La rottura di un clima
Verso la metà degli anni trenta nell’Università di Torino ebbero inizio movimenti importanti per la cultura filosofica della città. Dal 1924 al 1932 aveva insegnato filosofia nel Magistero di Torino Augusto Guzzo, che nel 1934, dopo un passaggio nell’Università di Pisa, era ritornato a Torino, succedendo a Erminio Juvalta nella Facoltà di Lettere. Nel 1936 il Magistero di Torino chiamò Nicola Abbagnano a un insegnamento filosofico. Nel 1939 Guzzo passò alla cattedra di Filosofia teoretica, succedendo a Pastore, e Nicola Abbagnano fu chiamato alla cattedra di Storia della filosofia della Facoltà di Lettere, come successore di Faggi.
L’arrivo di Guzzo e Abbagnano a Torino costituiva una novità rispetto alle tradizioni filosofiche cittadine. Dei loro predecessori nell’ateneo piemontese, Pastore esprimeva un tipo di cultura molto torinese, ma aveva anche mostrato, con il suo interesse per la nuova scienza, per la fenomenologia e per l’esistenzialismo, un’apertura internazionale. Juvalta e Faggi rappresentavano qualcosa di estraneo alla tradizione torinese e si muovevano, anche se soltanto idealmente, in un contesto europeo, al quale l’Italia si era chiusa dopo l’affermazione dell’idealismo. I nuovi arrivati si collocavano invece entro l’orizzonte italiano dominato dal neoidealismo. Guzzo proveniva dalla scuola idealistica napoletana, perché il suo maestro, Sebastiano Maturi, era un erede dell’hegelismo di destra di Vera; poi Guzzo si era accostato al gentilianesimo. Come tutti gli eredi della destra hegeliana anche Guzzo teneva molto a non entrare in conflitto con la chiesa ufficiale e da questo punto di vista il neoidealismo italiano gli sembrava pericoloso. Croce e Gentile evitavano di mettersi in contrasto con il cattolicesimo, ma ritenevano che la filosofia idealistica fosse una forma di religiosità superiore alle religioni positive, non incompatibile con le credenze religiose popolari. Guzzo interpretava invece l’idealismo come un’introduzione al cristianesimo. Non si trattava di una faccenda puramente accademica e di una disputa tra filosofi, perché Guzzo aderiva sì all’attualismo gentiliano proprio nel momento in cui esso si avviava a una piena conciliazione con il cattolicesimo. Gentile aveva sempre sostenuto un’interpretazione autoritaria dello stato, che deve affermare la propria superiorità su ogni altra forma istituzione e che nella filosofia deve trovare una propria religiosità. Ma fino all’adesione al fascismo Gentile pensava a uno stato liberale, mentre in seguito la sua interpretazione totalitaria dello stato, suggerita dalla dottrina fascista, avrebbe potuto generare conflitti con la Chiesa cattolica ben più acuti di quelli vissuti dall’Italia risorgimentale e postrisorgimentale. Sennonché il regime fascista andava in cerca dell’appoggio del Vaticano e intendeva proseguire sulla via della conciliazione concordataria tra stato e chiesa, già cercata da esponenti dei governi liberali. In seno all’attualismo nacque così una tendenza che mirava a dare un’interpretazione religiosa dell’idealismo e Armando Carlini ne diventò uno dei rappresentanti ufficiali. L’avvicinamento tra fascismo e Chiesa cattolica approdò alla stipula dei Patti Lateranensi e anche l’idealismo cattolico si rafforzò. Via via che Gentile vedeva crescere i propri impegni nella politica vera e propria e nell’organizzazione culturale, nel mondo universitario aumentava l’importanza di Carlini, che insegnava a Pisa, una sede particolarmente cara a Gentile; e a Pisa aveva insegnato Guzzo tra il 1932 e il 1934.
Abbagnano, che come Guzzo aveva studiato a Napoli, aveva percorso un itinerario tutto diverso, in alternativa costante rispetto all’idealismo. Dopo essersi formato alla scuola di Antonio Aliotta, aveva studiato l’idealismo angloamericano, Guglielmo di Occam, la filosofia della scienza francese e la nuova fisica, tutti temi estranei alla sensibilità idealistica. Eppure lui e Guzzo si erano trovati vicini nella Facoltà di Lettere torinese, dopo che Guzzo aveva probabilmente aiutato Abbagnano a trovare una chiamata in una facoltà universitaria nonostante l’opposizione dei gentiliani. Forse aveva agito una qualche solidarietà tra allievi dell’Università di Napoli o forse c’erano motivi intrinseci. Fin dagli esordi Abbagnano aveva mostrato sensibilità per temi vitalistici e irrazionalistici, guardati con sospetto dagli idealisti. Non che essi fossero proprio del tutto estranei alla mentalità idealistica: motivi irrazionalistici erano presenti nella filosofia di Croce e alcuni suoi seguaci proprio a questi motivi si erano ispirati, tanto che l’estetica crociana era stata una specie di bibbia dell’irrazionalismo nostrano. E anche la filosofia di Gentile era abbastanza accogliente nei confronti dell’attivismo. Ma poi Croce aveva accentuato i contenuti razionalistici della sua filosofia, aveva respinto tutti gli spunti irrazionalistici e attivistici ai quali poteva sembrare sensibile e aveva fatto affidamento sulla razionalità intrinseca della storia per costruire un’alternativa all’attivismo fascista. Qualcosa di analogo accadeva a Gentile, sempre più integrato nella politica governativa del fascismo e sempre più ostile alle nostalgie rivoluzionarie di una parte dei suoi seguaci.
A Torino Croce e Gentile avevano credito, perché erano considerati eredi della cultura risorgimentale, critici del regime parlamentare e trasformistico che aveva tradito il Risorgimento e propugnatori di un rinnovamento morale del paese. Nonostante la sua adesione al fascismo, la filosofia di Gentile era presa in considerazione perfino da personaggi come Gobetti e Gramsci, anche se nella cultura antifascista l’influenza di Croce era diventata prevalente e aveva cancellato le tracce dell’attualismo. I professori di filosofia della Facoltà di Lettere erano piuttosto estranei alla discussione sull’idealismo ed erano abbastanza diffidenti della filosofia collegata a programmi politici. Soltanto Giovanni Vidari, che faceva parte dei filosofi venuti da Pavia, dove era stato allievo di Carlo Cantoni e di Luigi Credaro, e che a Torino insegnò Filosofia morale dal 1909 al 1912 e Pedagogia dal 1912 al 1934, diventò rettore dell’università durante la prima guerra mondiale e si espose politicamente, assumendo posizioni nazionalistiche, dalle quali non gli sarebbe stato difficile aderire al fascismo. Le teorie crociane erano familiari più a professori della Facoltà di Giurisprudenza, come Francesco Ruffini, Luigi Einaudi o Gioele Solari, che ai filosofi della Facoltà di Lettere; qui erano semmai i letterati che sentivano l’influenza di Croce, ma appunto del Croce letterato e storico, più che del Croce filosofo. E i contenuti antifascisti della filosofia che Croce venne elaborando dopo il ’24 furono apprezzati soprattutto nella Facoltà di Giurisprudenza dove l’antifascismo, quando non si espresse nella forma drastica delle dimissioni, alle quali ricorse Ruffini per non pronunciare il giuramento imposto dal regime, si dissimulò dietro mescolanze diverse di accettazione e di rifiuto, scelte da personaggi come Einaudi e Solari.
L’arrivo dei napoletani Guzzo e Abbagnano, che non avevano familiarità con il tessuto fine della cultura cittadina, cambiò le cose. Guzzo era un gentiliano che aveva smarrito tutto ciò per cui Gentile si considerava un liberale e un difensore del primato dello stato e della sua laicità. Fino ad allora aveva cercato di inserire nell’attualismo gentiliano temi vitalistici che gli venivano da Sebastiano Maturi, ma alla fine degli anni trenta incominciò a dire che bisognava prestare attenzione alla filosofia dell’esistenza, la novità filosofica nata in Germania e in Francia, per accoglierne i suggerimenti, ma anche per scongiurare il nichilismo tedesco con le risorse della filosofia nostrana. Di esistenzialismo in Italia si parlava da tempo e la cosa era partita proprio da Torino. Nel 1928 la «Rivista di filosofia», un periodico di fatto diretto da Martinetti ed estraneo all’idealismo dominante, aveva presentato Heidegger come un filosofo che, formatosi alla scuola fenomenologica, si era tuttavia staccato da Husserl. Altrove le reazioni erano state differenti: mentre i crociani respingevano la filosofia dell’esistenza, mettendo anche in luce i coinvolgimenti di Heidegger con il nazismo, ad essa si accostarono soprattutto quegli attualisti che dell’idealismo davano un’interpretazione religiosa. Era un’impostazione suggerita dai cosiddetti esistenzialisti francesi, come Jean Wahl e Gabriel Marcel, e dagli studi storici di Karl Löwith. Ma fu Carlini a guidare l’assimilazione dell’esistenzialismo all’interno dell’attualismo gentiliano, che proprio lui aveva tanto contribuito a trasformare in spiritualismo cattolico; e sulle posizioni di Carlini si orientava Guzzo. La cosa risultò chiara da ciò che diceva il più fedele degli allievi di Guzzo, Luigi Pareyson, che cercava nell’esistenzialismo, e in particolare in Jaspers, temi già presenti nell’idealismo italiano e parlava di un “preesistenzialismo” italiano, additandone in Carlini il principale rappresentante.
La vera novità fu però la versione dell’esistenzialismo, che Abbagnano propose nel 1939 con La struttura dell’esistenza. Abbagnano non si preoccupava di inserire l’esistenzialismo nella tradizione filosofica italiana, non teneva conto dell’esistenzialismo francese e non si limitava a commentare le opere di Jaspers o di Heidegger, ma pretendeva di porsi accanto ai maestri della filosofia dell’esistenza, tentando un’impresa speculativa autonoma. Eppure quella di Abbagnano voleva essere un’impresa non soltanto filosofica o accademica e rompeva con il riserbo tradizionale dei professori di filosofia dell’ateneo piemontese. Già Guzzo aveva cercato di inserirsi nella svolta religiosa che aveva caratterizzato l’attualismo gentiliano, diventato quasi una filosofia di regime. Abbagnano non aveva precise connotazioni ideologiche, anche perché i suoi lavori, spesso ardui, sembravano destinati a un pubblico di lettori interessati essenzialmente alla filosofia. Inoltre il suo antidealismo gli aveva attirato l’ostilità di Gentile e della sua scuola. Dopo il 1945 avrebbe detto di aver prima avversato il fascismo delle origini e di aver poi reso omaggi verbali a un regime che si era fatto non troppo violento e che comunque godeva di ampio consenso. In realtà, anche se negli scritti filosoficamente significativi si era limitato a qualche riferimento discreto, già a Napoli Abbagnano aveva pronunciato dei discorsi apertamente fascisti e nei manuali a uso delle scuole si era messo a esporre senza riserve la dottrina del fascismo. Ma il suo stesso esistenzialismo aspirava a sostituire l’attualismo gentiliano, che stava perdendo la capacità di esprimere la coscienza nazionale, e a diventare una nuova filosofia in cui un popolo potesse esprimere la scelta di accettare il proprio destino. Erano temi cupi, che ricordavano l’esistenzialismo tedesco e che rispondevano al progetto di offrire una filosofia nazionale affine a quella che andava imponendosi in Germania. Per un momento sembrò che il progetto di Abbagnano dovesse avere fortuna e potesse diventare un ingrediente della revisione del fascismo perseguita da Giuseppe Bottai: la sua rivista, «Primato», promosse una discussione sull’esistenzialismo che ruotò intorno all’opera di Abbagnano.
Tra gli anni trenta e quaranta la discussione sull’esistenzialismo mise la cultura torinese al centro dell’ultima avventura della filosofia italiana prima della fine della guerra e del crollo del fascismo. La posizione di Abbagnano era la più innovativa e fece molta impressione, ottenendo qualche adesione e molti rifiuti da parte dei filosofi accademici italiani. Il tentativo di Guzzo e di Pareyson di stabilire una continuità tra esistenzialismo e idealismo rimase per il momento un’impresa accademica, anche se avrebbe avuto un seguito quando, dopo la guerra, si sarebbe cercato di riprendere temi tradizionali.
L’avventura esistenzialistica fu vissuta all’interno della Facoltà di Lettere ed ebbe risonanza nazionale soltanto sul piano accademico, mentre la cultura cittadina reagì alla nuova moda culturale con un distacco ben testimoniato da La filosofia del decadentismo di Norberto Bobbio del 1944. Bobbio, ormai passato all’antifascismo, era stato allievo di Pastore, ma poi si era tenuto vicino a Solari e a Martinetti e svolgeva la propria attività soprattutto nella Facoltà di Giurisprudenza. Attraverso Pastore aveva potuto conoscere di prima mano la fenomenologia, cioè una delle matrici dell’esistenzialismo heideggeriano, e attraverso Solari era rimasto in contatto con l’eredità crociana, che continuava a farsi sentire in molti ambienti, ristretti ma qualificati, della città, ambienti nei quali era ancora vivo il ricordo dell’esperienza gobettiana. Inoltre Solari era in stretto contatto con Martinetti, un altro erede delle tradizioni un tempo vive nell’ateneo torinese e poi offuscate dall’arrivo di filosofi più sensibili al fascismo.
Martinetti aveva studiato a Torino, ma poi aveva occupato una cattedra di filosofia a Milano e qui aveva avuto successo e aveva trovato scolari valorosi. Si era opposto coraggiosamente al fascismo, soprattutto quando il governo Mussolini aveva promosso interventi di polizia per impedire che Ernesto Buonaiuti, un modernista scomunicato, prendesse la parola in un congresso di filosofi. In seguito si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista e aveva abbandonato l’insegnamento, ritirandosi nel Canavese. Aveva continuato a tenere i contatti con il mondo culturale attraverso Solari, anche se non condivideva le sue simpatie per Croce. Martinetti si era formato nel clima del kantismo accademico, così diffuso nelle università europee tra Ottocento e Novecento, ma dava un’intonazione essenzialmente religiosa alla propria interpretazione di Kant, costruendo una religiosità tutta laica e tendenzialmente panteististica, di stampo spinoziano. Mentre dalla Germania arrivavano in Italia soprattutto le suggestioni esistenzialistiche, che erano fortemente dualistiche, mettevano l’accento sulla separazione tra l’uomo e la divinità e minavano la fiducia nella ragione, Martinetti si ispirava alla teologia protestante razionalistica, che considerava gli uomini capaci di arrivare da soli alle verità religiose e faceva consistere la libertà nel controllo razionale dei comportamenti.
Bobbio esprimeva una certa saturazione del gran parlare che si era fatto a proposito dell’esistenzialismo, anche se vedeva in esso l’espressione dei tempi che si vivevano. Erano tempi di crisi, cioè di perdita di fiducia nella verità, di apatia di fronte ai valori, di attivismo sconsiderato, di miti e superstizioni. Bobbio attribuiva anche allo storicismo la responsabilità dei fallimenti dai quali era nato l’esistenzialismo, cui opponeva una filosofia centrata sulla libertà della persona intesa come persona morale nel senso di Kant. Bobbio trasformava in un programma politico l’insegnamento che aveva ricevuto dai propri maestri, perché per lui l’uscita della crisi testimoniata dall’esistenzialismo passava attraverso l’assunzione di un impegno politico della filosofia, che doveva promuovere l’unione di moralità e giustizia.
Il tentativo di fare dell’esistenzialismo una nuova filosofia nazionale finì del tutto nel 1943 e la reazione di Bobbio indicò che la vocazione politica della filosofia espressa dall’attualismo stava prendendo altre strade. Già nella discussione che si era svolta sulle pagine di «Primato» era emerso che uno dei modi per uscire dalla crisi dell’attualismo senza accettare l’esistenzialismo passava attraverso il marxismo. Era difficile discutere esplicitamente di marxismo sotto il regime fascista, ma negli ambienti antifascisti l’ideologia comunista era largamente presente e all’indomani della guerra diventò una componente importante della cultura nazionale; e a Torino se ne discusse con passione. Bobbio, che aveva aderito al Partito d’azione, cercava di evitare i pesanti impegni ideologici che il marxismo comportava, ma altri ritenevano che fosse inevitabile fare i conti con il marxismo. Lo ritenevano anche alcuni rappresentanti della cultura cattolica particolarmente attivi a Torino. Essi pensavano che fosse impossibile ritornare ai regimi liberali e alle democrazie borghesi, che ritenevano direttamente responsabili dei regimi fascisti e, messo da parte l’aiuto prestato dalla Chiesa cattolica a Mussolini, Hitler e Franco in nome della difesa dal comunismo, ora ritenevano che con il marxismo si dovesse fare i conti e cercare un’intesa, anche per evitare i suoi esiti leninisti. Al personalismo giuridico di Bobbio si opponeva un personalismo sociale, in cui le persone più che titolari di diritti sono destinatarie di cure collettive, in società solidaristiche, come quelle teorizzate dalla dottrina sociale della Chiesa, ma anche dal corporativismo. Ma a questo esito doveva metter capo anche un comunismo non leninista. Queste idee, proposte soprattutto da Felice Balbo, ma che avrebbero costituito la base ideologica di quello che sarebbe stato chiamato “cattocomunismo”, furono elaborate a Torino ed assunsero rilevanza nazionale, tanto da orientare l’azione del Partito comunista italiano e la convergenza di cattolici e comunisti.
Dopo la guerra la discussione filosofica cittadina riguardò sempre di più il rapporto tra cattolicesimo e comunismo. Bobbio propose un’interpretazione dell’impegno politico della filosofia che la mettesse al riparo dalle pretese di controllarla accampate in nome dell’ideologia o della fede religiosa. In questa prospettiva egli si richiamò sempre di più ai principi liberali classici, “borghesi”, mentre cattolici e comunisti erano d’accordo nell’imputare alla società borghese la degenerazione fascista. Fu Del Noce, che era stato scolaro di Mazzantini e si richiamava a Martinetti, a elaborare il parallelo tra il marxismo leninista e l’attualismo gentiliano e a vedere in entrambi una conseguenza della filosofia moderna. Del Noce guardava con interesse crescente al pensiero cattolico francese e alla polemica, che vi rintracciava, contro il pensiero moderno, che riteneva tutto ispirato all’ateismo. Per molto tempo egli rimase una figura marginale della cultura torinese, fino a quando la crisi dello spiritualismo tradizionale e il riconoscimento che anche quella italiana stava diventando una società secolarizzata non indussero i cattolici a rivolgersi a forme più radicali di rifiuto della modernità.
Frattanto, dopo la fine della guerra, proprio a Torino si sviluppò un movimento filosofico che proprio alla modernità si richiamava. Abbagnano aveva sempre evitato la polemica contro la modernità caratteristica dell’esistenzialismo tedesco, e anche per questo aveva qualificato come “positivo” l’esistenzialismo che proponeva. A guerra finita, continuò a difendere il proprio esistenzialismo positivo, ma lo trasformò nella componente di un nuovo movimento cui diede vita: il neoilluminismo. Nel farlo si richiamava ovviamente all’illuminismo settecentesco, ma riteneva che i temi di quel movimento potessero essere reinterpretati con gli strumenti offerti da tre correnti della filosofia contemporanea: l’esistenzialismo positivo, il pragmatismo di Dewey e il neopositivismo, una volta depurato da indebiti privilegiamenti del linguaggio scientifico. Il neoilluminismo ebbe un notevole successo, anche perché si accompagnava all’attività del Centro di studi metodologici,
fondato a Torino da scienziati e filosofi, che cercava di promuovere uno studio aggiornato del sapere scientifico e di stabilire delle relazioni tra scienziati e umanisti. Tutte queste iniziative erano alimentate da una forte avversione nei confronti della tradizione idealistica e in generale di ogni forma di metafisica, e riconoscevano nella scienza il frutto più importante della cultura moderna. Questo tema stava particolarmente a cuore a Ludovico Geymonat, che si era ancora laureato con Pastore e che era stato uno dei primi in Italia a far conoscere il Circolo di Vienna. Aveva anche proposto una propria versione di teorie neopositivistiche, inserendole in un più ampio programma “neorazionalistico”.
Geymonat, che era un comunista militante, provava qualche imbarazzo nei confronti del richiamo dei neoilluministi a un movimento così “borghese” come l’illuminismo classico, un imbarazzo per certi versi opposto e simmetrico a quello che provava Bobbio, il quale vedeva in Croce una figura eminente dell’antifascismo. Nell’ambito del neoilluminismo Bobbio trovò però gli stimoli per promuovere una revisione del liberalismo crociano, eliminando l’interpretazione ottimistica della storia che esso presupponeva. Del resto Bobbio doveva confrontarsi non più con una dittatura al potere, ma l’egemonia culturale dei cattolici, da un lato, e dei comunisti, dall’altro. Ma la difesa di una filosofia laica, che allora pareva minacciata soprattutto dall’invadenza della cultura cattolica, finì con l’essere il richiamo principale del neoilluminismo.
Agli inizi degli anni sessanta il neoilluminismo si estinse. Molti di coloro che vi avevano aderito sentirono il richiamo del marxismo e incominciarono a prendere le distanze dal suo laicismo, soprattutto dopo che i comunisti avviarono politiche di alleanza con il partito cattolico, per ragioni di strategia politica, ma anche in nome della comune avversione al capitalismo. Da parte sua la cultura cattolica andò in cerca di motivi scopertamente antimoderni, e a Torino questa svolta trovò le proprie realizzazioni più significative. Già Del Noce aveva suggerito di guardare in questa direzione, ma una versione nuova di quella svolta prese corpo nella scuola di Guzzo e Pareyson. Qui le nostalgie per il gentilianesimo si attenuarono e anche il tentativo di stabilire una continuità tra idealismo italiano ed esistenzialismo venne meno. Pareyson si dedicò allo studio dell’idealismo classico tedesco, soprattutto di Fichte e di Schelling, di cui apprezzò il naturalismo antiscientifico. Gli fu perciò più facile accostarsi alla filosofia dell’essere che Heidegger aveva sviluppato dopo la guerra, ma che Pareyson finì con l’accettare nella forma dell’ermeneutica di Gadamer: questa era ormai la moda prevalente, non soltanto a Torino. L’ermeneutica aveva le proprie radici nelle dottrine filosofiche che, soprattutto nella Germania dei primi decenni del Novecento, avevano stabilito una forte contrapposizione tra il mondo della natura, descritto dalla scienza come il prodotto di leggi esprimibili matematicamente, e il mondo umano, in cui l’esistenza prende senso da cose come valori, scelte, progetti e così via, termini rispetto ai quali la realtà naturale è indifferente e invariante. A partire di qui si finiva con il dire che soltanto ciò che dà senso alla vita è reale, affermando così il primato di ciò che è spirituale rispetto a ciò che è materiale. L’arte, come i filosofi la interpretavano, più che la conoscenza controllata, qual è quella scientifica, sembrava la via di accesso alle cose. Gianni Vattimo prese a prestito dalla cultura francese la formula della postmodernità per dare una versione attenuata, “debole”, come diceva, della filosofia dell’essere di Heidegger e dell’ermeneutica di Gadamer.
L’eredità della stagione neoilluministica si è conservata in una cultura filosofica ancora operante nella città, soprattutto all’interno dell’università, al riparo dalle mode diffuse. Qui la diffidenza nei confronti di formule approssimative e di teorie filosofiche pretenziose si è accompagnata alla pratica di ricerche storiche rigorose, che hanno mirato a sottrarre la storiografia filosofica all’uso strumentale che ne hanno spesso fatto i filosofi e ad evitare gli usi apologetici ed edificanti della filosofia. La revisione dello storicismo, da un lato, e le teorie etiche, dall’altro, hanno costituito due dei campi nei quali si è conservata una filosofia meno corriva alle mode e alle suggestioni ideologiche.