«Il surriscaldamento del clima è la sfida più grande che la nostra civiltà abbia mai dovuto affrontare, ben più grave del terrorismo». A parlare non è il solito catastrofista di turno, ma Sir David King, capo consulente scientifico del governo britannico e tra i massimi esperti mondiali in tema di cambiamenti climatici. «Il terrorismo catalizza da anni tutti i più importanti sforzi dei governi. E intanto non ci accorgiamo di avere “un elefante nella stanza”, come si usa dire in inglese per sottolineare l’enormità dei problemi che abbiamo sotto il naso e che non vengono affrontati con sufficiente urgenza. La caldissima estate del 2003 ha causato oltre 30 mila vittime in Europa: confrontiamole con quelle del terrorismo… Con ciò non voglio dire che quest’ultimo si debba sottovalutare, ma che si dovrebbero fare almeno gli stessi sforzi». Del resto, incalza King, «i cambiamenti climatici, se non gestiti in tempo, saranno causa non solo di nuovo terrorismo, ma di guerre e conflitti: le migrazioni di popoli sottoposti a disastri meteorologici, l’aumento del livello dei mari, la competizione per le risorse energetiche, idriche e alimentari, l’aumento della popolazione, le epidemie sono tutte bombe innescate, pronte a far saltare in aria la stabilità geopolitica».
A Torino nei giorni scorsi per ricevere la sua undicesima laurea honoris causa, il professor King ha fatto il punto della situazione e dei possibili rimedi. «Quella dell’estate 2003 diventerà la temperatura media dell’Europa centrale nel 2050», avverte l’esperto. «Dobbiamo prepararci: alcuni cambiamenti sono ormai inevitabili. Se anche riuscissimo a bloccare completamente le immissioni di gas serra nell’atmosfera, occorrerebbero 25-30 anni per recuperare le trasformazioni già avviate. Quindi il primo messaggio che vorrei far passare è che certamente dobbiamo compiere ogni sforzo per ridurre le emissioni a livello globale, ma anzitutto dobbiamo prepararci ad affrontare nel modo migliore le condizioni che inevitabilmente si profilano al nostro orizzonte». Per il professore i modelli di calcolo attuali sono sufficientemente accurati per prevedere cosa accadrà Paese per Paese: «I governi devono prenderne atto e fare adeguati investimenti per gestire i cambiamenti ormai imminenti».
Secondo King per scongiurare la catastrofe globale e il punto di non ritorno dovremo impegnarci a non superare le 450 ppm (parti per milione) di CO2 nell’atmosfera: oggi siamo a quota 383 ppm, con un incremento medio di 2 ppm all’anno. «I nostri sistemi di previsione stimano che, a fronte di 450 ppm di CO2, la temperatura media potrebbe salire di 1,5-3,8°C, mentre con 550 ppm di CO2 l’incremento sarebbe di 3,8-5°C e le conseguenze sarebbero talmente gravi da risultare del tutto ingestibili». Un aumento delle temperature medie di +5°C provocherebbe, tra l’altro, lo scioglimento progressivo di tutti i ghiacci della Groenlandia, il livello del mare salirebbe di 6,5 metri e grandi città come Londra, Shangai, New York, Tokyo, Hong Kong verrebbero completamente sommerse. Centinaia di migliaia di persone inizierebbero a spostarsi da una regione all’altra premendo sulle popolazioni locali e innescando nuovi conflitti. Un’ipotesi che, purtroppo, è già realtà: «Il conflitto del Darfur, nel Sudan occidentale», ricorda King, «negli ultimi dieci anni ha causato 200 mila morti e 2 milioni di profughi ed è stato innescato dal cambiamento climatico».
L’esperto inglese non si ferma alle speculazioni teoriche e lavora con determinazione per mettere a punto interventi correttivi. Ha collaborato per due anni e mezzo con altre centinaia di scienziati, ingegneri, economisti per suggerire al governo britannico quali politiche attuare per gestire i cambiamenti climatici che si verificheranno nei prossimi anni. «Nel 2003, dinanzi allo stallo degli accordi internazionali, il Regno Unito ha deciso di non negoziare più e procedere unilateralmente per scongiurare il peggio», spiega King. «In questo modo, nel 2006 abbiamo potuto ridurre del 15% le nostre emissioni di gas serra rispetto al 1990 e arriveremo al 20% entro il 2020, ben oltre i livelli fissati a Kyoto. Nello stesso periodo la nostra economia è cresciuta del 40%, a dispetto di chi come gli Stati Uniti teme che le politiche di abbattimento dei gas serra possano danneggiare il benessere del Paese».
L’obiettivo del governo britannico è ridurre le emissioni di CO2 di un ulteriore 40% entro il 2050. Come? «Anzitutto incoraggiando il ricorso alle energie rinnovabili in tutti i settori», risponde il consulente governativo. «Altrettanto importante sarà l’efficienza energetica contro gli sprechi, con interventi decisivi soprattutto nell’edilizia, ferma purtroppo all’età vittoriana. Procederemo inoltre alla costruzione di nuovi impianti nucleari, che producono energia a impatto zero in termini di emissioni climalteranti; renderemo più efficienti i trasporti pubblici e privati; e realizzeremo impianti di micro-generazione decentrata, con l’obiettivo di avere edifici sempre più autonomi». Un ulteriore supporto arriverà dalle ricerche dell’«Istituto per le tecnologie dell'energia», un progetto lanciato ad aprile 2006 e che verrà finanziato per metà dal governo inglese e per metà dalle imprese private, tra cui colossi come Bp, Shell, Edf, E.on, Caterpillar, Rolls Royce e Tesco. In tutto sarà investito un miliardo di sterline. Obiettivo prioritario: trasferire in tempi brevi al mercato i risultati della ricerca accademica.
Sul fronte tecnologico, secondo King, buone prospettive giungono dall’idrogeno, che al momento però «richiede ancora sostanziali miglioramenti in tutte le fasi del processo produttivo/distributivo e per diventare un vettore energetico diffuso dovrà attendere ancora 30-40 anni». E 25-50 anni occorreranno anche per il passaggio dalle grandi centrali energetiche alle piccole postazioni di produzione distribuita (microgenerazione). Quanto alla fusione nucleare, le principali aspettative vengono dal programma ITER, a cui stanno collaborando Unione europea, Giappone, Russia, Corea del Sud, Cina, India e Stati Uniti, con un investimento totale di 5 miliardi di euro. «Credo che potremo avere impianti di fusione efficiente entro 40-50 anni purché», puntualizza King, «la ricerca non si concentri solo sulla fisica del plasma, ma anche su quella dei materiali, perché per gestire impianti del genere occorreranno materiali ad altissima prestazione».
Il caso del governo inglese, che nell’arco di pochi anni ha posto i cambiamenti climatici tra le proprie priorità di intervento, ha prodotto in Sir David King un sostanziale ottimismo: «La sfida è immane, ma possiamo farcela: abbiamo la tecnologia, le competenze, le risorse economiche. Per riuscire è tuttavia indispensabile la spinta della volontà congiunta dei governi del pianeta. Condividiamo tutti la stessa atmosfera, per cui le azioni dei singoli si ripercuotono, in bene e in male, sull’intera comunità».
Purtroppo finora gli accordi internazionali come il Protocollo di Kyoto non solo non sono stati ratificati a livello globale, ma sono disattesi dagli stessi firmatari. «Mettere d’accordo con qualche riunione 187 Paesi, ognuno con sei rappresentanti diplomatici, è estremamente difficile», ammette King. «Anche perché si scontrano le esigenze di realtà che hanno emissioni di CO2 pro capite pari a 24 ton/anno come gli Stati Uniti e realtà con medie di 1,9 ton/anno come l’India, dove tuttavia il livello di inquinamento nazionale è destinato a salire in modo sostanziale a causa del rapido sviluppo economico-industriale». Qualche passo avanti in realtà si è fatto, ma secondo King «al di là degli accordi globali, bisogna puntare alle intese bilaterali: ogni Paese industrializzato dovrebbe intessere relazioni con altre nazioni in via di sviluppo, aiutandole ad esempio a sostenere i costi del mantenimento delle foreste e a rinunciare ai guadagni economici che otterrebbero dal loro abbattimento. Ma credo che anche nel “gruppo dei pari” si possano trovare intese».
D’altronde nei giorni scorsi un radicale cambiamento di rotta è giunto proprio dagli Stati Uniti che, pur responsabili del 22% di CO2 immessa nell’atmosfera a livello globale, non hanno mai voluto ratificare accordi internazionali per timore di ripercussioni sulla crescita economica: il 14 maggio George W. Bush ha imposto all’Agenzia federale per l’ambiente (Epa) e ai ministeri di Agricoltura e Trasporti di lavorare assieme per elaborare un piano che abbatta le emissioni di gas serra nell’atmosfera e riduca la dipendenza americana dal petrolio straniero. Le misure dovranno essere pronte per quando scadrà il secondo mandato di Bush alla Casa Bianca, cioè per gennaio 2009. La presa di posizione del Presidente arriva dopo che, in aprile, la Corte suprema americana aveva accolto il ricorso di associazioni ambientaliste e 12 Stati federali, imponendo al governo di Washington di occuparsi dell’emergenza climatica e regolare (tramite l’Epa) la quantità di emissioni inquinanti prodotte dai singoli Stati federali. Fino a quel momento Bush non aveva voluto intervenire sostenendo che sia i gas di scarico delle auto sia le sostanze inquinanti prodotte nel ciclo industriale non erano materie regolabili a livello federale, ma erano di competenza dei singoli Stati.
Oltre ai governi, secondo il professor King, anche i singoli cittadini dovranno darsi da fare: «Non solo per sollecitare l’intervento degli amministratori», spiega, «ma anche per innescare un profondo cambiamento culturale: l’oggetto della nostra ammirazione non dovrà più essere il Suv ultra-potente e super-inquinante, ma l’abilità nel risparmiare energia. E siccome la cultura riguarda ciascuno di noi, saranno le nostre scelte quotidiane a fare la differenza».