Dossier

La psichiatria in Piemonte

Dal 1850 un secolo di insegnamento universitario a Torino

Frontespizio della lezione proemiale di Bonacossa Era il 10 dicembre 1850. Nell'aula del Regio Manicomio di Torino si svolgeva la Lezione proemiale detta all'aprirsi della clinica delle malattie mentali. Ad iniziare tale insegnamento, nuovo per la Università di Torino, era il medico collegiato Giovanni Stefano Bonacossa, in forza dell'art. 57 del Regolamento Organico del Regio Manicomio di Torino del 1837 (che aveva stabilito che il medico primario dovesse dare un corso di lezione a quegli studenti del V anno di Medicina, che fossero designati dal Magistrato della Riforma.

L'iniziativa, a dire del relatore, era tesa non soltanto a «perfezionare il medico nell'arte di guarire, ma gli farà procaccio di molte cognizioni indispensabili al retto esercizio dell'arduo suo ministero per li molteplici rapporti che ha con l'uomo come membro della civile società» (p. 10). I sanitari così «apprenderanno di buon'ora a conoscere quanto sciagurato possa essere l'uomo, anche senza sua colpa; si persuaderanno di leggieri che fastidiosa e lunga è l'arte che avranno a professare, breve la vita per saperla, periglioso lo esperimentare, l'occasione fuggevole e il giudicare difficile e si prepareranno medesimamente alla prudenza, magnanimità e beneficienza, doti tutte che indivise andar deggiano dal medico, che aspiri a compiere degnamente la sua missione».

Con parole anticipatrici del futuro, Bonacossa avvia l'insegnamento universitario della psichiatria a Torino, che egli conduce sino al 1874 (se lo riprende nel 1877, è solo per tre lezioni, perchè la cardiopatia, da cui è affetto, lo porta a morte).

La data del 10 dicembre 1850 è importante perché in Italia, sino a tutto il 1860, esistevano solo due insegnamenti universitari della nuova disciplina, rispettivamente, del Bonacossa a Torino e del Chiarugi (e del Bini che prese poi il suo posto) presso la scuola superiore di Firenze, dove, per volere di M. Bufalini, era stato istituito nel 1841 ed attivato nel 1844. Le altre sedi seguono in breve volger di tempo: e cioè nel 1863 sia a Bologna (con B. Monti e poi F. Roncato), sia Pavia (con C. Lombroso), sia Napoli (con B. Miraglia), cui seguono nel 1866 Genova (con L. Verdona), nel 1867 Padova (con A. Tebaldi), nel 1873 Roma (con G. Girolami), ecc.

Tale innovazione avviene mentre è in corso un vivace dibattito sul corso da dare agli studi medici, ossia circa la formazione generale unitaria o invece specialistica, nell'ambito della quale la psichiatria chiede con forza il riconoscimento della sua rilevanza. E si dibatte anche sull'insegnamento non teorico-accademico ma clinico-applicativo "osservando i folli nel loro elemento". Si moltiplicano, al riguardo, le prese di posizione dei nuovi docenti (G.S. Bonacossa 1850, S. Biffi 1856, A. Berti 1864, F. Bini 1876, Porporati 1857 ecc.). Con un insegnamento cattedratico in meno (i laureati) potranno «disimpegnare ugualmente tutti gli uffici del medico, con una clinica di meno dovranno incontrarli, riconoscere e confessare la loro incapacità a prestare efficace soccorso d'opera e di consiglio in quelle grandi classi di malattie, che non hanno mai osservato» (Bini 1876, p. 60).

La situazione rende comprensibile la circostanza che (con poche eccezioni) i nuovi cattedratici siano di derivazione ospedaliera locale. Così come rende comprensibile che il manicomio rappresenti il luogo preferenziale di formazione, ricerca, nonché della pubblicistica settoriale: «Gazzetta Medica Italiana- Lombardia, appendice Psichiatrica» (del Verga nel 1850), «Archivio Italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali» di A. Verga e S. Biffi nel 1864, poi fusa nel 1892 con la «Rivista Sperimentale di Psichiatria e Medicina Legale delle Alienazioni mentali» di C. Livi, A. Tamburini, E. Morselli, nel 1874, cui si aggiunge poi l’«Archivio di Freniatria» e l'«Archivio di Psichiatria, Antropologia Generale e Medicina Legale» (di C. Lombroso e Ferri, R. Garofalo nel 1880).

Ciò che avviene nell'ateneo di Torino costituisce una novità rispetto alle Università consorelle più in ritardo. Esso si colloca nel solco di un progresso in atto e l'ulteriore sviluppo lo dimostra.

Dopo la morte di Bonacossa (1878), si tiene per quattro anni l'insegnamento libero (con effetto legale) di Cesare Lombroso, allora professore ordinario di Medicina Legale. Dal 1880 al 1889 diviene professore straordinario della Clinica Psichiatrica Enrico Morselli, poi chiamato a Genova e sostituito da Cesare Lombroso, che già titolare dal 1876 della Cattedra di Medicina Legale, diviene ordinario di psichiatria nel 1886 e ne conserva peraltro l'incarico quando nel 1905 è nominato professore di antropologia criminale. Dopo la sua morte (1909) è per un anno "professore comandato" Arturo Donaggio, cui subentra Ernesto Lugaro, che, professore Ordinario di Malattie Nervose e Mentali, tiene la cattedra sino alla morte (1940), quando lo sostituisce Dino Bolsi che sino al 1968 svolge l'insegnamento congiunto della clinica delle malattie nervose e mentali. Questo insegnamento fu poi scisso con la titolarità della psichiatria (nel 1969) affidata a Michele Torre e successivamente a Giangiacomo Rovera e Filippo Bogetto.

Rivista diretta da E. Morselli Prima di menzionare gli apporti di Lombroso, occorre spendere brevi parole per gli anni in cui titolare dell'insegnamento fu Enrico Morselli, il più "evoluzionista" degli alienisti italiani e insieme il più "filosofo" tra i positivisti. Giunto a Torino per la direzione dell'ospedale psichiatrico nel 1880, subito ebbe a incontrare grave opposizione da parte di una amministrazione misoneista. Egli aveva infatti abolito i vecchi mezzi di coercizione (catene del peso anche di 5-6 kg) ivi ancora usati e per aver installato un laboratorio di psicologia sperimentale.

Con il 1889 si apre il periodo di affermazione della scuola torinese, dominata dalla figura di Cesare Lombroso, la cui fama è peraltro legata alla creazione di una nuova disciplina: la antropologia criminale, che con la psichiatria ha «una alleanza difficile» come è stato recentemente scritto (Frigessi 2003). Studio privato di Lombroso Se la fama di Lombroso è legata soprattutto agli studi criminologici, ciò è dovuto al fatto che egli seppe:

• raccogliere il meglio della dottrina positivistica del tempo («epopea dei fatti e del verificabile» sec. Spirito, 1956);

• applicare all'ambito del comportamento deviante delinquenziale modelli materialistici utilizzati in settori diversi;

• raccogliere selettivamente (seppure all'insegna di approssimazione, dogmatismo e radicalizzazione nella esposizione delle idee) i dati empirici intesi alla identificazione del criminale attraverso un sistema di segni (fisici, psicologici, di comportamento). Segni da ricercare attraverso l’osservazione clinica e la sperimentazione scientifica e che portano a una tipizzazione dei criminali;

• sostituire allo studio astratto del crimine quello naturalistico del reo con una "scientificizzazione" del giudizio penale;

• affiancare al concetto di imputabilità, responsabilità, capacità criminale, quello di pericolosità sociale;

• porre accanto al concetto di pena come punizione la misura terapeutica, mediante la intermediazione dei sostituti penali;

• porre sul tavolo della discussione

«un programma di ricerca che si applica ad un oggetto sostanzialmente inesplorato, ma già prodotto, insieme a postulati di ordine scientifico, basati su strumenti nuovi e complessivamente adeguati ai tempi, legati ad una inesauribile ricerca di segni di una storia antropologica dell'umanità» (Villa 1984).

Ritratti di criminali Va sottolineata la "psichiatrizzazione" della devianza. Lombroso ricorre a un modello riduzionistico e a una diagnostica che dovrebbe consentire di distinguere il soggetto normale dal criminale, l'alienato dal delinquente, il reo-nato dal mattoide. Egli figura fra i fondatori e sostenitori nel 1873 della Società Freniatrica italiana, è sostenitore fervido (con «lacune ed esagerazioni»", scriverà il Mantegazza) del «modello psichiatrico tedesco». Partecipa al dibattito sulla monomania omicida, sulla psicopatia, sulla follia morale, sulla diversità dell'uomo di genio, sui «periti alienisti nel foro», sulla competenza scientifica a esprimersi circa l'esistenza o no della responsabilità del malato di mente, sul vizio parziale, sul manicomio criminale, sul diritto di punire, sulle istituzioni di controllo sociale, sull'arte «pazzesca» (da cui prende l'avvio lo studio della «Psicopatologia dell'espressione»).

Ora, sul suo conto è stato detto tutto e il contrario di tutto. Si è fatto di lui vivo un gigante nazionale. Cinquant'anni più tardi lo si è chiamato: servo venduto della borghesia, visionario scientificato, semplificatore privo di metodo, affrettato nell'etichettatura e arbitrario nella costruzione scientifica. Sono occorsi altri trent'anni, perché venisse meno il crucifige in partenza, perché lo si vedesse come figlio del suo tempo e testimone di una cultura. Non bisogna valutarlo soltanto con gli occhi di oggi, forti dell'esperienza di un secolo in più. Lo si è, in altre parole, contestualizzato: il che era difficile ottenere anche dai suoi più immediati successori.

Alla morte di Lombroso subentra, dopo l'anno di "comando" per Arturo Donaggio, Ernesto Lugaro, caposcuola che domina la scena psichiatrica torinese sino all'inizio della II Guerra Mondiale. Studioso eclettico, si dedica con passione allo studio degli alienati. Egli lascia traccia indelebile nel trattato delle malattie mentali, che scrive (a partire dalla II edizione del 1914) con il suo maestro Eugenio Tanzi. Tanzi esplicitamente si era proposto nel 1905 di «rispecchiare con sobrietà, nelle debite proporzioni e senza intimi antagonismi, le due tendenze che si nascondono nella psichiatria: la Marta e la Maria, in cui essa si sdoppia, e che l'animano da una parte verso la pratica e dall'altra verso l'ideale».

Quest’opera, così come la restante produzione scientifica di Lugaro, ha preceduto nel tempo (e ne ha costituito la premessa necessaria) per l'altro manuale che ha illustrato la scuola torinese, cioè La Psichiatria clinica e forense che Carlo Ferrio dava alle stampe nel 1959, dedicandola appunto a Lugaro che, come Osvaldo Bumke, Federico Kiesow e Federico Rivano, gli era stato maestro.

A chiudere l'anello di un secolo di psichiatria universitaria è venuto poi Dino Bolsi, neuropatologo approdato nel 1925, dalla clinica di San Salvi a Torino. Per dodici anni (1954-1966) sarà presidente della facoltà medica torinese, e autore di un centinaio di opere. È il "padre" di molti cattedratici italiani (Visintini, Gomirato, Fasano, Bergamini, Maspes, Schiffer, Torre, Ravizza, Rovera).

Non fosse altro che per i fissati limiti di spazio la presente esposizione circa l'evoluzione storica della psichiatria in Piemonte fra metà '700 e metà '900 non poteva che riuscire superficiale e frammentaria, stante una sorta di "carotaggio" geologico nell'ambito di una microstoria locale, in cui il compito finiva con l'esaurirsi. Al di là della piccola cronaca può ravvisarsi peraltro lo specchio di una situazione geograficamente ben più ampia di quella qui esaminata ed evolutasi in direzioni talora divergenti. Il che è ben comprensibile dal momento che in medicina pochi argomenti sono stati e sono così fertili di discussione come l'alienazione mentale, a causa dei punti di contatto e del necessario rapporto della nuova disciplina con la filosofia morale, la storia dell'intelletto umano, la eziologia e la sociologia della devianza, la prevenzione e il trattamento delle manifestazioni abnormi della psiche e del comportamento. Prima di essere teorizzata, la storia dei manicomi (luoghi in realtà non di cura ma di isolamento e di esclusione per soggetti considerati pericolosi e paria della società) è stato un coacervo di pregiudizi, catene, violenze, e rozza disumanità. Il percorso per uscirne è stato contraddittorio, fatto di slanci e arretramenti, sotteso da innovazioni contrastanti ed è durato un secolo. La psichiatria piemontese può, a suo modo, considerarsi emblematica.

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