Dossier

Filologia classica

Tra Otto e Novecento: greco e latino ovvero lo scambio delle parti

Agli occhi dei seguaci del verbo filologico tedesco, l’arretratezza è impersonata nell’ateneo torinese da Tommaso Vallauri e si concentra attorno alla cattedra di Letteratura latina. Tuttavia, gli allievi del professore di latino non rivelano la stessa ostilità del maestro nei confronti della lezione metodica che viene dalla cultura tedesca.

Tra i primi scolari il nome più noto è quello di Giovanni Battista Gandino (Bra, Cuneo, 1827 - Bologna, 1905): formatosi negli anni che vedono la nascita della Facoltà di Lettere sabauda. Prima dell’avvento di Giuseppe Müller a Torino e all’indomani dell’Unità nazionale, Gandino è chiamato in qualità di professore di Letteratura latina all’Università di Bologna, città dove si compiono la carriera universitaria e il corso della vita. Della scuola vallauriana egli non perde la padronanza della lingua latina e l’abitudine a valersene per orationes o per carmina di natura celebrativa: la sua opera più fortunata è Lo stile latino (1893), volume che conosce ben 57 ristampe (fino al 1968) e su cui per oltre sette decenni gli aspiranti professori italiani si prepareranno per le prove di composizione latina dei concorsi a cattedra. Ma nel nuovo ambiente universitario Gandino matura una personale conversione dagli studi di grammatica e retorica alla linguistica comparata, prendendo così le distanze da Vallauri.

Sulla generazione successiva a Gandino comincia a farsi sentire il riflesso della dimensione storico-filologica promossa da Müller e dagli studi della scuola di linguistica. Altri allievi di Vallauri, come Felice Ramorino (Mondovì, Cuneo, 1852 - Firenze, 1929) ed Ettore Stampini (Fenestrelle, Torino, 1855 - Torino, 1930), abbandonano la germanofobia del maestro e si convertono alla filologia. Più serio e meno estroso tra i due, Ramorino perfeziona l’adesione al metodo tedesco a Firenze, dove approda all’Istituto di Studi Superiori come vincitore di concorso per Letteratura latina. Diviene così collega di Girolamo Vitelli, il maggiore esponente della filologia formale del periodo. Il distacco da Vallauri si coglie appieno nel manuale di Letteratura romana (Milano, Hoepli, 1886, 19118) composto da Ramorino poco più che trentenne secondo i modelli storiografici d’oltre Reno.

Se Ramorino si stabilisce a Firenze, capitale della filologia classica italiana tra Otto e Novecento, a Torino rimane - anzi, ritorna da Messina, dove è stato chiamato nel 1889 in seguito a concorso - Ettore Stampini come successore di Vallauri in qualità di titolare di Letteratura latina. Messi a dura prova da beghe accademiche, i rapporti col maestro si guastano anche sul piano del metodo col progressivo avvicinamento dell’allievo alle ragioni della filologia. Punto d’arrivo di tale processo è la collaborazione di Stampini con la Casa editrice Loescher, presso la quale assume duplice incarico: la direzione della «Rivista di Filologia» (1897-1923); la direzione della Collezione dei classici greci e latini annotati. Il trasloco nel campo dei dotti tedeschizzati degli allievi di Vallauri mostra come la difesa della tradizione retorica sia ormai priva di futuro. A ben vedere, però, Stampini appare figura di compromesso: filologo di buona preparazione ma poco originale, si fa apprezzare come studioso di Plauto, di Lucrezio, di Orazio e, in generale, di problemi metrici (antichi e moderni), anche se la sua produzione non è destinata a sopravvivergli; non dimentica tuttavia la tradizione erudita, in quanto da Vallauri eredita il gusto per la composizione latina in chiave celebrativa; su questo versante tutta da dimenticare è la tarda produzione di versi latini che inneggia al fascismo e a Mussolini.

La Letteratura romana di Ramorino è recensita sulla «Rivista di Filologia» (1886) dal giovane segusino Luigi Valmaggi (1863-1925), allievo di Stampini e futuro professore di Grammatica greca e latina nell’Ateneo torinese, studioso di Ennio e cofondatore - insieme a Giacomo Cortese (1857-1937) - del «Bollettino di Filologia Classica» che dal 1894 affianca, sempre per i tipi di Loescher, la rivista maggiore. Il giudizio di Valmaggi è positivo, ma non mancano garbate riserve sulla rigidità di partizioni per generi troppo sistematiche e sulla mancata attenzione verso la cultura tardo-antica e protomedievale. In realtà, questo secondo punto è disatteso, per ragioni di spazio e di programmi, quando Valmaggi pone a sua volta mano alla stesura di una Storia della letteratura romana per le scuole secondarie (Torino, Casanova, 1889, poi Sommario di storia della letteratura romana, ibid., 1891). Articolato in XVI Lezioni (fascino delle praelectiones antiche rivitalizzate dalla prassi germanica di Vorlesungen) che vanno dalle origini alla letteratura cristiana, il volume segue l’ordine cronologico, tiene distinte poesia e prosa e raggruppa le opere secondo i generi. Il testo sviluppa però contestualmente considerazioni di critica storico-letteraria che inglobano la storia della lingua e delle istituzioni, relegando in appendice le notizie biografiche sugli autori più importanti e meglio documentati. La ‘foggia tedesca’ con cui il giovane autore riveste l’impianto del manuale non cela qualche disagio circa la rigidità di uno schema che tratta separatamente la produzione di autori attivi in più generi. Ma c’è altro: preoccupato della situazione in cui versa l’insegnamento scolastico, Valmaggi inserisce brani corredati da traduzione e auspica futuri ampliamenti di spazi antologici contro le angustie delle convenzioni editoriali. Nella prolusione del 1892, La storia della letteratura romana e i suoi metodi di trattazione, Valmaggi affronta sul piano teorico quanto nel manuale ha tentato di realizzare in concreto. Sullo sfondo delle soluzioni storiografiche della filologia germanica si vuole conciliare l'esigenza di sistematicità e di efficacia didattica con le esigenze di rigore metodologico e di libertà di ricerca. Due anni dopo, in un’opera tributaria degli studi d’oltre Reno (Manuale storico-bibliografico di filologia classica), Valmaggi si mostra sensibile alle spinte positivistiche verso forme di asettica scientificità e mette in discussione l’impianto storicistico dell’enciclopedia filologica proposta da Wolf e Boeckh. Egli riconosce validità di metodo solo alla filologia formale e provoca la reazione difensiva di quanti si sono convertiti alla filologia come scienza storica. Al di là di scelte unilaterali, da Valmaggi si apprende che il problema è duplice: oltre a pensare, per così dire dall’alto, ad aggiornamenti o adattamenti dei modelli della storiografia letteraria e della filologia formale, bisogna fare i conti, dal basso, con la realtà scolastica quotidiana. E in qualità di uomo di scuola Valmaggi dà buona prova di sé: la sua Grammatica latina vanta non breve stato di servizio nel mondo dell’insegnamento secondario.

Mentre i docenti di latino si vanno schierando sul fronte della filologia, proprio dalla cattedra torinese di Letteratura greca, per mano del successore di Giuseppe Müller, scoppia contro i seguaci del metodo filologico tedesco un'accesa polemica -destinata a durare negli anni- che alla questione del modo di studiare i classici mescola punte di crescente nazionalismo antigermanico e schegge di filosofie irrazionalistiche e antipositivistiche. Ne è protagonista Giuseppe Fraccaroli (Verona, 1849-Milano, 1918), allievo a Padova di Eugenio Ferrai, attivo come docente a Torino dal 1895 al 1906 (per poi passare a Pavia nel 1915, dopo interruzione dall'insegnamento). All’epoca dell’arrivo a Torino proveniente da tirocinio universitario a Palermo e a Messina, Fraccaroli vanta discrete credenziali in campo filologico, per derivazione dall’insegnamento di Ferrai e per personale esperienza culminata con gli studi dedicati alla traduzione e all’interpretazione di Pindaro. Bene: è appunto lo studioso di Pindaro a dare il via alla polemica contro il metodo filologico e a munire la strada su cui procederà Ettore Romagnoli negli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra Mondiale.

Il manifesto della polemica, che prende di mira la scuola filologica fiorentina del “tedesco” Vitelli, è costituito da un ponderoso volume fraccaroliano dedicato al "mistero dell'arte", L'irrazionale nella letteratura (Torino, Bocca, 1903), uscito nell'anno in cui Benedetto Croce inizia a far conoscere, sulle colonne della neonata «Critica», principi e dimostrazioni della sua Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale, edita nel 1902. Non è tuttavia necessario cercare presupposti filosofici diretti per le posizioni di Fraccaroli: i raffronti con l'Estetica di Croce sono aggiunti qua e là in nota per segnare punti di convergenza su concetti d’ordine generale. Il volume registra qualche eco delle correnti antipositivistiche allora in circolazione, ma non eccede i margini di un provincialismo culturale che usa i classici per ascendere a vertici non troppo alti di portata teorica. Per Fraccaroli l'arte (in primis la poesia) è "attitudine creativa" dello spirito che genera immagini vive, come la vita che genera creature viventi; l'arte non ha dunque nulla in comune con la razionalità delle scienze e respinge metodi di analisi che pretendono di essere razionali o scientifici. L’arte si lascia 'conoscere' solo mediante atti intuitivi (irrazionali) capaci di afferrare l'intero processo creativo e coglierne l'intrinseca bellezza.

A Fraccaroli preme non tanto la pars construens della speculazione teorica, quanto la pars destruens, cioè l'attacco alla filologia del metodo scientifico che, a caccia di particolari, frantuma e uccide l'opera d'arte. Non a caso sono l'Iliade e l'Odissea a fornire molteplice campionatura di altezza artistica e costanti spunti di riflessione nell'arco del volume, il quale oppone la grandezza di Omero e l'unità poetica dei due poemi ai critici separatisti. Fraccaroli considera la 'questione omerica' come il frutto avvelenato dell'applicazione dell’esegesi razionalistica al fenomeno squisitamente irrazionale dell'arte.

Di fatto, con questo libro Fraccaroli crea le condizioni per l'incontro tra le nuove leve dell'antichistica italiana e il decollante neoidealismo crociano: Così la filologia - degradata presto a filologismo, a erudizione pedante fine a se stessa e sorda al bello - diventa il bersaglio verso il quale l'interprete di Pindaro e il filosofo dell'estetica conducono battaglie quasi parallele nel tempo e convergenti nei risultati. Chiusa la parentesi torinese, gli attacchi fraccaroliani non conoscono sosta: la filologia viene archiviata come estranea al mondo della poesia e inadeguata a svolgere effettiva funzione critica.

Fin qui la polemica è tutta interna all'accademia e prende di mira la filologia di stampo tedesco. Ma nel giro di pochi anni il clima che si crea in Italia alla vigilia e durante la Prima Guerra Mondiale sancisce il definitivo abbraccio tra nazionalismo antigermanico e la guerra dei 'nuovi' classicisti contro il metodo filologico. Mondo classico e coscienza nazionale è binomio caro a Fraccaroli, che così titola un intervento del 1914 comparso su «Rassegna contemporanea».

Su questo terreno per primo si è mosso Ettore Romagnoli (Roma, 1871-1938; professore di Letteratura greca a Catania, Padova, Pavia, Milano e infine nella capitale), il quale già in una conferenza pindarica del 1909 bolla il servilismo alla scienza straniera, per poi tuonare contro la "bestialità teutonica" e l'antipatriottismo dei seguaci italiani della filologia tedesca nel libello più noto dell'intera contesa: Minerva e lo scimmione (Bologna, Zanichelli, 1917). Il programma antifilologico e antitedesco di Romagnoli consiste nel relegare al rango di "sguattera" la filologia, che l'ottusa scienza tedesca ha promosso a signora della critica, col risultato di svilire ogni cosa per mancanza di gusto estetico. In attesa di questo salutare rovesciamento di ruoli, Romagnoli entra in polemica anche con Croce e denuncia la collusione tra l'indirizzo neoidealistico e indirizzo filologico-scientifico, figli entrambi della cultura germanica.

Il compito di rintuzzare le tesi di Romagnoli tocca a Giorgio Pasquali (Roma, 1885 - Belluno, 1952), che nel 1915 succede a Vitelli sulla cattedra fiorentina di Letteratura Greca e inizia una prestigiosa carriera, diventando in breve, nella sua qualità di "mediatore della scienza tedesca", princeps philologorum di casa nostra, punto di riferimento per quanti non riescono ad appassionarsi alla critica estetizzante.

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