi. Da allora gli studi si sono susseguiti a un ritmo incalzante, sicché oggi sappiamo che esistono almeno 209 sistemi planetari e 241 esopianeti». Gliese 581c ricostruzione artistica Al gruppo di ricerca diretto da Michel Mayor va anche il merito di aver individuato, il 25 aprile del 2007, il primo pianeta con caratteristiche propizie allo sviluppo della vita. Gliese 581c, subito ribattezzato «super Terra», si trova a 20,5 anni luce da noi, nella costellazione della Bilancia, ha un raggio pari a una volta e mezza quello della Terra, una forza di gravità doppia e una massa cinque volte maggiore; la sua temperatura media oscilla tra 0 e +40°C, particolare che lascia aperta la possibilità dell’esistenza di acqua allo stato liquido sulla sua superficie.

I metodi di individuazione

Lattanzi ha quindi spiegato che il problema fondamentale nello studio degli esopianeti è l’impossibilità di osservarli direttamente al telescopio, date le enormi distanze alle quali si collocano (la stella più vicina al nostro Sole dista 40 mila miliardi di chilometri); inoltre la luce riflessa dai “nuovi mondi” è talmente fioca che si confonde con l’alone intenso che circonda la stella attorno alla quale orbitano. Escludendo dunque il metodo diretto come fonte di informazioni sui pianeti extrasolari, bisogna limitarsi ai metodi indiretti. Ce ne sono diversi, ma tutti basati sugli effetti che l’esopianeta induce sulla stella ospite.

metodo della velocità radiale «Il metodo più fruttuoso, al momento, è quello “delle velocità radiali”», ha puntualizzato l’esperto. «Si basa sulla constatazione che all’interno delle galassie le stelle si muovono con una velocità che, in pratica, si può ritenere costante; in presenza di un pianeta, però, per effetto della sua forza di attrazione gravitazionale, la velocità della stella subisce dei cambiamenti periodici. L’analisi spettrografica della luce proveniente dalla stella può rivelare tale variazione di velocità (tramite il cosiddetto effetto Doppler o red shift) e, in definitiva, consentire una stima della massa del pianeta e della sua periodicità orbitale».

Il metodo più recente è invece quello «dei transiti» e consiste nella rilevazione della piccola caduta di luminosità dovuta all’ombra che un pianeta lascia quando passa davanti alla sua stella. «Purtroppo», ha precisato Lattanzi, «questa tecnica funziona solo per la piccola percentuale di pianeti la cui orbita è quasi perfettamente allineata con il nostro punto di vista. Il satellite Corot, lanciato il 26 dicembre 2006, svolge proprio questo tipo di osservazioni».

Il metodo più vecchio, infine, di cui si occupa lo stesso Lattanzi, è quello «astrometrico»: «Il suo principale limite è dovuto al fatto che richiede una misura molto precisa del moto proprio di una stella: nel caso essa abbia un pianeta, il suo moto presenta lievi oscillazioni periodiche, tuttavia queste sono così piccole che i migliori telescopi esistenti non possono produrre misure abbastanza sicure».

I progetti futuri

Secondo Lattanzi novità consistenti giungeranno nei prossimi anni da una serie di missioni internazionali per lo più finanziate dalla Nasa e dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Jwst2 In particolare la Space interferometry mission (Sim) mira a determinare entro il 2015 la distanza di stelle relativamente vicine, ma con una precisione 100 volte maggiore di quella attuale. «Grazie a questa accuratezza delle misure sarà possibile rilevare i minuscoli (se considerata la distanza) spostamenti di una stella dovuti a un suo pianeta di massa terrestre». Il programma Sim sperimenterà anche una tecnica innovativa per diminuire la luce proveniente da stelle molto brillanti e vedere cosa si nasconde dietro l’alone luminoso: un primo tentativo per stabilire se è possibile vedere direttamente i fotoni provenienti da un pianeta.

Il Terrestrial planet finder (Tpf) o Darwin (nella variante dell’Esa) punta a individuare entro il 2025 i pianeti capaci di ospitare la vita. Si comporrà di più telescopi orbitanti connessi tra loro per ottenere una risoluzione tanto precisa da poter scattare vere e proprie fotografie ai pianeti che ruotano attorno ad altre stelle. «La sfida principale in questo caso», ha precisato l’esperto, «sarà potenziare il potere risolutivo, in modo da ottenere le immagini degli esopianeti non più come singoli punti, ma composte da più pixel. Le tecnologie necessarie a rendere possibile questa scommessa non sono ancora mature, tuttavia esse sono già allo studio nei migliori centri di ricerca e delle industrie spaziali più avanzate. Ciò che oggi appare solo futuribile potrebbe dunque diventare la realtà di domani: contiamo di scattare la prima fotografia dettagliata di un esopianeta simile alla Terra entro il 2050».

Informazioni importanti potrebbero arrivare ancora dal telescopio spaziale James Webb (Jwst), il successore di Hubble (Hubble space telescope, Hst) e che dovrebbe essere messo in orbita nel 2013 per studiare il residuo a infrarossi del big bang e, dunque, le condizioni iniziali di formazione dell’universo.

La formazione dei sistemi planetari e la «teoria nebulare»

Finora la scoperta di pianeti extrasolari ha posto più domande sulla formazione dei sistemi planetari (insieme dei corpi in orbita attorno a una stella) di quante risposte abbia potuto fornire. «Le conoscenze attuali», ha spiegato Lattanzi, «indicano che per la formazione di pianeti è indispensabile che le nubi cosmiche di gas (composte soprattutto da idrogeno ed elio) siano arricchite di “polvere”, ossia di particelle di materia solida formata dai più svariati elementi chimici». supernova nella Nube di Magellano Secondo tale «teoria nebulare» le nubi cosmiche di polvere non esistevano nella composizione iniziale dell’universo, ma solo dopo che una prima generazione di stelle ha terminato la propria esistenza passando per lo stadio di supernovae. Dall’esplosione primordiale (Big Bang) che generò il nostro universo si formarono, infatti, solo due elementi: l’idrogeno e l’elio. Da questi due elementi si formarono le stelle della prima generazione, che verosimilmente non possedevano pianeti. Durante la loro evoluzione, per effetto del progressivo collasso gravitazionale, le stelle “primarie” hanno prodotto elementi chimici più pesanti. L’esplosione con cui è terminata la loro vita ha poi disperso le diverse sostanze nello spazio interstellare, che è stato così arricchito di elementi pesanti, quali ferro e silicio, a disposizione delle stelle di seconda e terza generazione.

Ancora oggi quando nubi gigantesche di gas e polvere si contraggono per effetto della loro forza gravitazionale, formando infine nel loro centro una sfera di gas caldissimo (la stella di seconda o terza generazione) mentre i granelli di polvere riescono a sottrarsi al collasso della nube grazie alla sua stessa rotazione. Essendo più pesanti delle particelle gassose, vengono spinti verso l’esterno della nube dalla loro maggiore forza centrifuga. Riescono probabilmente a sfuggire al collasso anche elementi gassosi, soprattutto nelle parti più esterne della nube (data la loro maggiore distanza). Questo residuo di gas e polvere forma intorno alla stella “giovane” un disco o un sistema di anelli, all’interno del quale singole particelle di polvere entrano in contatto e si aggregano, formando nel corso di milioni di anni molecole sempre più grandi che, con la loro forza di attrazione, riescono a catturare sempre più facilmente altri frammenti di materia. Infine la forza di gravità riesce a formare sfere di materia gigantesche, che orbitano intorno alla stella del disco originario.

«Secondo la teoria nebulare occorrono almeno 50 milioni di anni prima che dal disco iniziale si possano formare pianeti», ha aggiunto Lattanzi. Grazie ad Hubble sono stati individuati oltre 200 dischi di polvere, che rappresentano il germe di altrettanti sistemi planetari. Si è anche scoperto che nella genesi dei pianeti viene utilizzata solo una minima parte del materiale contenuto nel disco originario. Si suppone quindi che l’attività delle stelle al centro dei sistemi planetari, attraverso il vento stellare, spazzi via l’eccesso di polvere dal sistema stesso. Questo potrebbe essere anche il motivo per cui i pianeti interni (come Mercurio, Venere, Terra e Marte nel Sistema solare) sono formati prevalentemente da carbonio, ossigeno e metalli, cioè gli elementi più pesanti; di contro, i grandi pianeti esterni (come Giove) sono composti quasi esclusivamente da idrogeno ed elio, sono dunque pianeti gassosi: alla loro distanza la pressione del vento stellare era troppo debole per spazzare via gli elementi leggeri. Gli asteroidi che, nel Sistema solare, si muovono nella fascia compresa tra Marte e Giove, potrebbero essere a loro volta residui del disco proto-planetario.

Alma osservatorio «I dischi proto-planetari», ha rivelato l’astronomo, «saranno uno dei principali campi di ricerca dell’Atacama large millimeter array (Alma), una schiera di 54 antenne di 12 metri di diametro più altre 12 di 7 metri, che formeranno un unico radiotelescopio gigante a 5.000 metri di altitudine sulle Ande cilene. Il termine del progetto Alma, nato alla collaborazione tra Nasa, Eso e agenzia spaziale giapponese, è previsto per il 2012».

Alla ricerca di vita extra-terrestre

Frank Drake «La ricerca di pianeti extra-solari», ha ammesso Lattanzi, «non è un impegno fine a se stesso. È chiaro che dietro c’è una motivazione più profonda, legata all’indole umana: individuare la presenza di altre forme di vita biologica». Altrettanto evidente è il fatto che, «nonostante l’enorme valore scientifico, la scoperta di forme viventi primordiali su un altro pianeta interesserebbe relativamente poco. Perché la vera domanda cruciale è: esistono altre forme di vita intelligente nell’universo?». A questo interrogativo tentò di rispondere già negli anni Sessanta Frank Drake, che propose una famosa equazione per stimare il numero di civiltà extraterrestri intelligenti presenti nella nostra galassia, con cui potremmo pensare di entrare in contatto. «La determinazione dei singoli fattori che figurano nell’equazione», ha spiegato l’esperto dell’Oato, «è molto difficile e manca gran parte delle informazioni necessarie anche solo a una stima approssimativa. I valori meno incerti sono il tasso di formazione stellare nella Via Lattea (stimabile in circa 10 per anno) e il numero di stelle che possiedono pianeti (all’incirca il 10% del totale). Tuttavia nessuno può dire quanti siano i pianeti in grado di ospitare forme di vita, in quanti effettivamente si sia sviluppata, in quanti si siano evoluti esseri intelligenti, in quanti vi siano intelligenze in grado (e con la volontà) di comunicare e, soprattutto, la durata temporale di queste ipotetiche civiltà evolute».

Seti ricerca rappresentazione artistica Alle speculazioni teoriche, fin dagli anni Sessanta, si sono affiancate le ricerche sul campo, soprattutto attraverso il progetto Seti (Search for extraterrestrial intelligence), volto a intercettare segnali radio di origine artificiale generati da civiltà non umane. «Una ricerca resa difficile da intrinseci limiti spaziali (incapacità di scandagliare l’intero universo in tutte le direzioni), tecnologici (inabilità a captare l’intera gamma di frequenze radio) e temporali (impossibilità di intercettare segnali provenienti da società tecnologiche estintesi milioni di anni fa)». Nonostante ciò il progetto prosegue, finanziato dal Seti Institute di Mountain View in California (costituito nel 1995 dopo l’abbandono da parte della Nasa), perché «nessuno ha ancora la prova dell’esistenza di vita intelligente extraterrestre, ma è comunque possibile o probabile che esista».

Siamo di nuovo al centro dell’universo?

«Se è vero che la soluzione dell’equazione di Drake non è alla nostra portata e che il progetto Seti non ha ancora prodotto risultati», ha concluso Lattanzi, «la ricerca di civiltà aliene è comunque uno stimolo speculativo importante per non cedere alla tentazione di un pregiudizio antropico “di ritorno”, che porrebbe nuovamente l’uomo al centro dell’universo come unica forma esistente di vita intelligente».