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Cosa cambia dopo il vertice di Copenhagen? Il parere di Luca Mercalli

Il 19 dicembre a Copenhagen si è chiuso il vertice Onu sui cambiamenti climatici. Nel comunicato finale tutte le nazioni, comprese quelle che fino all'ultimo hanno osteggiato l'intesa gridando allo scandalo, hanno «preso atto» che, anche se non sufficiente, il documento servirà da base di lavoro per il futuro.

Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon l'intesa «è una prima tappa essenziale» e «faremo di tutto perché diventi Copenhagen - Vertice sul clima 1 legalmente vincolante entro il 2010». Per il presidente venezuelano Hugo Chavez, invece, il vertice «è stato un fallimento»; dello stesso avviso il sudanese Lumumba Dia Ping, capo del G77 (il gruppo che a Copenhagen rappresentava i Paesi più poveri della Terra), secondo il quale l’accordo raggiunto «è il peggiore della storia», un nuovo «Olocausto», perché condanna il popolo africano all'incenerimento. Decisamente più morbidi i giudizi dei leader occidentali: il presidente Usa Barack Obama ha parlato di «un'intesa imperfetta»; Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, rappresentanti autorevoli di un'Europa che vanta il primato mondiale di riduzione delle emissioni di gas serra, si sono dichiarati delusi, ma allineati con il pensiero di Obama.

E qual è il giudizio degli addetti ai lavori, di chi cioè ogni giorno studia e interpreta i fenomeni atmosferici per comprendere in quale direzione vada il clima? Luca Mercalli, climatologo con oltre 25 anni di esperienza, presiede la Società Meteorologica Italiana ed è giornalista scientifico appartenente al Climate broadcast network dell'Unione europea, ma ai più è noto come ospite fisso della trasmissione «Che tempo che fa» su Rai3.

Dottor Mercalli, dopo 13 giorni di discussioni, alla fine, i delegati alla Conferenza Onu hanno rinunciato alla procedura abituale di votare punto per punto il documento e si sono limitati a «prendere nota» dell'intesa. Da Copenhagen, dunque, non solo non è uscito un trattato, ma neppure un accordo politicamente vincolante. Che bilancio fare del vertice nel complesso?

Luca Mercalli Ho visto il documento di sintesi finale e non so se liquidarlo frettolosamente come un fallimento o piuttosto leggerlo come un successo a metà. Perché se è vero che non si è raggiunto un accordo soddisfacente, è pur vero che il processo decisionale era tra i più complessi che l'umanità abbia mai dovuto affrontare. Il fatto che i principali capi di Stato abbiano partecipato e ci sia stata una discussione serrata indica che il problema è ormai tra le priorità dell'agenda politica internazionale, e dunque in futuro ci si lavorerà ancora. Insomma non mi sento di dare un giudizio negativo, purché nei prossimi mesi ci siano nuovi incontri (come quello già in calendario a Città del Messico per fine 2010) e si arrivi a definire concreti piani operativi. Non credo che alcuni mesi di ritardo stravolgeranno lo stato delle cose.

Uno dei nodi principali affrontati a Copenhagen è il costo degli interventi necessari a ridurre le emissioni climalteranti. La spesa è davvero così gravosa?

Niente affatto. A questo riguardo occorre fare un grande sforzo informativo. Spesso, infatti, si ha la sensazione che i soldi necessari per limitare il surriscaldamento terrestre siano sprecati. È curioso, perché in tutto il mondo si destinano miliardi e miliardi di dollari per le spese militari, e cioè per uccidere persone e distruggere case, ma nessuno obietta nulla. Con i soldi che si erogano per contrastare i cambiamenti climatici non si ammazza nessuno e, semmai, si costruisce nuovo benessere e nuova conoscenza. Si aggiunga che, in piena crisi economica ed energetica, gli investimenti in nuovi sistemi energetici sono un toccasana perché a lungo termine producono risparmio e creano nuovi posti di lavoro. Senza contare le ricadute geopolitiche: gli stanziamenti contro il surriscaldamento del pianeta, infatti, servono a scongiurare situazioni di conflitto provocate dallo spostamento in massa di milioni di profughi dalle aree più colpite.

L'intesa raggiunta a Copenhagen accorderà corposi finanziamenti ai Paesi più deboli che si adopereranno per ridurre le proprie emissioni climalteranti (10 miliardi di dollari all’anno per il periodo 2010-2012 e poi 100 miliardi di dollari all’anno per il periodo 2013-2020), ma non è prevista alcuna verifica internazionale degli impegni presi. Senza questo nodo cruciale che portata ha l'intesa?

In effetti quello dei controlli sarà uno dei nodi principali da sciogliere nei prossimi mesi, altrimenti fiumi di denaro saranno erogati senza sapere di preciso a quale fine. Credo che un deciso passo avanti in tale direzione si compirà solo se comprenderemo che le somme stanziate contro i cambiamenti climatici non sono denaro sprecato, ma investimenti utili in ogni caso, indipendentemente dal clima.

A ridosso del vertice è scoppiato lo "scandalo delle e-mail", da cui sembra che alcuni scienziati inglesi alterassero i dati per supportare le evidenze del surriscaldamento terrestre. Purtroppo ciò ha dato manforte agli scettici...

In realtà non c'è alcuno scandalo. In quei messaggi di posta elettronica, infatti, non c'è nulla di strano: riportano litigi tra ricercatori messi sotto pressione proprio dai negazionisti che ora li mettono alla gogna. Gli scienziati inglesi non hanno retto alla frustrazione e hanno usato toni poco convenienti, ma comunque riservati. Resta il fatto che nelle loro e-mail non ci sono evidenze di corruzione o alterazione di dati. E poi, se consideriamo i risultati che giungono da tutto il mondo, fino a che punto conta la veridicità delle ricerche della East Anglia University in Inghilterra, se molte altre arrivano alle medesime conclusioni? I ghiacciai si ritirano e non si possono truccare! Insomma: al di là del gossip scientifico, la realtà fisica del mondo è una e incontrovertibile.

Copenhagen - cambiamenti climaticiAnche i mass media fanno la loro parte nel creare confusione. Un quotidiano nazionale, ad esempio, il 6 dicembre è uscito in edizione speciale sull'emergenza climatica (parlando addirittura de «La nuova guerra mondiale» che ci attende), ma il 28 ottobre dedicava un'intera pagina alle tesi del «climatologo eretico» Mojib Latif, secondo il quale dovremmo attenderci un decennio di inverni gelidi. Perché tanta incoerenza?

Credo sia dovuta principalmente al fatto che certi giornalisti sono poco competenti in materie scientifiche. Inoltre per questioni ideologiche: i dati scientifici non dovrebbero avere nulla a che fare con l'ideologia politica, eppure la questione ambientale è spesso etichettata politicamente, così capita che all'interno di uno stesso giornale possono esserci redattori di diverse tendenze, e pur vigendo una certa linea editoriale, alla fine ciascuno dice la sua e il risultato può essere dissonante. Il terzo elemento deleterio è la ricerca dello scoop a ogni costo. Il giornalista magari non capisce nulla e non è del settore, ma l'articolo su complotti, truffe e inganni vende bene. Sono espressioni di un giornalismo malato e frettoloso, ma in un giorno possono rovinare anni di informazione seria e puntuale costruita con i condizionali al posto giusto.

È da poco in libreria il volume «Che tempo che farà» (ed. Rizzoli, pagg. 304), che lei stesso ha curato assieme allo staff scientifico della Società meteorologica italiana. Tra le altre cose, descrivete il futuro che ci aspetta. In che condizioni vivremo tra 20-30-50 anni?

Senza scendere nei dettagli, perché non è possibile immaginare i particolari di uno scenario tanto in là nel tempo, la previsione più o meno condivisa dalla comunità scientifica è che vivremo come nella rovente estate del 2003: è un riferimento concreto, che consente a tutti di capire facilmente quali saranno gli effetti dell'aumento delle temperature.

Nello stesso libro spiegate quali sono gli accorgimenti da adottare per limitare i danni. Cosa possiamo fare come singoli e come collettività?

Come ho detto prima, occorre anzitutto investire in ricerca, innovazione ed efficienza. Riguardo ai comportamenti quotidiani, è importante ricordare che il consumo energetico è ripartito in tre grandi aree. I trasporti incidono circa per un terzo e, in questo ambito, si possono fare scelte responsabili anche individualmente. Possiamo, ad esempio, comprare auto più piccole e abolire i suv (fuoristrada da città); possiamo sfruttare di più i mezzi pubblici, usare la bici o anche non spostarci affatto, partecipando a una teleconferenza anziché prendere l'aereo. I consumi domestici coprono un altro trenta per cento del totale. Proprio questi giorni freddi ci insegnano che le nostre case consumano troppo, perché sono di vecchia concezione. Possiamo installare i doppi vetri basso-emissivi, comprare una caldaia a condensazione o una pompa di calore, far rivestire l'esterno dell'edificio con un "cappotto", isolare il solaio, mettere i pannelli solari... operazioni che tra l’altro godono di incentivi statali. Le attività industriali rappresentano l'ultimo trenta per cento dei consumi energetici: in questo caso la nostra manina sullo scaffale del supermercato può fare la differenza. Per esempio a Natale è bene evitare le fragole, che arrivano in aereo da chissà dove, e preferire mele e arance nazionali.

L'energia nucleare può essere una soluzione?

centrale nucleare Non completamente. Spesso si la si gabella come fonte energetica pulita, mentre in realtà produce molte emissioni: a partire dalle attività estrattive nelle miniere di uranio, passando per la fase di costruzione delle centrali, fino allo smantellamento degli impianti alla fine del ciclo produttivo. È chiaro che l'impatto sull'ambiente e sul clima non è affatto pari a zero (seppur sempre inferiore a quello del petrolio). E poi c'è il problema delle scorie, che non è ancora stato risolto. Allora dico: parliamone pure, ragioniamoci sopra, ma non presentiamo il nucleare come un toccasana. È giusto che chi ha già centrali atomiche come la Francia le sfrutti fino alla fine, ma chi punta sulla costruzione di nuovi impianti persegue una soluzione anacronistica, che lascia aperti molti problemi.

E le ricerche sulla fusione nucleare portate avanti in Provenza dal progetto Iter?

Sono sacrosante. Tanto più se si pensa che richiedono pochi soldi: circa dieci miliardi di euro in trent'anni, l'equivalente di qualche aereo caccia-bombardiere.

Spesso i sostenitori del nucleare affermano che le fonti alternative sono ancora inefficienti e dunque non ci si può basare su esse. Come replica?

Dico che, se avessimo ragionato così, i cellulari di vent'anni fa, che erano estremamente inefficienti (pesavano quanto due mattoni, la batteria durava un paio di ore e costavano come lo stipendio di un dirigente), si sarebbero dovuti abbandonare e oggi non ne avremmo tre a testa (e grandi quanto una scatola di fiammiferi). Qualsiasi tecnologia è destinata al fallimento, se non si investe in ricerca e innovazione.

Secondo il rapporto dell'associazione ambientalista Germanwatch, presentato a Copenhagen, l'Italia è terz'ultima (sui 57 Paesi responsabili di oltre il 90 per cento dell'emissione di gas serra) nella riduzione di CO2. Qual è il problema?

Il problema è anzitutto culturale: il nostro è un Paese ignorante (dal punto di vista scientifico) e rissoso. Tutto viene risolto con il conflitto ideologico, invece che con la discussione basata sui numeri. Il secondo ostacolo è di tipo economico. Le lobby che hanno interesse a mantenere lo status quo faranno di tutto perché nulla cambi. Ma è un atteggiamento miope, perché certi cambiamenti sono lenti e quindi, se anche uno avesse un interesse forte in un certo settore, avrebbe tutto il tempo di convertire la propria attività.

Potrebbe giovare qualche forma di controllo esterno?

Non credo. Nel 2007, ad esempio, la Commissione Ue ha preso un impegno molto preciso, che vincola entro il 2020 i Paesi membri a ridurre le emissioni di gas serra del 20 per cento, ad aumentare del 20 per cento la quota di energia da fonti rinnovabili e a incrementare del 20 per cento l'efficienza energetica (è il famoso «Accordo 20-20-20»). Ovviamente anche il nostro Paese rientra nell'intesa, ma non la segue, perché non ne siamo convinti. La Germania, al contrario, marcia spedita in quella direzione, perché là tutti sono persuasi della necessità di certe soluzioni. Ritengo che l'unica leva davvero efficace per invertire la rotta sia quella culturale, perché solo un cittadino informato può stimolare i propri rappresentanti a compiere determinate scelte piuttosto che altre.

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