Le Scienze Mediche nella prima metà dell’Ottocento
A Torino, intanto, si era fatto luce il pinerolese Michele Buniva (1761-1834) che aveva assunto l’insegnamento della Clinica Medica presso l’Ospedale S. Giovanni, dal 1790. Buniva era di idee repubblicane e grande ammiratore della Rivoluzione francese. All’arrivo dei francesi, esultò, ma dovette ritirarsi con loro, quando, nel 1799, i francesi abbandonarono Torino. In Francia, lavorò nella Scuola Veterinaria di Lione, e passò poi a quella più famosa di Alfort. Da qui passò a Parigi, e poi a Londra, ove poté seguire gli esperimenti di vaccinazione antivaiolosa inaugurati da Jenner. Se ne entusiasmò e pensò fino da allora di ripeterli in Piemonte. Dopo la vittoria di Napoleone a Marengo, nel 1800, Buniva rientrò a Torino, rimodellò la Scuola Veterinaria, allora al Valentino, sulla base di quella di Alfort, e divenne presto Presidente del Conseil Supérieur de Santé istituito dai francesi. Poté in questo modo controllare tutta la Sanità piemontese e realizzare il suo sogno di introdurre la vaccinazione antivaiolosa. Non potendo renderla obbligatoria, puntò sulla propaganda e si recò personalmente nei vari paesi del Piemonte per illustrare la nuova tecnica e cercare di convincere della sua indispensabilità i cittadini piuttosto chiusi al nuovo.
Buniva riordinò anche l’Università, ed in particolare la Facoltà di Medicina, che ebbe sei cattedre nel Collegio Medico e quattro in quello Chirurgico. I vecchi docenti furono sostituiti da docenti nuovi, tutti repubblicani e amici del Buniva. Buniva assunse per sé la carica di Preside e di professore di Polizia Medica, una disciplina antesignana dell’Igiene che aveva ricevuto notevole impulso. Tra i colleghi, i più fedeli al Buniva erano gli ex giacobini Giuseppe Moriondo, Bonvicino, Balbis, Filippi, Scavini ed i chirurghi Canaeri e Rossi. Con l’avvento di Napoleone, che era in netto contrasto coi giacobini, il gruppo non ebbe vita facile, tanto più che Prospero Balbo, nominato Rettore nel 1805, non gli fu favorevole. Buniva contava sull’appoggio del Grand Maître dell’Università, che rappresentava il governo imperiale. Per lungi anni esso fu il Fourcroy, amico di Buniva. Quando egli fu sostituito da Louis Fontanes, di gran lunga più conservatore del Fourcroy, cominciò il declino di Buniva e della sua “cabale des médecins”, come l’aveva definita Prospero Balbo.
La caduta di Napoleone e la Restaurazione segnarono la fine dell’influenza di Buniva e dei suoi amici, che vennero tutti rimossi dalla carica, ad eccezione di uno solo, il medico Chiesa. Buniva si esiliò a Racconigi, dove continuò a dare consigli. Gli altri, a parte il Balbis, che emigrò in Francia, ed il Rossi, si inchinarono a poco a poco ai nuovi potenti. Il primo fu Prospero Balbo, che rimase Rettore anche con Vittorio Emanuele I. Questo Sovrano riordinò l’Università secondo i vecchi principi, ma non poté spegnere tutte le idee che Buniva ed i francesi avevano lasciato. L’idea della vaccinazione rimase, e venne anche potenziata con la istituzione di una Conservatoria del Vaccino. Neanche allora, però, venne resa obbligatoria.
Nella Facoltà medica si erano intanto fatti luce Vincenzo Sacchetti, che fu Preside del Collegio Medico, ed inoltre il grande anatomico Luigi Rolando, il fisiologo Lorenzo Martini, i medici Michele Griffa e Michele Schina, i chirurghi Luigi Rossi e Luigi Gallo, il chimico Giobert. Nel 1819 venne per la prima volta pubblicato il «
Il fisiologo Lorenzo Martini, che era umanista, ed aveva pubblicato traduzioni di classici latini e greci, ed anche opere di natura squisitamente letteraria, e che come fisiologo era soprattutto un cultore della materia, non interessato ad esperimenti, ricalcò la via già percorsa da Buniva, passando dalla cattedra di Fisiologia a quella di Polizia Medica. Fecondo scrittore, pubblicò Trattati di Fisiologia, ma anche di Polizia Medica e di Medicina Legale. Sulla cattedra di Fisiologia gli successe l’allievo Secondo Berruti, il primo, in Italia, che, nel 1850, sentì la necessità di creare un Laboratorio di Fisiologia Sperimentale.
In Chirurgia, intanto, si imponeva la figura di Alessandro Riberi, che si rivelò degno della tradizione inaugurata da Ambrogio Bertrani. Come chirurgo dominò la Facoltà medica, pur non rivestendo cariche, per circa un quarto di secolo.
La cattedra di Medicina clinica era intanto coperta, e lo fu per molti anni, da Giacinto Sachero, autore di una
I moti del 1831 dettero un nuovo scossone alla Facoltà, che venne dapprima chiusa, poi decentrata e infine riorganizzata. Gli studenti che avevano partecipato ai moti vennero espulsi, come vari docenti. Il decentramento consisteva nella possibilità per gli studenti di frequentare gli ultimi anni del corso in sedi diverse da Torino, come Chambery, Nizza, Mondovì, Vercelli. Lo scopo era quello di evitare gli assembramenti di studenti. Il corso di studi fu riportato da quattro (come era dal tempo della Restaurazione) a cinque anni. Dopo un biennio propedeutico, che dava diritto ad un diploma in Medicina, oppure in Chirurgia, esisteva un triennio applicativo, che dava diritto alla laurea, nell’una disciplina o nell’altra. Il medico Michele Schina ebbe la cattedra di Istituzioni chirurgiche, nonostante fosse stato in passato un seguace di Napoleone, ferito nella campagna di Russia del 1812. Il botanico Moris ebbe la cattedra di Materia Medica. Lorenzo Cantù succedette al Giobert in Chimica. L’Anatomia Patologia era insegnata da Filippo De Michelis presso l’Anatomia normale, la Patologia Generale, intesa come disciplina propedeutica alla Clinica, e comprendente anche le Semeiotica e principi di Diagnostica e di Terapia, era retta da Gioachino Fiorito, un medico di Rivoli più portato alla professione privata che all’insegnamento, e soprattutto del tutto alieno dalla sperimentazione.
I sospetti del Governo verso una Società medico-chirurgica aumentarono. Alla fine, fu consentita solo la costituzione di una Società di mutuo soccorso fra medici, che divenne la radice di una vera Società scientifica, finalmente approvata nel 1839.
L’istituzione della Accademia di Medicina, vera fucina di discussioni su idee vecchie e nuove, giunse solo nel 1846, grazie a Carlo Alberto che respinse le ultime perplessità del suo Ministro di Polizia. Alla nuova Accademia vennero però imposte pesanti restrizioni, come quella della nomina del Presidente da parte del Re, il permesso di tenere una riunione pubblica solo una volta all’anno (tutte le altre dovevano essere private), l’impegno del Presidente ad impedire ogni tipo di discussione che potesse evolvere verso l’espressione di idee politiche.
Fondatori dell’Accademia furono Bellingieri, Bernardino Bertini, Giovanni Stefano Bonacossa, Casimiro Sperino, Giovanni Giacomo Bonino, Giovanni Demarchi, Ferro, Gioacchino Fiorito, Pietro Frola, Lorenzo Girola, Angelo Camillo Maffoni, Alessandro Riberi, Giacinto Sachero e Michele Schina: erano tutti professori nella Facoltà Medica, oppure dottori aggregati nella stessa Facoltà, o Primari ospedalieri, o anche l’uno e l’altro, giacché era possibile il cumulo delle cariche.
La costituzione dell’Accademia fu un evento particolarmente importante per la Facoltà di Medicina, perché essa fu palestra di confronto fra i vari accademici, spesso appartenenti a discipline diverse. Essa svolse inoltre, e con maggiore impegno, le funzioni di divulgazione scientifica sino allora svolte dal Repertorio. Intessé rapporti con altre Accademie, in Italia ed all’estero; quando necessario, mandò rappresentanti a partecipare a Congressi internazionali, o anche a compiere viaggi esplorativi sullo stato delle discipline mediche in altri Paesi. Queste funzioni di raccordo internazionale furono particolarmente rilevanti in un tempo in cui pochi conoscevano le lingue straniere, ad eccezione, e non sempre, del francese, e le distanze rendevano impossibile la partecipazione della maggior parte degli accademici a congressi internazionali. Le discussioni in Accademia venivano verbalizzate, così che la lettura di questi verbali è spesso più illuminante sulla cultura e le idee dell’epoca di un articolo scritto. Gli interventi, poi, erano spesso così lunghi da costituire per se stessi un articolo; in esso, però, le idee di chi interveniva erano esposte più liberamente e con minore cautela di quanta l’autore ne avrebbe avuta in un articolo.
A metà del Secolo, la stragrande maggioranza dei medici italiani era vitalista. Ogni malattia veniva immessa in uno schema vitalistico, al di là del quale stava l’eresia. Era soprattutto il vitalismo tommasiniano a trionfare, invano contrastato da pochi sostenitori dell’importanza dell’osservazione dell’ammalato, per giungere ad una diagnosi e ad una terapia basata sui principi di Ippocrate. Per i vitalisti, l’esperimento non contava e non era necessario. Ciò che era importante era la dottrina, da cui discendeva la terapia: sempre la solita, in qualunque tipo di malattia, e cioè salassi, sanguisugio, emetici, purganti. Questa terapia veniva praticata persino nel colera, considerato anch’esso una malattia di tipo flogistico, da curare di conseguenza. In Accademia, il Borelli, un dottore aggregato, riferì un fatto strano: un coleroso assetato aveva chiesto dell’acqua; lui gliel’aveva data, ed il coleroso era guarito. Fu subissato da un coro di proteste e di tentativi di interpretazione che mantenessero il caso entro lo schema vitalistico, e il Borelli non insisté. A Torino, qualche critica al sistema vitalistico ed alla conseguente terapia venne soprattutto dai medici pratici.
Uno di essi, Alessandro Sella di Biella, cugino primo del più famoso Quintino, si distinse, in Accademia, con i discorsi e gli scritti, contro la volontà di inquadrare ogni malattia, ed ogni ammalato, in schemi preconcetti. Egli si richiamava al sano empirismo ippocratico, battendosi anche contro l’eccessivo uso dei salassi. Non era legato né all’Università, né agli Ospedali, ed era perciò libero di esporre la sua opinione. Nonostante il suo impegno, non riuscì però a scalfire le opinioni dei suoi colleghi vitalisti; del resto, era nato vitalista egli stesso, e non era aperto alle novità, neanche quelle che venivano dall’estero, soprattutto in forma di scoperte della chimica.
In Germania erano infatti avvenute, in questo settore, scoperte importanti. Il Vöhler era riuscito ad ottenere in laboratorio la sintesi dell’urea a partire da sostanze inorganiche: si frantumava quindi la concezione che il mondo inorganico e quello organico fossero nettamente separati. Per di più, Justus Liebig, che pure era vitalista, mise le basi per lo studio delle trasformazioni biologiche delle sostanze, organiche e inorganiche, con particolare riguardo all’agricoltura. Egli mise quindi le basi per lo studio del metabolismo e della chimica biologica. Si creò su queste basi una nuova dottrina, il chemio-organicismo, che si tentò di applicare anche alla Medicina. Questa dottrina, anche se non negava il vitalismo formalmente, metteva le basi per l’apertura alla sperimentazione ed al positivismo.