Dossier

Le scienze economiche a Torino tra metà Settecento e metà Novecento

Nella seconda metà del Settecento: tra mercantilismo dominante ed emergere della riflessione classica e liberista con Giambattista Vasco

Il cinquantennio che va dalla metà del Settecento a fine secolo è un periodo di grande sviluppo della scienza economica in Europa. François Quesnay e la fisiocrazia nell’Europa continentale, Adam Smith e la scuola scozzese di scienze sociali in Gran Bretagna, ne sono le massime espressioni; ma il fiorire degli studi accomuna tutti i paesi, compresa Italia. Qui il livello della ricerca è elevato, e coincide con la stagione delle riforme nel quadro dell’assolutismo illuminato. I principali centri sono Napoli e Milano, dove emergono personalità quali Ferdinando Galiani, Pietro Verri e Cesare Beccaria.

A Torino gli studi economici non vissero un’altrettanto ricca stagione, ma personalità di rilievo non mancarono. Inoltre la cultura economica degli uomini della pubblica amministrazione era di buon livello, capace di indagare approfonditamente le condizioni economiche e finanziarie del Regno sardo. Si coglievano le suggestioni del nuovo pensiero e i progetti di riforme, come mostrano i rapporti su specifici problemi pratici e le indagini statistiche presentati al sovrano o ai capi dei corpi amministrativi, rimasti inediti e solo molti anni dopo riscoperti negli archivi. D’altra parte, la non professionalizzazione della disciplina fa sì che in questo periodo non si trovino economisti a tempo pieno, ma piuttosto cultori della materia, che viene intesa come complemento all’attività di governo. I loro lavori hanno per questo perlopiù carattere di occasionalità.

A metà del secolo prevale nel Regno di Sardegna un orientamento mercantilista, radicato nella burocrazia sabauda, protezionista nei rapporti commerciali, favorevole all’incremento della popolazione e contrario all’emigrazione degli operai qualificati. Tale orientamento prevale per tutto il Settecento, e determina largamente la politica economica del regno. Un compendio dei princìpi del mercantilismo con speciali riferimenti alle condizioni del Piemonte è il Saggio di economia civile (1776) del conte Ignazio Donaudi delle Vallere (1744-1795), consigliere nel Reale Consiglio del Commercio. Si tratta di uno dei più antichi trattati d’economia italiani del periodo pre-smithiano.

Orientamenti più liberisti, influenzati dalle dottrine fisiocratiche e smithiane, non mancano e si diffondono progressivamente. Di questo nuovo movimento di pensiero è espressione l’abate Giambattista Vasco (1733-1796), studioso piemontese di economia più importante del periodo. Legato ai maggiori rappresentanti del moto riformatore lombardo, «scrittore libero in un tempo e in un paese dalle idee ristrette e dal regime autoritario» (Luigi Einaudi), Vasco, come scrisse Franco Venturi, fu colui che meglio rappresentò «quell’appassionata e solida visione dei problemi sociali che si venne allora creando nelle menti di alcuni subalpini a contatto con la cultura europea e italiana, in collegamento e in contrasto con un assolutismo relativamente efficiente, ma incapace ormai di farsi davvero illuminato e riformatore».

La felicità pubblica di G.B. Vasco Rappresentante di un liberismo non astratto, Vasco animò il dibattito torinese della seconda metà degli anni ottanta. Allora egli era noto per i due saggi: I contadini. Felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie (1769) e il Della moneta. Saggio politico (1772, riedito a Torino nel 1788). Entrambi testi importanti nel dibattito sulle riforme. Inoltre era conosciuto per i suoi lavori di finanza pubblica al Dipartimento delle Finanze dello stato sabaudo, di influenza fisiocratica e critici del colbertismo.

Il saggio sulla Felicità pubblica suscitò reazioni per lo più molto positive, ma non in Piemonte.

Esso si inseriva nel dibattito sulla proprietà fondiaria e le tecniche agrarie. L’occasione del saggio era stata fornita dal quesito della Libera Società Economica di Pietroburgo sull’utilità pubblica che i contadini possedessero terre in proprietà. Questo quesito era diventato tema di dibattito sulle riviste italiane e francesi. Al riguardo Vasco avanzò un ardito piano di riforma agraria, nel quale sosteneva l’ipotesi egualitaria.

Nel saggio egli considera la proprietà privata dei fondi un elemento importante di stabilità sociale e di benessere, e quindi di felicità pubblica. Tuttavia sia la costituzione di monopoli fondiari sia un’eccessiva parcellizzazione della terra sono giudicati inefficienti: ecco perché Vasco sostiene la necessità di stabilire una estensione massima e minima alla proprietà agricola. Lo scopo è la nascita di una classe di proprietari non assenteisti, ma presenti e innovatori in campagna.

Il secondo saggio, pubblicato a Milano sotto l’influenza di Verri, Carli e Beccaria, oltre che di Smith, si inseriva nel grande dibattito settecentesco sulle monete. Vasco vi sostiene che il valore vero della moneta è un concetto relativo che risulta dal rapporto fra la moneta e le cose delle quali si ha bisogno. Dipende da bisogno e scarsità. Della moneta di G.B. Vasco Tutte le leggi che limitano la libertà del commercio delle monete (eccetto la sola coniazione, compito del sovrano) sono giudicate pregiudizievoli per il commercio e senza vantaggio per il sovrano. A questo proposito egli propone un sistema monetario fondato su una moneta di rame, il metallo più stabile, e consiglia di affidare la determinazione del valore della moneta all’andamento del mercato dei cambi sulla base della sola contrattazione privata. Vasco considera anche la moneta bancaria, come forma di indebitamento capace di promuovere le attività produttive. La banca può emettere carta moneta al di sopra del valore del metallo conservato nelle sue casse finché gode della fiducia dei clienti. La circolazione fiduciaria richiede però il continuo controllo dello Stato che deve garantire la convertibilità della moneta. Si salvaguardano così i diritti della clientela. Anche le esigenze di finanziamento dello Stato possono richiedere l’emissione di carta a circolazione fiduciaria, ma, ad operazione conclusa, tali titoli di debito pubblico debbono essere ritirati attraverso un piano di ammortamento.

Il Vasco ritornerà sulle questioni monetarie nel 1793 in Della carta-moneta. Saggio politico, la sua opera più importante. Giuseppe Prato definirà quest’opera organica, sistematica e notevole per competenza e visione Qui egli offre una trattazione di una questione centrale nel Piemonte di allora, colpito dai mali dell’elevata inflazione e di un gravoso debito pubblico. Vasco vi espone i vantaggi e soprattutto gli svantaggi della carta-moneta il cui limite era «l’essere appoggiato il suo valore alla sola opinione», con i rischi connessi di sfiducia e panico nei momenti di difficoltà economiche. Viene auspica l’applicazione della convertibilità della moneta.

Sul finire degli anni ottanta Vasco condusse la sua battaglia liberoscambista sulle pagine della «Biblioteca Oltremontana», importante periodico illuminista sul finire del Settecento. Frontespizio Biblioteca Oltremontana «Limite estremo del movimento riformatore ed illuminista subalpino», come lo definì Franco Venturi, questa testata importò in Italia la cultura europea, soprattutto francese. Nelle sue pagine trovano spazio giovani come Prospero Balbo e Gianfrancesco Galeani Napione, destinati a svolgere una funzione di rinnovamento culturale negli anni successivi. Vasco per due anni fu redattore della rivista dove scrisse soprattutto di argomenti economici e finanziari: povertà, lusso, questioni bancarie e monetarie, aritmetica politica. Egli svolse anche considerazioni teoriche sul valore in dialogo intellettuale con Verri e Condillac. Egli considera il valore un fattore soggettivo e psicologico collegato all’utilità dei beni.

In quegli anni i quesiti di ordine politico e sociale posti dalle Accademie di tutta Europa, fornivano un’occasione di dibattito e di diffusione delle idee. Nel 1788 l’Accademia delle Scienze di Torino promosse un concorso su come sostenere gli operai della torcitura della seta quando il settore fosse colpito da una crisi congiunturale e gli operai fossero rimasti disoccupati. Il quesito verteva sulla crisi dell’industria serica, o meglio della torcitura della seta, la fase più manifatturiera della lavorazione della seta. Una questione fondamentale per il Piemonte di allora e molti studiosi si cimentarono. La seta era uno dei settori più dinamici dell’economia della regione in termini di prodotto e di occupazione, pur in presenza di crisi ricorrenti. Il governo aveva mercantilisticamente adottato una politica doganale protezionista, in particolare vietando di esportare la seta greggia. Si intendeva così assicurare ai filatoi un approvvigionamento a buon mercato di materia prima. La dipendenza dell’industria serica dall’agricoltura locale la rendeva soggetta alle crisi periodiche causate dai cattivi raccolti. Ne conseguivano crisi occupazionali che potevano sfociare in crisi demografiche a causa dell’aumento della mortalità tra i lavoranti della seta e fra i contadini, e davano luogo a diffusa povertà e mendicità.

Il susseguirsi in Piemonte delle crisi agrarie: nel 1773-’74, nel 1783-’85, nel 1787-’88, impose il tragico problema all’attenzione della società e l’intervento dell’Accademia delle Scienze ne è una documentazione. Il concorso, incoraggiato dal governo sabaudo, incontrò un notevole successo, tanto che i lavori presentati furono una novantina. Risultarono vincitori due lavori presentati da Alessandro Riccardi e Gasparo Tempia. Essi proponevano, in armonia con le posizioni prevalenti nella burocrazia, la costituzione di un fondo previdenziale finanziato con contributi obbligatori da parte di operai e datori di lavoro. Ma gli studi di maggior respiro e quelli che fecero maggiormente discutere furono ad opera di Giambattista Vasco e Gian Francesco Galeani Napione.

Giambattista Vasco risponde al quesito dell’Accademia in primo luogo esaminando forme di attività lavorativa alternativa, in secondo luogo sostenendo che il rilancio del settore possa avvenire soltanto liberalizzando il mercato della seta greggia. Una liberalizzazione che avrebbe portato a produrne una maggior quantità per i filatoi. Tra le attività lavorative alternative suggeriva invece che i disoccupati fossero impiegati nella riparazione del macchinario. Sebbene proponga soluzioni liberoscambiste, Vasco non esclude anche l’adozione di politiche pubbliche contro la disoccupazione dovuta a cause temporanee o impreviste, promuovendo le opere pubbliche.

Il conte Gian Francesco Galeani Napione (1748-1830), già autore nel 1775 dei Principi fondamentali della pubblica economia, nella sua risposta espresse posizioni liberoscambiste simili a quelle di Vasco. Contrario all’estensione della pubblica assistenza, ma favorevole all’impiego degli oziosi, Napione auspica la creazione di fondi di investimento, con il contributo dello Stato. Fondi per il sostegno dell’occupazione e dello sviluppo industriale. La liberalizzazione del commercio della seta greggia avrebbe aumentato i prezzi e quindi la ricchezza del paese. Con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro sarebbero aumentati i salari e si sarebbe ridotto il numero dei mendicanti. Le sue posizioni furono condivise dal conte Prospero Balbo (1762-1837), uno dei protagonisti della rinascita culturale della Torino fra la fine degli anni settanta e quella degli anni ottanta del Settecento. Opera di Balbo Balbo aveva scritto all’età di 21 anni un opuscolo sull’Aritmetica politica (1778), poi, tra il 1788 e il 1791, presentò cinque Saggi di aritmetica politica e di pubblica economia, dedicati all’esame della mortalità straordinaria a Torino nell’anno 1789 (mortalità stagionale e mortalità infantile). Tre di questi saggi furono pubblicati solo nel 1830, ma il loro contenuto circolò ampiamente, anche grazie alla pubblicazione (ad eccezione del primo) nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino. Balbo prosegue la tradizione degli studi sulla popolazione di Giovanni Botero con scritti che partendo da dati demografici costruiscono una vivida rappresentazione della vita della popolazione.

Gli anni dopo la rivoluzione francese sono in Piemonte anni di chiusura politica. In questo periodo la produzione di lavori di economia è scarsa e sono ancora le opere di Vasco a dominare la scena. Questi pubblica il saggio sulla moneta già citato e completa il suo modello di liberalismo in L’usura libera e Delle università delle arti e mestieri.

In L’usura libera (1792) Vasco sostiene tesi affini a quelle del Bentham della Difesa dell’usura. Anche per Vasco le leggi che vietano o regolano l’usura sono inutili o dannose. Piuttosto che prendersela con l’usura i governanti dovrebbero cercare di abbassare il tasso di interesse favorendo la costituzione di casse di risparmio. Se i mutuanti sono fra loro in concorrenza e i mutuatari sono imprenditori desiderosi di utilizzare produttivamente i capitali presi a prestito e non consumatori-dissipatori, il saggio di interesse si abbasserà. In Delle università delle arti e mestieri (1793), nato come risposta a un quesito posto dall’Accademia di Agricoltura, Commercio ed Arti di Verona del 1789, Vasco sostiene la tesi che l’esistenza di corpi privilegiati impedisce la formazione di un moderno mercato del lavoro. Poiché la domanda di lavoro è artificiosamente tenuta bassa, i salari risultano inferiori a quelli che si determinerebbero in un mercato concorrenziale. Nonostante i bassi salari, i beni sono cari perché prodotti in condizioni di monopolio. Il risultato è l’aggravamento del fenomeno della mendicità, forma estrema di disoccupazione. Vasco confuta l’argomento portato dai sostenitori delle corporazioni che senza di esse la qualità dei beni scadrebbe. Infine considera l’impatto del sistema corporativo sulla tassazione: egli introduce i quattro postulati di Smith – proporzionalità, certezza, comodità di pagamento, efficienza – e mostra che gli errori che le corporazioni possono commettere nel ripartire l’imposta tra i loro membri (si ricordi che i corpi artigiani riscuotevano direttamente alcune imposte) vanno contro i primi due postulati. Questa dimostrazione riscosse molti anni dopo l’approvazione di Einaudi.

In queste opere il Vasco individua soluzioni liberiste a molti problemi dell’epoca, ma il suo non è un liberismo astratto. La sua dottrina liberista non nega che nella realtà è indispensabile l’intervento di una autorità moderatrice. Egli voleva aboliti i privilegi delle corporazioni d’arti e mestieri, ma riconosceva la necessità di sottoporre a un esame gli aspiranti ad esercitare le professioni che interessano la sanità pubblica; voleva libera l’usura, ma al tempo stesso, per facilitare il credito al povero, domandava la diffusione dei Monti di Pietà, e la costituzione di Casse di risparmio. Vasco affermava che la povertà era dovuta allo scarso sviluppo delle industrie e dei commerci, ed invocava la libertà doganale e la libertà di emigrazione, ma contro la mendicità persistente assegna al governo l’obbligo di sussidiare i poveri e di procurare lavoro ai disoccupati con le opere pubbliche.

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