Gli anni del fascismo
Mentre a livello nazionale di assisteva alla nascita e all’affermazione del fascismo, nella Torino del dopoguerra, vero e proprio laboratorio di esperienze e di idee, si svolse la «prodigiosa giovinezza» (N. Bobbio) di Piero Gobetti, morto venticinquenne nel 1926 per i postumi di un’aggressione fascista. Impegnato con fervida intransigenza morale, e dal punto di vista del suo «liberalismo rivoluzionario», nella lotta politica condotta sia attraverso un’intensa attività giornalistica sia attraverso i suoi libri (
Alcuni dei temi più suggestivi da lui proposti furono il Risorgimento come rivoluzione fallita e «conquista regia»; il Risorgimento degli «eretici» perseguitati contrapposto a quello dei «professionisti»; il fascismo come «autobiografia della nazione», cioè come rivelazione di mali di vecchia data; la rivoluzione sovietica del 1917 non come rivoluzione collettivista, ma come «rivoluzione liberale». Le sue idee, che sono tuttora oggetto di discussioni e polemiche, alimentarono un filone della sinistra democratica torinese (Bobbio, Venturi, Galante Garrone), e agirono anche al di là di questa.
Uno dei maestri di Gobetti fu Francesco Ruffini, professore di Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza. Liberale di inflessibile coerenza e di alto sentire, pubblicò nel 1901 un libro memorabile,
Verso la fine degli anni venti, un primo e non vano tentativo di fascistizzazione della cultura diede luogo, nel mondo degli storici torinesi, a casi di indipendenza e di resistenza. Il caso di Pietro Egidi, con il suo già ricordato volume su Emanuele Filiberto, non fu l’unico. Altri ce ne furono, tra cui quello di Gioele Solari. Negli anni accademici 1929-30 e 1930-31 Solari, professore di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza tra il 1919 e il 1948, tenne presso il filofascista Istituto superiore di Magistero un ciclo di lezioni in rapporto alla nascita dello stato moderno astenendosi da qualsiasi piaggeria nei confronti del regime. Solari – vale la pena di sottolinearlo – fu un «maestro di anticonformismo» (N. Bobbio) alla cui scuola si formò un’eccezionale schiera di studiosi (da Piero Gobetti a Norberto Bobbio, da Aldo Garosci ad Alessandro Galante Garrone, da Luigi Firpo a Ettore Passerin d’Entrèves).
Nel 1931 si ebbe una svolta con l’imposizione ai professori universitari del giuramento di fedeltà al regime fascista (dodici soltanto non giurarono, e, fra questi, tre appartenevano all’Università di Torino). Negli anni successivi, la metamorfosi tradizionale del sabaudismo in sabaudismo-fascismo trovò il suo massimo artefice e codificatore in Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon. Capo del fascismo torinese e quadrumviro della marcia su Roma, il monarchico e cattolico De Vecchi fu a lungo presidente della Società storica subalpina, la quale, poco dopo la riorganizzazione dell’alto avvenuta nel 1935 della Deputazione di storia patria, confluì nella Deputazione dando vita alla Deputazione subalpina di storia patria. Fu anche presidente dell’Istituto superiore di Magistero, elevato nel 1935, per sua iniziativa, al rango di Facoltà. Giunse a ricoprire una serie di cariche che gli consentirono di esercitare un capillare controllo sugli studi storici. Quale ministro dell’Educazione nazionale (1935-36) intraprese una martellante campagna per la «bonifica fascista della cultura». Rozzo lo schema storiografico (o meglio pseudostoriografico) da lui messo a punto sistematizzando idee che già circolavano: poiché a guidare il processo di unificazione era stata la dinastia dei Savoia, a quest’ultima fu attribuita una volontà unitaria rintracciabile fin dagli inizi del Settecento, senza peraltro che ciò inducesse a trascurare precursori sabaudi nei secoli precedenti. Il Settecento veniva dunque annesso al Risorgimento sotto il segno dei Savoia, e il Risorgimento fu visto come tappa di un percorso che era culminato nelle glorie dell’Italia monarchico-fascista. Anteriore al fascismo era un’altra data periodizzante cui spesso continuarono a ricorrere anche storici che sabaudisti e fascisti non erano: era la data del 1748, anno della pace di Aquisgrana.
Lo schema di De Vecchi ottenne largo consenso. A Torino gli storici più seri, pur con qualche cedimento, non ne furono condizionati in maniera sostanziale. Occorre anche ricordare che la casa editrice Einaudi, fondata nel 1933 da Giulio Einaudi, figlio di Luigi, contribuì a sprovincialzzare la cultura italiana, almeno per quanto i tempi difficili lo permettevano. E di respiro europeo fu la «Rivista di storia economica» (1936-41), edita da Giulio Einaudi e diretta da Luigi Einaudi.
Di fermezza diede prova Luigi Salvatorelli. Specialista di storia del cristianesimo e professore universitario a Napoli, aveva abbandonato la cattedra per partecipare alla lotta politica come giornalista. A Torino divenne nel 1921 condirettore di «La Stampa» e collaborò a «La rivoluzione liberale» di Piero Gobetti. Presso la casa editrice di Gobetti pubblicò nel 1923 Connesso con l’acuto volumetto del 1923 è
Le poche righe di ringraziamento a De Vecchi che Giorgio Falco, titolare della nuova cattedra di Storia medievale istituita nel 1930 presso la Facoltà di Lettere dell’Ateneo torinese, inserì nella Prefazione di
Cedimenti non mancarono nel cattolico Francesco Lemmi, che tuttavia rimase fondamentalmente un monarchico e un moderato. Erudito fedele alla Scuola storica, era però incline al moralismo, allo psicologismo, alla formulazione di massime generali, né risparmiò energie nella stesura di sintesi di alta divulgazione. La sua opera più riuscita è forse La politica estera di
Quando nel 1936 pubblicò
Chi fra gli storici torinesi si allineò in toto alle posizioni di De Vecchi, non per opportunistico adattamento, ma per comune sentire, fu Francesco Cognasso. Medievista di valore, nei suoi numerosi studi dedicati parzialmente o interamente all’età moderna e all’età risorgimentale propose e ripropose la tesi sabaudista-fascista (
Sul carattere assolutamente autoctono della cultura piemontese settecentesca non si stancò di insistere lo storico della letteratura Carlo Calcaterra nella trilogia «Il nostro imminente risorgimento» (1935), I Filopatridi (1941), Le adunanze della «Patria società letteraria» (1943). In realtà i testi stessi che l’autore faceva conoscere in quantità enorme provavano che il Piemonte era inserito nel circuito culturale europeo. Quello di Calcaterra era un sabaudismo letterario oltranzista che però non coincideva con il sabaudismo-fascismo.