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Biocarburanti, dalle speranze ai dubbi

In Europa i trasporti sono i maggiori responsabili dell’aumento delle emissioni a effetto serra. L’uso dei biocarburanti, nati come alternativa sostenibile alle risorse fossili, è oggetto di riflessioni e critiche.

Nel gennaio scorso la Royal Society ha presentato il rapporto “ Biocarburanti sostenibili : prospettive e cambiamenti ” in cui ribadisce la necessità di sostenere con appropriati strumenti di regolamentazione ed economici lo sviluppo dei biocarburanti per evitare il rischio di incastrare questo nuovo tipo di filiera in una catena di produzione inefficace, con prevedibili conseguenze dal punto di vista sociale ed ambientale. L’Unione Europea, già indirizzata a far ricorso entro il 2020 ai biocarburanti per una quota pari al 10% del proprio fabbisogno , si trova a dover fare importanti considerazioni sulle nuove risorse: i punti critici riguardano essenzialmente le emissioni in CO2 che esse generano e le conseguenze, ambientali e sui prezzi delle derrate alimentari, che provocano.

Paralisi da traffico Sul primo punto, ci sono ad esempio dubbi, espressi da esperti inglesi, sui parametri considerati per valutare le emissioni. I modelli utilizzati dalla Commissione Europea non terrebbero conto infatti degli effetti indiretti causati dalla destinazione di campi ed aree forestali alla produzione di biocarburanti : una foresta sequestra infatti da 2 a 9 volte più di GES (Gas con Effetto Serra) di quanto succede destinando la stessa area alla coltivazione di piante per biocombustibili. Altri scienziati rilevano anche come l’obiettivo del 10% sarebbe raggiungibile destinando il 36% delle terre arabili europee per fini bioenergetici: togliere una parte così rilevante dei terreni agricoli all’uso alimentare avrebbe come conseguenza il ricorso all’importazione di molte derrate, e stimolerebbe la pratica della deforestazione.

Il premio Nobel Crutzen sostiene che la produzione di un litro di carburante derivante dall’agricoltura può contribuire a produrre fino a due volte gas ad effetto serra rispetto a quello prodotto dalla stessa quantità di un combustibile fossile. Anche se paradossale, la constatazione parte da un presupposto diverso da quello immaginabile: è infatti vero che la combustione di un biocarburante ha un effetto neutro dal punto di vista del bilancio in carbonio, perché in atmosfera viene rilasciato nient’altro che il carbonio contenuto nelle piante. Ma i lavori dell’insigne chimico e dei suoi collaboratori si sono focalizzati su altre emissioni, quelle in protossido d’azoto, generate dall’agricoltura intensiva: parte dei fertilizzanti a base di azoto largamente utilizzati per aumentare le produzioni vegetali vengono degradate in protossido d’azoto. Il tasso di conversione, stimato sinora all’1%, secondo Crutzen è invece da collocare tra il 3 e il 5% e visto che questo gas, a pari quantità, contribuisce 296 volte più dell’anidride carbonica all’effetto serra, il problema non è da sottovalutare. Il biodiesel ottenuto da colza, ad esempio, contribuirebbe al riscaldamento globale fino a 1,7 volte più di una pari quantità di combustibile fossile.

Biocarburante Le conseguenze ambientali derivanti dallo sviluppo delle coltivazioni per biocarburanti sulle terre agricole e forestali europee sono anch’esse problematiche: modificazione e distruzione degli ecosistemi, degradazione del suolo, deforestazione, aumentati consumi idrici. La domanda posta dall’OCDE (Organisation for Economic Co-Operatione and Development) nel suo rapporto annuale è infatti : biocarburanti, non sarà la cura peggio della malattia? A ciò si aggiunge l’aspetto economico, che riguarda l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, che non risulta solo dovuto all’aumento dei costi del petrolio, ma anche alla destinazione non alimentare delle aree coltivate. Quest’ultimo risulta un problema soprattutto per i Paesi meno avanzati, dove la produzione di materia prima per biocarburanti distoglie terre all’agricoltura tradizionale, facendo lievitare i prezzi dei beni alimentari di prima necessità.

La Commissione Europea dal canto suo, pur tenendo conto dei pareri sfavorevoli, garantisce che le aree considerate riserve di carbonio o quelle caratterizzate da elevata biodiversità non potranno essere per nessuna ragione convertite. Confida inoltre molto sulle cosiddette nuove generazioni di biocarburanti, che dovrebbero utilizzare come fonti di materia prima le piante non alimentari, come le essenze arboree a rapido accrescimento, o le parti di scarto delle coltivazioni, come culmi, steli, foglie e ramaglie. Il tema è sotto la lente della ricerca internazionale: già da tempo è infatti al lavoro per approfondire ad esempio il tema della conversione biologica, processo che, partendo dalla cellulosa dei vegetali, arriva ad ottenere glucosio e, per fermentazione, l’etanolo. Nella fattispecie, il Progetto europeo Nile (New Improvements for Ligno-cellulosic Ethanol ) ha tra i propri obiettivi la ricerca di enzimi adatti a estrarre il glucosio per idrolisi enzimatica dai residui vegetali, per conseguire una migliore velocità di conversione ed ottenere rendimenti elevati.

Piantagioni di pioppo, una possible fonte energetica Non manca naturalmente il filone di ricerca interessata a trovare i vegetali che potrebbero fornire i migliori rendimenti per le operazioni di conversione: dovranno infatti essere perenni (per non avere i costi di semina), rustici (per adattarsi a terreni poveri, non utilizzati da colture alimentari, e con poche necessità di fertilizzanti), a basso fabbisogno d’acqua e a rapido sviluppo. Il progetto Epobio li sta valutando. Oltre che sulle materie prime, i ricercatori pongono la loro attenzione anche sulla possibilità di utilizzare il materiale vegetale in un ambiente in cui, grazie all’azione combinata di alte pressioni, elevate temperature e scarsità d’ossigeno, le molecole di cellulosa vengono rotte e se ne estrae una miscela gassosa di monossido di carbonio e idrogeno, trasformabile poi in una sorta di cera d’idrocarburi dalla quale si arriva infine ad un carburante di sintesi. Da un punto di vista economico, per rendere l’intero processo di conversione realizzabile e concorrenziale sarebbe comunque necessario ottimizzare la filiera di produzione, per abbattere i costi, ed effettuare comunque importanti investimenti per rendere la trasformazione di livello industriale.

Come si vede, gli interrogativi sui biocarburanti di prima generazione restano molti. La Comunità si trova in ogni caso a dover trovare una risposta alle esigenze dei cittadini europei che si dimostrano sia poco propensi ai biocarburanti ma sensibili ai problemi dell’inquinamento. Ma soprattutto, in presenza di una crescente scarsità di carburanti fossili, sempre più costosi, con difficoltà desistono dall’uso dell’auto. Gli esperti dal canto loro suggeriscono di non puntare troppo sui carburanti di origine vegetale, ma piuttosto di continuare ad investire nella ricerca sui trasporti elettrici, sulle pile ad idrogeno, sul miglioramento delle prestazioni energetiche dei veicoli, mettendo in atto con maggiore vigore politiche rivolte a ridurre il trasporto privato a favore di quello pubblico e a trasferire il trasporto su gomma sulle possibili alternative ferroviarie, fluviali e marittime.

Per approfondimenti

http://ec.europa.eu/research/research-eu/oil/article_oil20_fr.html

Progetto NILE http://www.nile-bioethanol.org/

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