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Crisi energetica

Cambiamenti climatici e conseguenze derivanti, sul tema si è confrontato un gruppo di esperti invitati dal Politecnico di Torino.

Il deserto del Sinai sommerso in 24 ore da oltre 200 mm d'acqua con interi villaggi allagati; inondazioni in Giordania e Israele; piogge torrenziali in California e centinaia di abitazioni evacuate per il rischio smottamenti. No, non è la descrizione del day after atomico, ma "solo" il bollettino meteo mondiale pubblicato su «La Stampa» del 27 gennaio. Il cambiamento climatico è ormai sotto i nostri occhi e avrà conseguenze sempre più gravi. Circa un anno fa a Torino Sir David King, consulente del governo inglese, spiegava che la Gran Bretagna è uno dei Paesi più colpiti dall'innalzamento della temperatura media globale e che tra le priorità dell'agenda politica inglese c'è lo studio delle possibili contromisure a ciò che è ormai inevitabile. E, in effetti, nei mesi scorsi i mass media hanno parlato spesso dei disastri causati dal maltempo a quelle latitudini: prima rovesci di eccezionali quantità d'acqua, poi nevicate che per giorni hanno paralizzato il Paese.

Copenhagen - Vertice sul clima 1 Questi sono stati gli argomenti all'ordine del giorno al Vertice di Copenhagen, a cui lo scorso dicembre hanno partecipato 192 Paesi riuniti sotto l'egida Onu, e queste sono state anche le problematiche che hanno fatto da sfondo alla prima delle conferenze organizzate dal Politecnico di Torino nell'ambito delle celebrazioni per i 150 anni dalla sua fondazione. A confrontarsi sulla «Crisi energetica», lo scorso 20 gennaio 2010, un gruppo di esperti eterogeneo: Luigi Bonanate, docente di relazioni internazionali all'Università di Torino; Corrado Clini, direttore generale del Ministero dell'Ambiente (di ritorno da Copenhagen); e Alberto Clò, docente di economia industriale e dei servizi pubblici (Università di Bologna), introdotti da Piero Bianucci, giornalista scientifico, e da Michele Calì, professore del Dipartimento di Energetica al Politecnico di Torino. Il quadro finale è stato tanto obiettivo e convincente quanto allarmante per la convergenza delle argomentazioni su una tesi: il cambiamento climatico è reale, ma non possiamo fare nulla per contenere l'incremento delle concentrazioni di anidride carbonica che ne è alla base. Alla faccia di quanto stabilito al Vertice danese e cioè di contenere l'aumento della temperatura a non più di 2°C entro il 2030.

Sentirlo dire dai "soliti" catastrofisti fa un certo effetto, ma apprenderlo dalla bocca di ingegneri e politologi è un pugno nello stomaco. Grafici e statistiche alla mano, Corrado Clini ha spiegato che, per raggiungere l'obiettivo di Copenhagen e scongiurare catastrofi climatiche a cui non sapremmo porre rimedio, occorrerebbe ridurre le emissioni globali di CO2 del 50 per cento entro i prossimi vent'anni. Peccato che, analizzando gli stessi dati, si deduca che entro il 2030 non solo le concentrazioni dannose non diminuiranno, ma aumenteranno del 50 per cento. «Per attuare una reale inversione di tendenza occorrerebbe impedire lo sviluppo dei Paesi del Secondo e Terzo mondo come Cina, India, Corea o Brasile. E bisognerebbe vietare loro anche di alimentarsi meglio e consumare carne; infatti per produrre un solo chilogrammo di carne bovina si emette una quantità di anidride carbonica pari a quella prodotta da un'auto che percorra 250 km». Ma quale politico si assumerebbe simili responsabilità? «Il vertice danese è fallito», ha proseguito Clini, «non perché manchi la volontà di affrontare il problema, ma perché nel risolverlo non si può escludere il diritto allo sviluppo dei Paesi poveri e, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, nessuno sa come garantirlo». Uno scenario reso ancora più angosciante dalla constatazione che gli investimenti in ricerca e nuove infrastrutture energetiche si sono progressivamente ridotti nel tempo.

«Anche il Protocollo di Kyoto non è stata una risposta valida», ha proseguito Clini, «perché ha fissato impegni e obiettivi a cui Cina e Stati Uniti, i principali inquinatori del pianeta, non intendono sottostare. Sappiamo tutti che il governo cinese è disposto a tutto pur di raggiungere lo sviluppo economico e industriale, e credo che anche il Congresso Usa non approverà mai la legge sulla riduzione delle emissioni di CO2 caldeggiata da Barack Obama. Dobbiamo ripartire da zero e verificare la praticabilità delle diverse opzioni tecnologiche, a cui dovranno concorrere tutte le nazioni, consapevoli che il rischio a cui andiamo incontro è grave».

«La ricerca e la tecnologia sono attori primari in questa sfida», ha concordato Alberto Clò, «ma la soluzione dipende anzitutto dalle scelte politiche, perché è alla politica che spetterebbe il compito di definire gli interessi generali verso cui far convergere la libera azione dei soggetti economici, degli organismi scientifici, delle autorità che regolano i mercati». Tuttavia, secondo l'esperto, nei Paesi occidentali la politica ha mancato il suo mandato e «il dato più critico in cui si sostanzia questo fallimento è la scarsità delle risorse dedicate a ricerca e sviluppo, oggi pari a un quinto di quelle impegnate all'inizio degli anni Ottanta».

Copenhagen - cambiamenti climatici A cosa si deve questa débâcle della politica? A tre fattori in particolare per Clò: «Anzitutto la scelta dei Paesi sviluppati di delegare ogni decisione ai meccanismi e alle logiche del mercato, che ha avuto la sua sintesi più critica nell'assenza di qualsiasi intervento per arginare la rinnovata esplosione dei prezzi del petrolio, saliti da 15 dollari al barile nel 1985-2000 a 150 dollari nel 2008; lo shock delle fonti energetiche ha impattato sul ciclo economico, sospingendolo in una recessione sistemica, da cui non si ha ancora idea di come e quando si uscirà. Il secondo fattore è la dimensione globale delle sfide da fronteggiare, che da un lato rende le politiche nazionali sempre più inefficaci e costose e dall'altro accresce la correlazione tra le decisioni degli uni e degli altri. Infine l'irrompere di tematiche ambientali, sociali e politiche, per cui negli ultimi decenni ogni scelta ha finito per originare infinite e irrisolvibili controversie: il "nuovo" è comunque contrastato, anche se il "vecchio" è condannato. Per i governi delle democrazie liberali la ricerca ossessiva del consenso e del soddisfacimento della "volontà popolare" è divenuta prioritaria su ogni altra esigenza e i processi decisionali restano paralizzati».

Secondo l'economista il dato strutturale da cui partire è la "fame di energia" del mondo, specie di quello povero: «È inaccettabile sotto il profilo etico che i Paesi occidentali lancino strali contro la pretesa delle popolazioni povere di ridurre anche solo marginalmente lo scarto dei livelli di consumo energetico pro-capite. Sconfiggere la povertà energetica è la questione morale che i Paesi sviluppati, utilizzatori e dissipatori di energia, non possono eludere».

Anche Luigi Bonanate, allievo di Norberto Bobbio, è partito dall'«immoralità della situazione storica creata, e ora difesa, dal mondo occidentale rispetto al diritto fondamentale all'eguaglianza nella proprietà della Terra». Il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ha proseguito il professore, ha comportato «una sorta di omologazione dei modelli di vita, per cui le differenze non sono più tra comunisti e capitalisti, ma tra ricchi e poveri». Ma ora che siamo liberi dalle «pastoie ideologiche» a quali modelli di sviluppo possiamo attenerci? «Il mondo deve essere capace di un'altra rivoluzione», ha risposto, «un cambiamento radicale che porti alla creazione di una società democratica planetaria, dove per "democratica" intendo pacifica e non violenta». Purtroppo, ha concluso, «l'ufficio studi strategici della Cia stima che il 2025 sarà l'anno più pericoloso della storia dell'umanità, perché saremo prossimi a una nuova guerra mondiale. D'altronde negli ultimi cinque secoli abbiamo avuto in media un conflitto ogni cento anni. Evidentemente, nella sua storia plurimillenaria, il nostro pianeta ha sentito di tanto in tanto l'esigenza di autodistruggersi per ricostruirsi. Perché, quando lo sviluppo e il progresso hanno raggiunto i loro limiti e non possono più spostarli in avanti, resta solo la distruzione a fini di ricostruzione». E il pensiero corre alle parole di Albert Einstein: «Non so con quali armi verrà combattuta la Terza guerra mondiale, ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre».

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