Dossier

Le scienze economiche a Torino tra metà Settecento e metà Novecento

Il ruolo dello stato nell’economia

Il liberalismo economico degli studiosi torinesi non ha nulla a che vedere con il liberismo del ‘tutto è lecito’. Essi sono consapevoli che il mercato, lasciato a se stesso, può distruggere la libera concorrenza, dar luogo a forme di mercato monopolistiche o oligopolistiche che ne riducono l’efficienza e creare disuguaglianze inaccettabili. Ne deriva perciò il riconoscimento della necessità di un intervento pubblico. Luigi Einaudi, che al tema dedica un’ampia riflessione, sottolinea come esso abbia molteplici aspetti: contribuire a garantire l’efficienza del sistema e permettere l’innalzamento delle masse, fornire beni pubblici, oltre che, a livello macroeconomico, regolare l’attività generale e favorire la stabilità della moneta.

Dal punto di vista dell’efficienza l’intervento dello stato deve rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza. Sulla base delle conclusioni dell’analisi economica moderna, Einaudi afferma che la concorrenza è una configurazione efficiente, ma aggiunge che il meccanismo concorrenziale agisce in modo efficiente solo se la concorrenza avviene entro regole e limiti comuni. Vanno cioè poste le norme, osservando le quali risparmiatori, proprietari, imprenditori, lavoratori possono liberamente operare. Tracciare i limiti (uguali per tutti, oggettivamente fissati e non arbitrari) dell’operare economico, ovvero, «porre la cornice», in questo consiste il metodo liberale. Si tratta di un metodo «duro e penoso», e «sempre provvisorio, ché le norme poste dalla legge sono frutto dell’esperienza e devono essere rivedute ad ogni esperienza nuova», pur tuttavia esso è da considerarsi il migliore sulla base dell’esperienza. Cruciale, in questo programma, è la lotta ai monopoli, pubblici e privati. Siamo qui di fronte a quello che Einaudi considera il «massimo pericolo» che incombe sul mondo economico, e che egli combatté tutta la sua vita. La lotta ai monopoli si conduce abolendo dazi, contingenti, restrizioni e divieti e imponendo pubblicità, utilizzando «procedure giudiziarie ed obbligatorie frantumazioni in imprese concorrenti». Era questa la via che l’autorità antitrust negli Stati Uniti aveva intrapreso fin dagli anni novanta dell’Ottocento. Ma i liberali, scrive Einaudi, non reputano che la questione dell’efficienza sia la sola e che possa essere posta da sola.

La seconda grande questione che coinvolge lo stato è quella dell’equità: l’azione dello stato deve dunque limitare la disuguaglianza nelle fortune esistenti ed abolire «la disuguaglianza nei punti di partenza», che rappresenta per Einaudi «la macchia fondamentale dell’ordinamento sociale odierno». Questa seconda tematica è fondante nella prospettiva liberale einaudiana, perché ritenuta costitutiva di una società di uomini liberi. Dal punto di vista economico, ovvero sul modo di porre rimedio alla disuguaglianza economica nei punti di partenza è necessario «l’apprestamento, a spese di tutti [...], di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione aperti a tutti» e l’introduzione di «provvedimenti intesi a instaurare parità di punti di partenza tra uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali: contro la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della maternità, contro la disoccupazione e simiglianti». La disuguaglianza delle fortune esistenti è invece un problema a cui si può invece ovviare più facilmente, sostiene Einaudi, con l’imposta: è questa la questione della politica tributaria di uno stato liberale. Essa ha quattro caratteristiche. La prima è la certezza e semplicità dell’imposta; la seconda è che le imposte siano stabilite «sui godimenti e non sulla fatica»; la terza caratteristica è che esse siano graduate in modo da attenuare le disuguaglianze nella distribuzione delle fortune; infine le imposte devono dare i mezzi per moltiplicare i beni di uso gratuito a vantaggio di tutti, senza intaccare l’interesse al risparmio e all’investimento. L’arte del finanziere in uno stato liberale deve così «consistere nello scoprire il punto critico al di là del quale l’imposta, crescendo ancora, deprimerebbe l’interesse a risparmiare e l’interesse alle nuove iniziative». L’imposta, sul reddito e successoria, deve essere congegnata in maniera da incoraggiare la formazione dei nuovi redditi e da decimare i redditi antichi e costituiti, «sicché ad ogni generazione i figli siano costretti a rifare in parte e i nipoti o pronipoti a rifar ancora per la restante parte la fortuna avita ove intendano serbarla intatta; sicché se non vogliano o non vi riescano siano costretti ad andare a fondo». I temi specifici della tassazione del reddito ordinario e dell’esenzione del risparmio dall’imposta rappresentano il nucleo della teoria finanziaria einaudiana, trattati nei fondamentali Il contributo alla ricerca dell’ottima imposta (1929) e Miti e paradossi della giustizia tributaria (1938). Miti e paradossi della giustizia tributaria di Luigi Einaudi Per quanto riguarda il primo punto Einaudi contrappone il concetto di reddito ordinario (o normale) alla tradizionale nozione ottocentesca di reddito imponibile. Egli riprende e sviluppa gli argomenti di antichi economisti italiani che sottolineavano lo stimolo al progresso offerto da un sistema tributario che fissa l’imposta in base alla potenzialità media del reddito, e la lascia inalterata sia se il proprietario ottiene un reddito maggiore che se ottiene un reddito minore. Per quanto riguarda il tema dell’esenzione del risparmio dall’imposta, Einaudi offre un importante contributo a un tema discusso per la prima volta organicamente da John Stuart Mill e poi ripreso da Marshall e Pigou a Cambridge. Per Mill l’esenzione del risparmio dall’imposta è un problema di equità. Se l’imposta colpisce tutto il reddito prodotto, essa per la parte del reddito destinata al consumo si esaurisce con il pagamento nel periodo nel quale il reddito è stato prodotto, mentre la parte di reddito mandata a risparmio pagherà ulteriormente l’imposta nei periodi successivi nei quali matureranno i frutti del risparmio. Secondo Mill, il reddito risparmiato e i suoi frutti sono due aspetti della stessa ricchezza, per cui con l’imposta sul reddito prodotto si ha la doppia tassazione del risparmio. Ne segue la necessità di esentare il risparmio dall’imposta, limitando la tassazione al solo reddito consumato. Einaudi rafforza l’argomento milliano con il ricorso alla teoria dell’ammortamento o capitalizzazione dell’imposta che avviene quando la tassazione del reddito di un capitale riduce il valore del capitale medesimo. Einaudi parte dalla critica dell’analisi tradizionale di finanza pubblica che non teneva conto della produttività della spesa pubblica, per poi considerare l’uso che lo stato fa del gettito tributario. A tal fine egli usa il concetto di stato inteso come fattore di produzione (elaborato per primo da Antonio de Viti de Marco). Lo stato è un fattore di produzione alla pari degli altri, combinato con i quali permette di raggiungere di volta in volta le soluzioni più economiche, che permettono cioè il raggiungimento del massimo di produttività. La presenza attiva dello stato si traduce nella creazione di servizi pubblici. L’imposta è condizione necessaria perché lo stato possa intervenire a tal fine. L’imposta che accresce l’efficienza delle risorse è definita da Einaudi imposta «economica» o «ottima», in contrapposizione ai concetti di «imposta-taglia» e «imposta-grandine» che fanno riferimento a usi anti-economici del provento dello stato.

Nella misura in cui l’imposta è il mezzo con cui lo stato crea valori nuovi essa non significa distruzione, al contrario, sottolinea Einaudi,«mercé l’imposta lo stato crea l’ambiente giuridico e politico nel quale gli uomini possono organizzare inventare produrre».

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