Dossier

Le scienze economiche a Torino tra metà Settecento e metà Novecento

Da Carlo Alberto all’Unità: ripresa riformatrice e rinascita della riflessione economica negli anni del Risorgimento

A partire dalla seconda metà degli anni trenta dell’Ottocento, e soprattutto nei primi anni quaranta, vi è in Italia una ripresa che si ricollega a quella della seconda metà del Settecento. Abbiamo una convergenza degli scrittori moderati nell’auspicare lo sviluppo delle infrastrutture, la riduzione o abolizione delle dogane, la revisione dei sistemi di istruzione, l’unificazione di pesi e misure, la disciplina della proprietà letteraria, l’emanazione di nuovi codici civile e commerciale. Sono tutte riforme che hanno lo scopo di promuovere l’unificazione economica. È questo infatti il primo passo verso l’unificazione politica, pensata sulla base del modello unitario oppure di quello federalista. Il modello federalista è visto come quello che più si concilia con l’economia liberale.

Carlo Alberto

Nel Piemonte di Carlo Alberto prende avvio un profondo mutamento della politica commerciale. Nel 1834 abbiamo la drastica diminuzione del dazio sul grano, l’abolizione del divieto di esportazione della seta greggia e del dazio di importazione sulle sete lavorate; nel 1842 l’adozione del nuovo Codice di Commercio (dopo la promulgazione del nuovo Codice civile); a partire dal 1843 la stipula di trattati commerciali con gli altri stati italiani e le principali nazioni europee. Trattati che sanciscono l’avvio del graduale smantellamento del regime protezionistico sabaudo.

L’epoca albertina segna anche la rinascita della riflessione economica nel Regno sabaudo. L’economia politica classica rappresenta il sapere moderno e raffigura l’Italia come avrebbe dovuto essere: libera politicamente, aperta al commercio col resto d’Europa, economicamente in crescita. Questa cultura economica offre un supporto all’opera di riforma guidata dal governo e influenza l’evoluzione costituzionale. Biblioteca dell'economista E’ una cultura che si diffonde ampiamente tra le classi dirigenti. Un esempio: il francese «Journal des economistes» contava più associati a Torino che a Lione e la Biblioteca dell’economista, l’importante iniziativa dell’editore Pomba ebbe un grande successo di sottoscrizioni.

I protagonisti di questa rinascita della cultura economica sono prima uomini vicini a Carlo Alberto quali Giacomo Giovanetti e Carlo Ilarione Petitti di Roreto, di cultura ancora fortemente settecentesca, e poi uomini che si formano sui nuovi testi dell’economia classica: Camillo Cavour, Carlo Ignazio Giulio, e, con la metà degli anni quaranta, il napoletano Antonio Scialoja e, qualche anno dopo, il siciliano Francesco Ferrara. Al processo di rinnovamento culturale contribuirono largamente intellettuali d’altre regioni d’Italia: grazie a loro, lo stato sabaudo si aprì alle influenze culturali europee. I temi centrali della discussione nel periodo sono: il liberismo, la modernizzazione e l’industrializzazione, oltre l’emergente questione sociale.

Ilarione Petitti di Roreto è un tipico rappresentante della classe intellettuale e dirigente albertina, liberista, anche se non liberale. Petitti è sostenitore di una posizione di graduale modernizzazione, sotto la guida dell’aristocrazia fondiaria e sotto la tutela del governo. Vede infatti con preoccupazione il tumultuoso processo di modernizzazione e industrializzazione che si stava attuando in Inghilterra. Nei suoi studi le conseguenze sociali dell’industrializzazione sono al centro dell’indagine: nel Saggio sul buon governo della mendicità (1837) mostra un atteggiamento critico sullo sviluppo manifatturiero che violava i sentimenti di umanità e morali, mentre in Del lavoro dei fanciulli nelle manifatture (1841) – il lavoro minorile era già diffuso nel pur limitato panorama delle manifatture piemontesi – mostra una posizione fondamentalmente anti-industriale, tipica di molti intellettuali europei della prima metà dell’Ottocento. Emerge il rimpianto per il subitaneo sparire delle corporazioni, il timore per l’imminente proletarizzazione dei lavoratori, l’elogio del lavoro a domicilio, la critica dell’urbanesimo, il primato dell’esigenza morale. Egli raccomanda di salvaguardare la caratterizzazione agricola dell’economia italiana. Alle trasformazioni è inutile opporsi, ma si devono proteggere le condizioni materiali e morali delle classi lavoratrici. Liberista moderato, Petitti affida la gestione di alcune attività economiche allo stato – è il caso delle ferrovie, l’assistenza ai poveri, l’istruzione popolare –, in quanto alcuni rami di tali attività sono destinati a restare passivi a lungo.

La generazione successiva a quella di Petitti rompe con l’atteggiamento timoroso verso il nuovo. Diventa centrale la questione della modernizzazione, ergo dell’industrializzazione; si guarda ai modelli di sviluppo inglesi e francesi. Si impone l’economia politica classica, sviluppatasi in quei paesi, come sistema di pensiero e interpretazione della realtà.

Camillo Benso Conte di Cavour Gli scritti giovanili di Camillo Cavour (1810-1861) sul pauperismo in Inghilterra dipingono una società industriale ben diversa da quella descritta da Petitti. Cavour riconosce che le sofferenze dei lavoratori inglesi erano gravi, ma minori di quelle sopportate dai popolani piemontesi. Analogamente, qualche anno più tardi Antonio Scialoja argomenterà che le macchine e la divisione del lavoro, essenziali per il progresso economico, non abbruttiscono l’operaio ma ne limitano la fatica. Sia Cavour sia Scialoja sosterranno che gli effetti sociali dell’industrialismo non rendono necessario predisporre un sistema di carità pubblica. Così invece aveva creduto Ilarione Petitti di Roreto.

Cavour individua nell’economia politica la disciplina su cui fondare il sapere della classe media. Questa classe deve sostituire la decadente aristocrazia e realizzare una società ispirata ai principi del liberalismo. Cavour espresse nei suoi scritti idee già ampiamente svolte dai suoi contemporanei, ma non è stato solo un volgarizzatore. Come ben vide Einaudi, «la sua grandezza economica consiste nell’essere egli stato il primo uomo di stato [...] il quale abbia compreso l’importanza dei problemi economici e sociali». Egli ebbe una chiara visione del ruolo che avrebbe potuto giocare il Piemonte nell’epoca dell’industrializzazione e della libertà dei commerci. Nello scritto De la question relative à la législation anglaise sur le commerce des céréales (1845) Cavour conviene con Ricardo sulla necessità di abolire le leggi protezionistiche sul grano e vede il futuro dell’Inghilterra, di nuovo con Ricardo, nella produzione manifatturiera. Infatti grazie all’accumulazione di capitale e al cambiamento tecnologico potrà scambiare i suoi manufatti con i prodotti agricoli dei paesi dell’Europa continentale. Da questo scenario Cavour prevede nuove opportunità di mercato per i prodotti tradizionali del Piemonte: tessili, grano, riso, olio, vini. Ciò entro il quadro dell’auspicata liberalizzazione degli scambi tra paesi europei.

Gli scritti economici di Cavour contengono un altro elemento importante: la discussione delle questioni sociali. La critica di Cavour al socialismo e al comunismo prefigura le critiche successive di parte liberale mosse a un’economia organizzata: per Francesco Ferrara, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi, il socialismo è una variante aggiornata dell’antico vincolismo medievale. Inefficienza e parassitismo sono i due mali di ogni organizzazione sociale che prescinda dal libero mercato. Un socialismo non più collettivista e anticapitalista potrebbe invece essere utile promuovendo politiche fiscali redistributive a favore dei ceti meno abbienti. Queste politiche non devono però diminuire l’incentivo a creare nuovi capitali. La distribuzione egualitaria del reddito non garantisce, secondo Cavour, l’abbondanza per tutti, mentre può essere dannosa per l’economia, se interferisce con il meccanismo di accumulazione del capitale fondato sul risparmio. Cavour, nel sottolineare l’importanza della questione sociale, si dice contrario al sistema delle vecchie Poor Laws inglesi, perché esso poteva rendere la condizione di assistito vantaggiosa rispetto a quella di lavoratore. Egli è invece favorevole alla nuove Poor Laws, risultato della riforma inglese del 1834, che stabilivano il principio secondo cui l’assistito non può godere di un trattamento migliore del più povero lavoratore, aboliva il sistema a domicilio obbligatorio nelle parrocchie e accentrava il sistema degli aiuti, consentendo la piena mobilità del lavoro nell’intero territorio. Per Cavour l’arretratezza e le cattive condizioni sociali si combattono con un mix di istruzione popolare, libero scambio dei prodotti, la mobilizzazione della proprietà fondiaria, l’emigrazione, ed anche i lavori pubblici, ma soltanto dove le opere pubbliche eccedono le forze dell’industria privata. Un’analisi particolare Cavour dedica alle ferrovie, individuando due linee di intervento: per le linee statali si deve ricorrere alla costruzione ed esercizio statale, mentre le reti secondarie possono essere gestite dai privati.

Ammiratore e studioso dell’economia politica classica e liberista, Cavour era però sempre pronto, nel passare dalla teoria alla sua realizzazione pratica, a fare concessioni agli avversari. Sia che si tratti di abolire i dazi sui grani, sui vini o sulle sete e sul ferro, egli si preoccupò sempre dei perturbamenti e degli squilibri che una mutazione troppo repentina avrebbe prodotto nelle industrie nazionali. Nessuno meglio di lui, ha scritto Einaudi, ha descritto la decadenza dell’agricoltura e dell’arte della seta nel Piemonte «all’ombra addormentatrice del protezionismo», ma egli riconobbe anche che queste industrie «tisicamente sviluppatesi in una serra calda non potevano d’un tratto essere trasportate all’aria ossigenata della libertà commerciale». Per Cavour il libero scambio non è un provvedimento che possa essere attuato appena i governanti si siano persuasi della sua positività, ma piuttosto andava introdotto in modo graduale.

Nella battaglia liberista, a partire dalla seconda metà degli anni quaranta, Cavour ebbe al suo fianco Antonio Scialoja (1817-1877), che venne ad occupare la reintrodotta cattedra di economia politica dell’ateneo torinese. Lo studio universitario dell’economia politica, abbandonato dopo i moti del ’21, fu ripristinato nella facoltà giuridica torinese solo con la riforma Alfieri dell’agosto 1846, che allargò il panorama delle materie insegnate. La riforma stabiliva una differenziazione negli insegnamenti della facoltà: da un lato vi era il corso normale di «leggi», quinquennale, dall’altro un corso «completivo» di due anni di specializzazione. Nel corso «completivo» a un uditorio limitato erano insegnate materie nuove come l’economia politica. Solo con il regolamento Lanza del 1856, in piena epoca cavouriana, il corso completivo fu abolito e tutti gli insegnamenti vennero a far parte del quinquennio di laurea. Alla cattedra di economia politica venne chiamato dal gennaio 1846 da Napoli Antonio Scialoja, giovane esponente della scuola napoletana. Gli era amico l’allora rettore dell’università torinese e professore di meccanica razionale, Carlo Ignazio Giulio, che auspicava il collegamento tra la sua materia e l’economia politica. Scialoja era già noto per le sue opinioni liberali e per i suoi studi economici: nel 1840 aveva pubblicato i Principi di economia politica esposti in ordine ideologico, libro che segue principalmente le teorie di Jean Baptiste Say. Trattato elementare di economia sociale Anche il Trattato elementare di economia sociale (1848) composto dopo la chiamata all’Università di Torino nel 1846, che ha carattere accentuatamente didattico, segue il modello del Catechismo di economia politica di Say. Dell’economista francese Scialoja riprende la teoria del valore, fondata sull’utilità e la difficoltà di conseguire le cose, la loi des débouchés, stando alla quale non è possibile il verificarsi di una crisi globale ma soltanto di crisi parziali, e la convinzione che il meccanismo di mercato permette di superare tali crisi.

Scialoja segue invece Ricardo a proposito dell’andamento nel lungo periodo delle quote distributive tra profitti, rendite e salari, accettando in agricoltura la legge dei rendimenti decrescenti e la tendenza della rendita ad aumentare in seguito all’aumento della popolazione e dei prezzi agricoli. Ricardianamente ritiene che vi possa essere una conflittualità tra rendita e profitto, ma non tra profitto e salario.

Secondo Scialoja la libertà economica è il principio generale su cui un sistema economico efficiente deve basarsi: egli immagina, in assenza di ostacoli, un unico sistema economico a livello mondiale caratterizzato da una forte specializzazione produttiva dei vari paesi nel quale lo scambio assicuri una disponibilità equilibrata e continua di prodotti. A differenza di Ricardo, Scialoja crede nella capacità del sistema di mercato di mantenere nel tempo una crescita equilibrata. L’intervento pubblico ha un ruolo limitato ma importante: nei Principi egli distingue tra interventi dannosi (leggi sul lusso, sull’usura e sull’incoraggiamento demografico), interventi talora opportuni e talora no (sostegno alle industrie nascenti), e interventi necessari (a tutela della concorrenza e della proprietà letteraria).

Scialoja resse la cattedra torinese di economia politica per breve tempo. Dopo la rivoluzione napoletana del 1848 lasciò Torino per Napoli, ove l’attendeva la carica di Ministro per l’agricoltura ed il commercio nel governo costituzionale del Troja. Nell’ottobre del 1848 gli subentrò nella cattedra di economia politica un altro liberale, il siciliano Francesco Ferrara, a Torino in volontario esilio, dopo le vicende del gennaio 1848 che l’avevano visto protagonista della rivoluzione costituzionale di Palermo. Scialoja tornò a Torino alla fine del 1852, esule, dopo anni di carcere a seguito della pesante reazione borbonica. Egli fu confermato con regio decreto professore onorario di economia politica dell’Università di Torino, riconoscimento simbolico perché non remunerativo. Tenne per un biennio l’incarico di economia e diritto commerciale presso la Camera d’agricoltura e commercio, per poi essere assorbito, fin dal 1853, dagli impegni col Ministero delle Finanze, dove fu uno dei più stretti collaboratori di Camillo Cavour, e uno degli artefici della politica economico-finanziaria sabauda, fino al 1860, quando tornò a Napoli incaricato nel governo provvisorio delle finanze, per poi ricoprire incarichi di ministro delle finanze e della pubblica istruzione nell’Italia unita.

Francesco Ferrara (1810-1900), successore di Scialoja, è il principale economista italiano del Risorgimento, oltre che patriota, giornalista e polemista, educatore dell’opinione pubblica. Come uomo di stato fu dapprima collaboratore di Cavour e poi suo avversario, conducendo una battaglia ultraliberista, sempre più isolata, contro il dominio degli «uomini pratici». L’azione dell’insegnamento, dell’opera giornalistica, della produzione scientifica di Ferrara sulla società torinese fu considerevole. Sulle orme di Scialoja, introdusse nella cultura economica torinese, allora fondata sulle letture più accessibili - Say, Chevalier, e, per pochi, Smith, Malthus, Mc Culloch - tutta la serie dei classici: «grazie a loro una dottrina già divulgata ed amata dilatò in Piemonte il suo raggio visuale, assumendo un carattere più scientifico e si arricchì di nuove conoscenze» (Giuseppe Prato).

Ferrara tenne la cattedra per circa un decennio, sino al 1858 (con un breve intermezzo tra gennaio e settembre 1849 quando resse la cattedra l’esule lombardo Emilio Broglio). Col suo corso universitario, con la pubblicazione della collana Biblioteca dell’economista, con le prefazioni che vi scrisse, Ferrara mostrò la varietà delle scuole e le controversie che le coinvolsero. Nella casa editrice Giuseppe Pomba Ferrara trovò il supporto necessario per diffondere i testi classici dell’economia. Nel corso di circa vent’anni dal 1850 al 1868 diresse le prime due serie, di tredici volumi ciascuna, della collana della Biblioteca dell’economista. La prima serie (1850-1860) copre il periodo torinese di Ferrara. Egli presenta l’evoluzione delle teorie economiche attraverso la scelta di testi esemplari. Lo spazio maggiore è riservato ai classici, da Quesnay e Smith a J.S. Mill, e agli economisti più rappresentativi del tempo, come Cherbuliez e Bastiat. La rappresentazione dello stato della scienza economica del tempo è significativa, con pochissime lacune. Affrontando i temi fondamentali – valore, scambio, moneta, distribuzione, crisi, sviluppo – Ferrara discusse il pensiero dei vari autori ed elaborò la sua visione teorica.

La sua prolusione al corso universitario di economia politica, dal titolo Importanza dell’economia politica e condizioni per coltivarla, tenuta il 16 novembre 1849, alla presenza di numerosi intellettuali e politici liberali espone i temi fondamentali del pensiero ferrariano, poi sviluppati nelle lezioni: l’economia politica come teoria del progresso, l’esaltazione della libertà, la polemica antidispotica e antisocialista. La prolusione fu poi pubblicata dall’editore Pomba, e fu anche riassunta e commentata da Cavour sul «Risorgimento» insieme ad altre lezioni del corso.

Nel modello economico di Ferrara l’umanità è condizionata dal problema della sussistenza. Il dolore dell’uomo è il principio fondamentale su cui s’innalza l’economia, perché è il motore di tutte le azioni umane. Il principio malthusiano di popolazione ne assicura il permanere. La scarsità ha reso la proprietà privata un bisogno, a sua volta la proprietà ha determinato le disuguaglianze: e queste sono le due fonti del progresso. La libertà è la condizione dell’incivilimento e l’economia politica ha la missione storica di convincere razionalmente della necessità della libertà. Coerentemente a tale visione Ferrara auspicava un’assoluta libertà commerciale e la completa astensione del governo da interventi in campo economico. Nella storia operano tre soggetti: gli economisti, i politici e le masse. Ai primi spetta convincere i secondi che a loro volta guideranno le masse. Ma la legislazione positiva deve solo adeguarsi a quella naturale. Ferrara portò agli estremi l’approccio ideologico all’economia politica diffuso in tutta Europa quale reazione alla supposta disponibilità del ricardismo all’agitazione socialista. Egli contestò le utopie sociali dell’Italia di allora - dal socialismo alla filosofia romagnosiana - perché originano dalla folle credenza in uno stato di perfezione raggiungibile. Le sue lezioni, frequentate dall’intellettualità sabauda, inizialmente affascinarono Cavour, che lo chiamò a scrivere sul «Risorgimento». Ma ben presto i loro rapporti si guastarono. In nome di una libertà assoluta, Ferrara condusse nei confronti del governo fiere battaglie giornalistiche, prima sulla «Croce di Savoia» e poi sull’«Economista».

Sono questi gli anni in cui avviene la modernizzazione del sistema bancario del Regno sabaudo. Prima con la costituzione della Banca Nazionale come banca unica di emissione nel 1850 poi, nel 1853, con la creazione della Cassa di commercio e della Cassa di sconto al fine di finanziare l’industria e le grandi opere infrastrutturali. Viene introdotta la nuova tariffa doganale in senso liberista sul modello inglese: aboliti i dazi all’importazione e all’esportazione di seta greggia e cereali, rafforzata l’unificazione doganale interna. Questi interventi furono accompagnati da una serie di trattati commerciali con vari paesi europei. Dalla Cassa si sconto nasce nel 1856, con la partecipazione della casa Rothschild, la nuova Cassa del commercio – Credito mobiliare.

La modernizzazione delle strutture del credito e la riforma doganale, insieme alla promozione della rete ferroviaria, erano finalizzate nel disegno cavouriano all’integrazione internazionale del regno sabaudo. Ferrara plaude agli interventi in senso liberista ma li critica quando vi scorge la difesa di gruppi e posizioni dominanti che minacciano la libertà. Così critica l’idea di unione doganale e sostiene la vantaggiosità del libero scambio, anche se unilaterale, per chi lo adotta. Attacca il privilegio assegnato alla Banca nazionale di emettere carta moneta avente corso legale per tutte le transazioni fra stato e privati, rileva con dolore che le leggi vincolatici dell’iniziativa individuale rimangono più numerose delle vere riforme emancipatrici. Ferrara denuncia nei suoi articoli incoerenza, ma la sua critica sembra eccessiva. Giuseppe Prato ha notato come le discussioni della Camera dei deputati attestavano il consenso di massima circa l’opportunità di distruggere i residui del monopolio corporativo, mentre le opinioni si dividevano sul modo. Nei dibattiti emergeva un alto e diffuso livello della cultura scientifica. Controversie simili a quelle che la camera e il senato subalpini condussero su tariffe doganali, convenzioni bancarie, regime dell’interesse, lavoro, scuola, commenta Prato, «non s’udrebbero certo oggi, nonché in un parlamento, neppure nelle aule delle più illustri accademie e dei più rinomati istituti scientifici». In questo quadro la critica ferrariana indicava l’inconciliabile antitesi tra l’intransigenza professata dal teorico ultraliberista e la politica graduale e realistica di approssimazioni seguita dal governo piemontese nel decennio 1850.

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